Joe Biden ha promesso, e ottenuto dal Congresso, di immettere sul mercato americano, devastato anch’esso dalla pandemia, 1900 miliardi di dollari. Dove li ha trovati? In nessun posto. Sono crediti. Perché il denaro, nella sua estrema essenza, è un credito verso il futuro. Quando il barista (all’epoca in cui si poteva ancora andare al bar) segna sulla sua lavagnetta che gli devo dieci caffè crea in realtà denaro, conta cioè sul fatto che quel debito io lo onorerò. Quando ho 100 euro in tasca, io ho un credito erga omnes, so che qualcuno, quando glielo presenterò, mi darà in cambio un bene o un servizio. Singolarmente prese queste transazioni, questo scambio fra un credito e un debito, non creano problemi. Il problema nasce quando il volume di questi crediti diventa enorme, perché come scrive il filosofo ed economista Vittorio Mathieu “alla lunga i debiti non vengono pagati”. E allora si ha il crack. È la storia di Lehman Brothers e dei mutui, i famigerati subprime.
Biden in realtà non fa che aumentare una bolla speculativa, un gigantesco credito verso il futuro che prima o poi, non potendo essere esaudito, ci ricadrà addosso (l’indebitamento totale del mondo ha raggiunto il 355% del “Prodotto Interno Lordo” annuo dell’intero globo). È proprio per questo che, conoscendo il pericolo, Angela Merkel aveva imposto in Europa il criticatissimo regime di austerità. Però in un mondo divenuto globale questa saggia prudenza non paga quando in giro c’è gente che bara sapendo di barare.
Nel mio libro Il denaro. “Sterco del demonio”, la definizione è di Martin Lutero, che è del 1998, prevedevo una probabile e imminente catastrofe globale, anche se poi dieci anni dopo, nel 2008, si realizzerà in forma più limitata, coinvolgendo comunque una buona parte del mondo, in particolare l’Europa come abbiamo sperimentato sulla nostra pelle. Anche il prossimo crack, che avverrà, presumo, entro una decina d’anni, non sarà risolutivo, verrà tamponato immettendo altro credito nel sistema, come sta facendo adesso Biden, ma in quantità molto più ingente. Il crack globale, e senza possibilità di ritorno, avverrà più avanti. Questo è certo. Per dirla in parole semplici siamo, globalmente, nella posizione di un debitore che per coprire il suo debito ne fa un altro più grosso e poi un altro più grosso ancora fin quando viene il momento in cui gli strozzini non gli credono più. Solo che in questo caso noi siamo gli strozzini di noi stessi.
Scrivevo nell’ultima pagina del Denaro. “Sterco del demonio”: “Il giorno del Big Bang non è così lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, è rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine noi, alla velocità cui stiamo andando, proprio grazie al denaro lo stiamo vertiginosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte... Se il futuro è infinito e illimitato lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L’impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O, forse, in un moto circolare, niciano, einsteniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell’immenso debito di cui l’abbiamo caricato. Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c’è, sul niente, sul Nulla. In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente”.
Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2021
Poiché le autorità ci impediscono tutto, la sera vedo cassette di vecchi talk e mi sono imbattuto in un “Uno contro tutti” del Costanzo Show, dove “l’uno” era Vittorio Feltri. Che splendido Feltri era quello su cui non era ancora passata la pesante ala di Berlusconi. Anche fisicamente (sono passati quasi trent’anni ed entrambi, coetanei, ci siamo logorati in tante battaglie che ci hanno visto prima fianco a fianco e poi duramente contrapposti), ma soprattutto intellettualmente. Ha impartito, con eleganza, garbo e persino un pizzico di umiltà, una vera lezione di giornalismo, anche dal punto di vista puramente tecnico, ma ovviamente non solo di giornalismo, alla ristretta platea di “nani e ballerine” che doveva fargli il contropelo (Margherita Boniver, Pecoraro Scanio, Sandro Curzi, Marco Giusti fra i tanti). A chi gli contestava di essere troppo vicino alla Lega di Bossi ha spiegato che quando compare un fenomeno nuovo, magari anche allarmante, il primo dovere di un giornalista è cercare di capirlo e di analizzarlo senza preconcette demonizzazioni. Ha difeso Antonio Di Pietro (che Berlusconi, che diventerà poi il padrone del Giornale, definirà “un uomo che mi fa orrore”) e la magistratura. Ha affermato: “Io sono garantista, ma sono garantista per tutti, non solamente per i politici, i quali si accorgono che è necessario essere garantisti solamente adesso che sono colpiti, e questo è macroscopicamente ingiusto”.
Era questo il Feltri dell’Indipendente, passato sotto la sua direzione dalle 19.500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma simil-anglosassone Ricardo Franco Levi alle 120.000, un record ineguagliato nel giornalismo italiano del dopoguerra. Del resto anche all’Europeo, che aveva diretto prima di affrontare l’avventura dell’Indipendente, aveva fatto benissimo: da 78.000 copie a 120.000, se non ricordo male.
