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Temo che il boyscout di Rignano riuscirà a farci rivalutare anche Silvio Berlusconi, a cui peraltro, col suo comportamento irresponsabile, ha già fornito un bell’assist, visto che Forza Italia nei sondaggi è data adesso al 10,6%, cioè in doppia cifra, livello cui era lontana da anni. Il boyscout, poiché è nato a Firenze, crede di essere una specie di erede di Machiavelli, ma per astuzia è un nano nei confronti del milanese Berlusconi. L’ex Cavaliere, che negli ultimi decenni è stato l’uomo più divisivo d’Italia, ha capito benissimo che in epoca di pandemia è bene assumere un atteggiamento conciliante, da “padre della patria”, non per il bene del “mio paese”, come soleva dire un tempo, come se fosse solo il suo, ma per il proprio tornaconto personale e per poter coltivare con l’aiuto di Matteo Salvino e Giorgia Meloni, il suo sogno di diventare Presidente della Repubblica.

Quando scende sul terreno politico bevendo, a suo dire, “l’amaro calice”, che in realtà si rivelerà amarissimo per gli Italiani, Berlusconi ha 58 anni. Qualcosa nella sua vita ha combinato. Ha fondato l’Edilnord e costruito Milano Due. Mi diceva Marcello Di Tondo, mio ex collega alla Pirelli, che è stato il suo braccio destro nella prima fase dell’ascesa imprenditoriale dell’allora Cavaliere: “C’era sempre qualcosa di visionario, di inverosimile, in quel che diceva Berlusconi. Ma poi io mi affacciavo alla finestra, vedevo tutti quei palazzi e mi dicevo ‘però tutto questo l’ha fatto lui’”. A Milano Due c’era una piccola emittente privata, controllata dalla Rizzoli, che trasmetteva solo per  i condòmini. Berlusconi la comprò, la chiamò Telemilano e nel giro di pochissimi anni divenne la Fininvest, il più grande gruppo televisivo privato italiano. Che questo monopolio della Fininvest per dodici anni fosse del tutto illegittimo è fuori di discussione. Ma la responsabilità non è di Berlusconi, ma di chi lo ha lasciato fare, cioè del santissimo Bettino Craxi che, in cambio di 21 miliardi, gli fece una legge ad hoc. Quindi si può dire tutto il peggio possibile di Berlusconi – come noi, insieme ad altri, abbiamo fatto tante volte – ma nessuno può negare che nei suoi primi 58 anni di vita abbia lavorato sodo, sia pur con metodi discutibili e a volte criminosi, dando lavoro a migliaia di persone. E tutto ciò partendo dal nulla perché, a differenza di Matteo Renzi che è figlio di suo padre, non aveva un genitore importante. Renzi appunto. Fino a 24 anni, quando entra stabilmente in politica, aveva fatto poco o nulla, scribacchiando per qualche giornale cattolico e curando per l’azienda di famiglia la gestione degli strilloni per La Nazione. Ma anche altri protagonisti della vita politica di oggi hanno un curriculum professionale un pochino più consistente: Giuseppe Conte e Virginia Raggi, gli “incapaci” e “incompetenti” per definizione, hanno esercitato per parecchi anni come avvocati. Mentre il boyscout di Rignano è il classico “professionista della politica”, cioè uno che, secondo la classica e spietata definizione di Max Weber, “tende a fare della politica una duratura forma di guadagno”. Ovviamente questa situazione non riguarda solo Renzi, ma nella maggioranza dei casi è la condizione della classe politica in democrazia. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica, la sola qualità del “professionista” è di non averne alcuna, il che gli consente una straordinaria adattabilità e duttilità. Da qui il fenomeno del trasformismo che percorre tutta la storia dell’Italia unita, ma che oggi è particolarmente all’ordine del giorno con il premier Conte che pur di formare un governo è costretto ad aggirarsi con una rete acchiappafarfalle, come ha denunciato Giorgia Meloni nel suo discorso di lunedì alla Camera. Io ho simpatia per Giorgia Meloni perché la sento animata da un’autentica passione, ma mi corre l’obbligo di ricordarle che uno dei suoi principali sodali, Silvio Berlusconi, non si limitava a fare ammiccamenti ai parlamentari, più semplicemente li comprava come fece con De Gregorio, pagato tre milioni di euro perché passasse dall’Idv di Antonio Di Pietro al Popolo della Libertà, e che un altro suo sodale, Renato Brunetta, in un’intervista rilasciata dopo le elezioni politiche del marzo 2018, si diceva sicuro che la destra sarebbe andata al governo e al conduttore che gli faceva osservare che gli mancavano una sessantina di parlamentari, rispondeva ridacchiando “eheh, ci sono i ‘responsabili’”, cioè l’equivalente di quelli che oggi vengono chiamati “i costruttori”. Quindi Giorgia Meloni, che, sia pur appassionata, è a sua volta una professionista della politica, non può fare l’”anima bella” solo quando ad accalappiare parlamentari col retino da farfalle sono i suoi avversari e starsene muta, sorda e cieca, come la scimmietta del proverbio giapponese, quando a far lo stesso sono i suoi amici.

Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2021

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In un articolo sul Fatto del 12/1 mi auguravo che l’“affaraccio” Trump e le sue stravaganti, chiamiamole così, dichiarazioni su Twitter stimolassero un dibattito serio sulla Democrazia. In realtà poiché alcuni grandi social media hanno chiuso la porta in faccia a Trump bloccando i suoi account, cioè in realtà impedendogli di parlare, il dibattito si è accentrato sulla libertà di espressione, se questa non conosca limiti e soprattutto se sia uno degli elementi fondanti della democrazia liberale. Anche nella democrazia liberale il diritto di parola, scritta o parlata, incontra dei limiti nei diritti altrui. Esistono i reati di diffamazione e ingiuria e, in Italia, che pur è considerata una democrazia sia pure imperfetta, reati chiaramente liberticidi ereditati dal Codice Rocco come il vilipendio alla bandiera, al Capo dello Stato, alle Forze Armate. Che i reati di diffamazione, che colpiscono soprattutto noi giornalisti, debbano essere sanzionati penalmente, in qualsiasi Paese, democratico o non democratico, è fuori discussione. Anche l’onorabilità delle persone eventualmente offese è un valore tutelato giustamente dalla legge. Intollerabili sono invece i reati che abbiamo ereditato dal Codice Rocco (quelli che ho citato, vilipendio alla bandiera, al Capo dello Stato, alle Forze Armate) perché sono classici reati di opinione che in una democrazia non dovrebbero esistere. Più inquietanti ancora sono i reati introdotti nell’Italia repubblicana con la legge Mancino del 1993 che punisce i cosiddetti “crimini d’odio” cioè, semplificando, l’odio razziale, etnico, religioso, perché di per sé istigherebbero alla violenza. È di fatto il reato che oggi si addebita a Donald Trump. Ho già scritto che l’odio, come la gelosia, l’invidia, l’ira, è un sentimento e come tale non può essere compresso da una legge penale. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, pure, anche se questo non è molto intelligente, intere etnie o comunità. Nemmeno i regimi più autoritari hanno osato mettere le manette ai sentimenti, le hanno messe alle idee, alle opinioni e soprattutto alle azioni. In una democrazia liberale tutte le idee, anche quelle che ci paiono più aberranti, dovrebbero avere il diritto di cittadinanza, con un unico e fondamentale discrimine: buone o cattive che siano, non possono essere fatte valere con la violenza. Io ho il diritto di odiare un malgascio, ma se gli torco anche solo un capello devo andare dritto e di filato in gattabuia.

