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Poiché Marco Travaglio continua a dilazionare i miei articoli anche quando riguardano il discorso di un Papa, a meno che non sia nella linea pacifista del giornale anche quando riguarda questioni profonde ed essenziali del mondo moderno, scriverò qui per me stesso e per chi abbia voglia di leggere.

Ci siamo salvati dal 25 aprile, dal primo maggio e ci salveremo anche dalla festa napoletana, cui si è iscritto anche Berlusconi, per la vittoria del Campionato seppure fosse assicurata da tempo. Sono un tifoso anch’io e capisco la gioia dei napoletani.  Capisco meno che il telegiornale serale di Sky abbia dedicato un paio d’ore a questa vittoria costringendo i suoi telecronisti o commentatori a dire almeno 33 volte che erano 33 anni che non vinceva lo scudetto. Forse sarebbe stato più opportuno ricordare che il Napoli quest’anno ha mancato un obiettivo che sembrava abbondantemente alla sua portata. La finale di Champions. Si è fatto battere dal Milan. Così per una serie di coincidenze in finale ci andranno il Milan o l’Inter, due delle peggiori squadre a livello europeo. Il Manchester city ha spianato la strada battendo il Bayern e il Paris Saint Germain e probabilmente sbatterà fuori anche il Real Madrid. La finale tra City e Inter o Milan fra il City di Kevin De Bruyne e l’Inter o il Milan non dovrebbe avere storie a meno che il genio Guardiola non costringa De Bruyne all’ala, come ha già fatto altre volte, e insista coll’oggetto misterioso Grealish costato 117,5 milioni di euro, una cifra mai pagata per nessun calciatore.

Quando Sky approdò in Italia nel 2003 mi ci abbonai subito, pensavo che essendo proprietà di un australiano, Murdoch, sarebbe stato più obiettivo sulle vicende italiane. E non mi sbagliavo. Quando nel 2018 Sky è stata acquistata dalla Comcast americana tutto è cambiato. Oggi Sky è appecoronata al pensiero comune e al Governo. A Sky rimangono due eccellenze. Una è Omar Schillaci che si occupa di musica e nelle sue interviste è capace di far dire cose intelligenti persino a Baglioni o a far comprendere le canzoni di Battiato non sempre facili. L’altra eccellenza è Chiara Martinoli cui a volte, rare, fanno fare la rassegna stampa dell’una o delle due di notte. Non si tratta di una cosa facile, si tratta di leggere gli svariati argomenti dei giornali dando però loro un filo conduttore che riassuma la giornata appena passata. Lei la fa benissimo meglio di tutte le sue colleghe. Una volta sola le hanno fatto condurre anche il Tg, sola per ragioni credo di intuire ma che cercherò di chiarire più avanti. Chiara che deve avere trenta o trent’uno anni non è bella, ha qualcosa di più, ha grazia. Per capire cosa sia la grazia mi rifarò ad un estratto della voce così intitolata nel Dizionario Erotico: “nella grazia c’è qualcosa di primigenio, di infantile, di candido, di casto, di spontaneo, di non lezioso, di non manierato, di non artefatto e, insieme, di malizioso. La grazia, a differenza della bellezza, non è un fatto statico, ma dinamico, si esprime in uno sguardo, in un sorriso, in un gesto, in un movimento e talora anche in un’imperfezione birichina che anima il viso”. In Chiara questo qualcosa in più si esprime in un certo tono della voce, in una erre arrotondata per cui io le farei direi mille volte ramarro è questo, credo, il motivo per cui la tengono il più possibile a distanza. Perché quando legge Chiara non ti importa nulla di quello che dice e il telespettatore è incantato dal suo viso che ricorda la Venere del Botticelli (“grazia suprema, eterna, e quindi modernissima”). Una volta, una sola, hanno fatto vedere Chiara Martinaroli in piedi, in calzoni, non formosa ma sottile al punto giusto, e hanno cambiato subito l’inquadratura perché il telespettatore non pensasse di essere capitato in una trasmissione hard. Diciamo l’hard composto, non esagerato di una serie di cassette che andavano di moda negli anni novanta titolate “School Girls”.

Quindi viva Chiara Martinoli abbasso il ferrigno Travaglio.