Non pensi il lettore che io voglia elogiare il giovane Feltri a spese del vecchio. Non è questo. Il mio è un rimpianto. Il rimpianto di un’occasione mancata e dell’irripetibile stagione di Mani Pulite di cui, oltre a Feltri, e in questo caso più di Feltri, furono protagonisti Di Pietro, Bossi, Gianfranco Funari. Una stagione che avrebbe potuto cambiare la storia del nostro Paese, che invece mancò l’obbiettivo perché, nel giro di soli due anni, tutti i poteri forti dell’ancien régime, partitici ed economici, ripresero il controllo della situazione.
L’Indipendente fu favorito da parecchie circostanze, alcune esterne e addirittura lontane, e altre interne. Il collasso dell’Urss, quindi la minaccia dell’”orso russo” non c’era più, non valeva più il “turatevi il naso” di Indro Montanelli, e molti voti che erano stati democristiani, ma anche di altri partiti, confluirono sulla nascente Lega. E la comparsa della Lega, cioè di una vera forza di opposizione, poiché il Pci, poi diventato Pds, si era associato al potere, liberò le mani dei magistrati di Mani Pulite, che presero ad arrestare centinaia di politici corrotti. Nell’Indi c’era una redazione giovane, molto motivata, vogliosa di riscatto, e il vice di Feltri era Maurizio Belpietro, un formidabile “secondo” (in seguito dimostrerà di essere anche un buon direttore). Nei primi tempi io accompagnavo in giro Feltri per propagandare il nostro fragile giornale (60 dipendenti in tutto). Nella giornata, Vittorio faceva una sola telefonata a Belpietro, verso le sei, e Belpietro sapeva interpretare alla perfezione le intenzioni del direttore. Tutto andava bene ed eravamo già in fase di sorpasso del Giornale e se Montanelli se ne fosse andato via, com’era pressoché certo, perché aleggiava già la figura di Berlusconi non più imprenditore ma divenuto uomo politico, ci sarebbero arrivate 40 o 50.000 copie senza colpo ferire. Inoltre né Feltri né io, che ho avuto una parte in quella storia, eravamo compromessi coi partiti dell’ancien régime, mentre gli altri giornali, che in quella schiuma sporca avevano nuotato, dovevano andarci molto cauti, dovevano scrivere col freno a mano tirato (“Dieci domande a Tonino”, editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera). Nonostante la malinconia di fondo che è ciò che più intimamente ci unisce, parlo di Feltri e di me, per una volta eravamo davvero felici.
Una sera d’agosto del 1993 Feltri mi invita a cena. Non nei luoghi esclusivi che in seguito gli sarebbe piaciuto frequentare, ma in una pizzeria sotto casa mia. E mi fa la terrificante domanda: “Se vado al Giornale, vieni con me?”. Gli dissi di no e cercai di spiegargli che era un errore professionale, politico e anche personale: “Guarda che la libertà che abbiamo oggi non la ritroveremo mai più”. Finita la cena, un po’ brilli, alzammo i calici e Vittorio esclamò: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si ripeterà altre due o tre volte. L’ultima, il giorno dopo firmò per il Giornale e si portò via tutti i migliori editorialisti, e la struttura portante. Io che ero rimasto cocciutamente all’Indi, gli davo del “traditore”, del “voltagabbana”, ma lui, che pur è permalosissimo come tutti i polemisti, non se la prese più di tanto. Una sera, quando aveva già lasciato l’Indipendente per il Giornale, cioè per Berlusconi, ci trovavamo a Bergamo, la sua città, e il pubblico che era tutto di parte leghista prese a insultarlo pesantemente. Intervenni e dissi: “Non potete dimenticare quanto Feltri ha fatto per la Lega”. Sottobanco, Vittorio mi prese la mano e me la strinse. Io, che sono un sentimentale, questo episodio lo ricordo, lui non so. Ma anche dopo, seppur in un modo molto ondivago, continuammo ad avere rapporti. Se avevo un articolo che nessuno avrebbe osato pubblicare, telefonavo a Vittorio. A una durissima inchiesta sul commendevole gruppo Rizzoli-Corriere della Sera diede due colonne di spalla in prima pagina e due pagine all’interno. Ogni riga, se non fosse stata veritiera, era da querela. Ma nessuno del commendevole gruppo alzò orecchia. Il 31 maggio del 2007, quando dirigeva Libero, gli inviai un pezzo che iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno, che si batte per la libertà del proprio paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lotta con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo…Vorrei essere e vorrei essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per sessant’anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.
Tutto si può dire di Vittorio Feltri, tranne che non abbia un intuito giornalistico. Un intuito che non è semplicemente narcisistico, autoreferenziale, alla Oriana Fallaci, ma che è sempre messo al servizio del giornale e dei suoi lettori. A parer mio Vittorio Feltri è stato il miglior Direttore della sua, e mia, generazione, e anche di un paio di quelle precedenti.