La questione autentica, che in questi giorni i media, concentrati, in seguito alle ‘stravaganze’ di Trump, sulla libertà di espressione, hanno bypassato sta nella domanda: che cos’è in realtà la democrazia liberale? E qui nascono i problemi. Norberto Bobbio, che ha dedicato la sua lunga e laboriosa vita allo studio della democrazia, in un primo momento aveva individuato nove elementi costitutivi della democrazia liberale, poi, constatando che molti di questi elementi erano presenti anche in altri sistemi, era sceso a sei, poi a tre e infine ha partorito questa definizione: “Per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole e di procedure per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”. Una definizione così evanescente da non significare in realtà nulla. Il grande giurista austriaco Hans Kelsen (ma anche Schumpeter) è andato più a fondo affermando in sostanza che la Democrazia è innanzitutto e soprattutto un metodo, è costituita da una serie di procedure formali, avalutative, cioè prive di contenuto e di valori (dal momento che quelli che vengono sbandierati come propri del sistema, la libertà o l’uguaglianza o la rappresentanza, sono, secondo Kelsen, delle mere fictio iuris, delle finzioni giuridiche), per determinare la scelta dei governanti sulla base del meccanismo del prevalere della volontà della maggioranza. La Democrazia non è quindi un valore in sé, il suo valore si definisce dai contenuti che stanno all’interno del perimetro costituito dalle procedure. Ciò che resta fermo e invalicabile è che queste procedure non possono essere cambiate in corso d’opera se non seguendo le regole che queste stesse procedure dettano per arrivare a un tale cambiamento. Ma anche questo limite è stato sfondato, come ci avverte Norberto Bobbio, sulla cui lealtà democratica non ci possono essere dubbi. Scrive Bobbio: “Altro è la costituzione formale, altro è la costituzione reale e materiale”. Che cos’è questa costituzione materiale che salta fuori improvvisamente, dopo tanto parlare di leggi, di norme, di procedure, di regole del gioco sacre e inviolabili? La “costituzione materiale” è quella che le oligarchie partitiche ed economiche creano violando giorno dopo giorno la Costituzione formale, con buona pace di Marco Travaglio, cioè proprio le famose “regole del gioco”. E quando si viola la Costituzione formale per sostituirla con una “fai da te”, creata dalle oligarchie senza il consenso dei cittadini, senza che nemmeno siano stati messi nella condizione di esprimerlo, ponendoli di fronte al fatto compiuto, la Democrazia non è più tale. Dunque siamo di fronte alla finzione di una finzione.

Tuttavia il problema vero è un altro. Ammettiamo pure, anche se ciò di fatto non accade, che queste procedure formali siano rispettate. Di che cosa abbiamo riempito questo sacco vuoto, non solo in Italia ma nell’intero Occidente democratico? Siamo stati capaci di riempirlo solo di contenuti quantitativi e materiali. Ed è questo il vero problema dell’intero Occidente, della sua mancanza di valori autentici, che non siano quelli del meccanismo “produci-consuma-crepa” per dirla con i CCCP, meccanismo che si autopotenzia in continuazione nello stesso tempo in cui ci degrada, col nostro consenso, che è l’unico vero consenso che esprimiamo, non quello delle elezioni, da uomini a consumatori. Insomma la Democrazia non è che l’involucro legittimante di questa caramella avvelenata. Per questo le categorie politiche nate con la Rivoluzione francese, declinate in senso liberista o marxista, economiciste, cioè la Destra e la Sinistra, che pur hanno avuto per un paio di secoli un ruolo importante, oggi, agganciate a questo meccanismo paranoico, hanno perso il loro senso, perché non sono più in grado di intercettare le autentiche esigenze dell’uomo contemporaneo che, per quanto sembri paradossale dirlo proprio oggi, non sono economiche, sono esistenziali.

Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2021

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Cento anni fa sarebbe stato possibile a un Governo democratico, e anche non democratico, imporre a un’intera popolazione di non uscire di casa se non per andare a lavorare, contingentare i rapporti fra i famigliari, annullare di fatto cerimonie religiose o altri riti consolidati? Fra il 1918 e il 1920 la “spagnola” uccise solo in Europa un numero di persone imprecisato, comunque milioni. Ma nessun governo dell’epoca pensò di applicare misure come quelle che vediamo oggi. Eppure le capacità devastanti delle pandemie erano ben note visti i precedenti (la peste nera del 1300, la peste del 1600 di manzoniana memoria, per dire solo di alcune). Del resto nemmeno in seguito, anche in un’epoca relativamente recente, penso all’“asiatica” del 1957, furono prese precauzioni che ricordino nemmeno lontanamente quelle utilizzate per il Covid 19, per il quale da quasi un anno viviamo in una sorta di lager sovietico o nazista, con la differenza che siamo reclusi a casa nostra e non in baracche fatiscenti.

Cos’è cambiato? Un maggior potere dei governi, una loro maggiore capacità di persuasione, lo spirito di un gregge che non osa ribellarsi più a nulla, un maggiore senso di responsabilità, una maggiore paura della morte? Tutti questi elementi concorrono, ma a mio parere l’ultimo, la paura della morte, è il più incisivo. La morte, la morte biologica intendo, quella che prima o poi tocca tutti, non sta nella società del benessere e in una cultura che ha sancito il “diritto alla ricerca della felicità” (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, 1776) che però l’edonismo straccione contemporaneo ha metabolizzato in un diritto alla felicità tout court rendendo con ciò, ipso facto, l’essere umano più infelice di quanto lo sia normalmente. Che felicità ci può mai essere se poi, a conti fatti, si muore lo stesso? E quindi nella nostra società la morte, quella biologica, è stata interdetta, proibita, scomunicata.

Ai primi del Novecento, benché la Rivoluzione industriale fosse in atto già da un secolo e mezzo, la società rimaneva ancora largamente contadina ed era ancora assorbita da quella mentalità. L’uomo-contadino che viveva a contatto con la natura sapeva bene, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, che la morte non è solo la conclusione inevitabile di ogni vita, ma ne è la precondizione. Non ci sarebbe la vita senza la morte. Inoltre quell’uomo viveva in famiglie allargate, in comunità coese, a stretto contatto con la natura di cui si sentiva parte. Noi viviamo invece attorniati da oggetti che non si riproducono ma sono sostituibili, alla cui sorte ci sentiamo sinistramente omologhi, e quindi la nostra morte ci appare come un evento radicale, strettamente individuale e quindi inaccettabile. In realtà questa favolosa società del benessere che abbiamo inseguito e creato sembra essersi paradossalmente e dolorosamente capovolta in uno straordinario malessere. Nel 1650, un secolo prima del take off industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti, nel 1850, con statistiche certamente più accurate, erano 6,9 per centomila abitanti, triplicati, oggi sono mediamente 20 per centomila abitanti, decuplicati. E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto più profondo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Negli Stati Uniti, il Paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di posizione che gli derivano dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, più di un americano su due (560 su mille) fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella propria pelle. Il fenomeno devastante della droga, una volta riservata alle élite ma che oggi coinvolge soprattutto i giovani, è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottuso ottimismo di Candide, di vivere nel “migliore dei mondi possibili”.

Da quasi un anno quindi noi, e non intendo in particolare gli italiani, viviamo in un sistema da lager. Fino a quando potremo reggere questa situazione? Si confida nei vaccini ma è dubbio che possano essere risolutivi, perché il virus, che non è cretino, in dieci mesi è già mutato, per quel che ne sappiamo, quattro volte, e se i vari vaccini riescano a coprire queste mutazioni è una questione ancora aperta nella comunità scientifica.  Un altro anno di questa vita solipsistica, masturbatoria e innaturale non è pensabile. Prima o poi, per dirla con Ortega y Gasset, ci sarà una “ribellione delle masse”. Per la paura di morire ci stiamo rifiutando di vivere.

Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2021