Massimo Fini, 05.05.2023

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Ci risiamo. Il rettore dell’università di Milano Elio Franzini e il rettore del San Raffaele, Felice Gherlone, insieme ad una decina di altri docenti, urologi o luminari per le malattie dell’apparato respiratorio, sono stati messi sotto inchiesta per concorsi truccati attraverso quello che potremmo chiamare un “traffico d’influenze” a livello universitario. Questo malcostume italiano era da sempre noto ma ci volle un docente di origine inglese, Philip Laroma Jezzi, per denunciare pubblicamente, nel 2017, quello che tutti sapevano e facevano finta di non vedere. Significativo è il colloquio telefonico, intercettato, che si svolse allora fra Laroma Jezzi e un docente che lo rimproverava perché non voleva farsi coinvolgere nel malaffare: “Dai, non fare l’inglese!” cioè non comportarti da persona perbene. Sette docenti fiorentini furono abbottegati (lo scandalo riguardava la Statale di Firenze).

Una mia simpatica amica, quarant’enne, che si è laureata alla Statale di Milano  per iniziare la carriera universitaria abbandonandola molto presto, avendo visto com’era l’andazzo, e che oggi ha un ottimo lavoro in una grande azienda con compiti che poco hanno a che fare con la sua laurea, mi ha obiettato che non è affatto detto che i “raccomandati” non possano essere anche dei buoni professori, sia come docenti che come ricercatori. Vero, ho qualche esperienza personale in proposito. Ma è anche vero che ci possono essere ragazzi molto meglio preparati a cui questo sistema di corruttela diffusa sbarra la strada o costringe ad attese interminabili per cui va a finire che i migliori se ne vanno alla ricerca di altre opportunità. In Italia non c’è solo la fuga dei “cervelli” ma anche dei “cervelletti”. E anche questo spiega la condizione deplorevole del nostro sistema universitario. Del resto il ministero dell’Istruzione (ora anche del merito) è sempre stato considerato di serie b e dato come contentino a chi in quel momento era politicamente sul pavé. Non è che in questo ministero si sia mai visto non dico un Renzo Piano, sarebbe pretendere troppo, ma nemmeno monsignor Ernesto Galli della Loggia. A monte c’è il fatto che licei e anche atenei per molto tempo sono stati considerati un serbatoio di precari che andavano mantenuti in qualche modo (altro che “reddito di cittadinanza”).

Ma lasciamo l’Università per dirigerci verso la politica e il rispettabilissimo mondo imprenditoriale. Il governatore della Sardegna Christian Solinas è inquisito, oltre che per gravi reati di esplicita corruzione, per aver fatto quello che normalmente avviene nelle università: mettere un proprio ‘protetto’, non si sa quanto competente, al posto di un ‘protetto’ di qualche rivale cui però viene promesso di essere remunerato in futuro.

Purtroppo il nostro è un paese storicamente “familista”, ma mentre un tempo questo “familismo” si limitava a chiedere una raccomandazione al farmacista (autentica potenza nei piccoli borghi) al parroco o, nei casi più fortunati al Vescovo, oggi raggiunge livelli elevati anche nelle Istituzioni e nell’imprenditoria. Insomma non c’è settore che non sia inquinato dalla corruzione propriamente detta o da quello che ho chiamato “familismo” . In Italia il più pulito c’ha la rogna.

Anche il calcio è pienamente coinvolto, vedi le inchieste su Juventus, Roma, Lazio, Salernitana, Sassuolo, Atalanta, Verona. Ma nessun allenatore, a differenza di quello che avviene nelle università con presidi felloni, si sognerebbe mai di far giocare un brocco raccomandato al posto di un fuoriclasse. Ci provò Gheddafi che era entrato nel Consiglio d’amministrazione della Juventus solo per far giocare suo figlio, Saadi, che ha fatto una fine quasi peggiore di quella toccata, in questo caso del tutto ingiustamente e con modalità che farebbero orrore anche ai “tagliagole” dell’Isis, a suo padre.

 

Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2023

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La Festa del 25 Aprile è alle nostre spalle. Finalmente. Non se ne poteva più. Lo ha ammesso indirettamente persino il conduttore Luigi Casillo, in genere “timorato di dio” e soprattutto del Governo del Tg serale di Sky, sempre più appiattita sui luoghi comuni del momento, stufo di dover dedicare ogni santo giorno quasi tutto il suo telegiornale alle sepolcrali polemiche fascismo/antifascismo.