Negli ultimi tempi ci siamo irrimediabilmente guastati. Mi ha attaccato e fatto attaccare con prose così vili e sciocche da far disonore a chi le firma. Però, nonostante tutto questo, voglio dire qui: grazie Vittorio.
Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2021
E così, con l’ultima pennellata, Matteo Renzi ha completato il suo capolavoro, una sorta di Monna Lisa al contrario, appesa per i piedi o col celebre viso rivolto verso il muro. Il 21 luglio 2020 l’Unione Europea, grazie ai buoni uffici di Angela Merkel ma anche al lavoro diplomatico di Giuseppe Conte, ci aveva accordato 207 miliardi di Recovery Fund. Veniva così messa in tavola un’appetitosa torta che solleticava i famelici appetiti dei soliti noti. Bisognava far fuori Conte che avrà anche, come tutti, i suoi limiti ma è un uomo integro e quegli appetiti avrebbe saputo tamponare. È allora che Renzi, in combutta col Presidente Emerito Mattarella e col futuro Onnipotente Mario Draghi, incomincia a tirare la corda per far cadere un governo che avrà avuto anche i suoi limiti, ma era sufficientemente coeso (al 97%, il restante 3 rispecchiava Renzi) perché un partito come il Pd ha certamente più affinità con i 5Stelle che con Matteo Salvini e Forza Italia. I 5Stelle sono uno strano animale politico, una specie di Democrazia cristiana degli anni Duemila, con in pancia sia fattori di sinistra, prevalenti (reddito di cittadinanza per dirne una) sia fattori di una certa destra antiatlantica e antiamericana rappresentata simbolicamente da Alessandro Di Battista, sia fattori del tutto propri, i più interessanti a mio parere: l’antimodernismo coniugato con l’ecologismo (no alla Tav, anche se poi han dovuto ingoiare il rospo, no al ponte sullo Stretto, no alle trivellazioni, no alle Grandi Opere sì alle piccole).
L’operazione riuscì al catto boyscout e il governo cadde, in piena pandemia, cosa che si è permessa solo l’Olanda ma per motivi molto più seri. Il governo Conte, durante le tre settimane della crisi, fu paralizzato e certamente si deve anche a questo il ritardo nella campagna vaccinale, oltre che alla criminale ingordigia delle case farmaceutiche che non contente di far già soldi a palate si sono create un superadditum di profitto violando i contratti e vendendo sottobanco al miglior offerente.
Intanto nelle more fra la caduta del governo Conte e l’insediamento del nuovo governo, Matteo Renzi, mentre noi comuni mortali non potevamo quasi uscir di casa, trasvolava regioni, stati, continenti, per andare a incontrare, pagato 80.000 dollari (non olet) il principe saudita bin Salman, accusato dagli Stati Uniti di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Questo, insieme al regime più sessista del mondo, il Renzi lo chiamava “nuovo Rinascimento”.
Poi arrivò finalmente l’Onnipotente “che tutto dà e tutto toglie”, accolto da un consenso planetario, il banchiere e finanziere Mario Draghi. È noto e arcinoto che i banchieri e finanzieri hanno un particolare penchant, quasi un amore, per le classi più svantaggiate ed economicamente più deboli. Loro gli amici li hanno in altri quartieri, in Europa e negli Stati Uniti. In più l’Onnipotente ha messo nei posti che contano militari e gendarmi di ogni genere ed uomini della destra salviniana (chiedo scusa alla Destra) oltre che sottoposti del pregiudicato Berlusconi. Si è creato insomma, approfittando della pandemia che aveva già permesso di calpestare quasi tutte le libertà personali, un vero e proprio Stato di polizia.
È a questo punto che Zingaretti deve essersi chiesto se non fosse assurdo che un partito come il Pd, che nonostante tutto viene da una storia di sinistra, appoggiasse un governo di tal genere, di destra, turboliberista, poliziesco. Renzi ha quindi ottenuto, dopo Conte, anche lo scalpo di Zingaretti e disgregato ulteriormente il partito democratico. Questa è la mia personalissima lettura. Ma dice un vecchio proverbio “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. E se l’indignazione che ha colto Zingaretti diventasse comune anche ai 5Stelle e a Leu, e questi se ne andassero dal governo lasciando l’Onnipotente in braghe di tela? Non so chi vincerebbe le prossime elezioni, probabilmente la destra, forse a guida Giorgia Meloni, ma Matteo Renzi ne uscirebbe asfaltato.
Diceva il compagno Rino Formica, un socialista onesto, particolarmente meritevole perché è difficile rimanere onesti quando si è circondati da dei ladroni, che “la politica è merda e sangue”. Purtroppo oggi la merda sembra aver coperto quasi interamente il sangue, cioè gli ideali di cui ogni partito, ma direi ogni uomo, dovrebbe farsi portatore.
Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2021