La grancassa, il frastuono, la retorica, l’eccesso, in qualsiasi cosa, hanno quasi sempre, per non dir sempre, effetti paradossi come certe medicine usate fuorimisura. Se tu ogni giorno, ogni ora, devi dichiarare di essere “antifascista“, e non ti basta nemmeno affermare come ha scritto sul Corriere la brava Giorgia Meloni che la festa del 25 aprile è “la celebrazione della nostra ritrovata libertà”, è chiaro che per un contraccolpo psicologico elementare ti viene voglia di dirti “fascista” anche se non lo sei e non lo sei mai stato (il movimento punk nacque a Berlino contro l’imposizione del marketing di essere tutti belli e perfetti). In ogni caso una democrazia veramente liberale dovrebbe riconoscere il diritto di essere fascisti.  In una democrazia veramente liberale ogni opinione, per quanto possa apparire aberrante allo Zeitgeist, dovrebbe avere diritto di cittadinanza, il solo discrimine è che non si faccia valere con la violenza. E questo limite vale sia per le espressioni di pensiero fasciste che per quelle antifasciste. Un liberale che pretenda che tutti siano liberali non è un liberale, è un fascista.

La Festa del 25 Aprile si basa su un equivoco, non so quanto innocente, e cioè si vuole credere e far credere che, grazie alla lotta partigiana, siamo stati noi italiani a riscattarci in libertà con le nostre mani. Non è così. A liberarci sono stati gli americani, gli inglesi e persino i razzisti sudafricani. Se si va al commovente Cemetery war del Commonwealth che sta alle porte di Milano, fra quelle lapidi bianche, tutte uguali, si leggono i nomi, oltre che degli inglesi, di ragazzi sudafricani o neozelandesi di 20 o 22 o 24 anni venuti a morire qui da noi, in una terra lontanissima dalla loro, per la libertà d’Europa. 

La Liberazione fu il riscatto morale di quelle decine di migliaia di uomini e donne coraggiosi e generosi (ma, col vento che tira, avrei dovuto dire “donne e uomini”) che la Resistenza la fecero davvero, pagando di persona, non del popolo italiano. Non della stragrande maggioranza del nostro popolo che da fascista qual era stato anche con entusiasmo (gli “anni del consenso” non li ho inventati io ma sono documentati storicamente) divenne in un sol giorno tutta antifascista. Arturo Toffanelli mi ha raccontato che il 25 aprile tornando in treno da Torino vedeva sui binari innumerevoli cerchietti che il sole illuminava. Erano i distintivi del PNF di cui gli italiani si stavano frettolosamente liberando. Volevano cancellare il segno di una colpa o di quella che credevano fosse stata una colpa che avrebbe potuto avere per loro, gli ignavi, gravi conseguenze. La mia adolescenza negli anni Cinquanta è stata solcata da ragazzi poco più grandi di me che non potendo affermare decentemente, per l’età, di aver partecipato alla guerra partigiana dicevano che erano stati perlomeno “staffette partigiane”. Io che alla fine della guerra avevo due anni non potevo sostenere nemmeno questo e, nella mia ingenuità, mi chiedevo: ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani?

La Resistenza è stata, come dicevo, il riscatto morale di quelli che la fecero sul serio e non a cose fatte, ma dal punto di vista militare la lotta partigiana è stata un fenomeno marginale in quella grande e tragica epopea che fu la seconda guerra mondiale. E’ vero che i francesi sono andati anche oltre e pur avendo fatto una Resistenza anche minore della nostra (nella Francia del nord sotto occupazione tedesca c’era solo Combat di Albert Camus a fare opposizione, Sartre si teneva coraggiosamente inguattato) col trucco di De Gaulle e “Radio Londra” sono riusciti a sedersi al tavolo dei vincitori insieme agli americani, agli inglesi e ai russi. Noi, sconfitti senza se e senza ma, dovemmo lasciare sul terreno Trieste, poi riscattata da movimenti popolari nazionalisti.  

Io non posso credere che tutti i nostri padri o nonni siano stati delle canaglie perché fascisti e tutti noi, oggi, “anime belle” perché democratici. E scrivo questo con tranquilla coscienza perché mio padre, Benso Fini, pisano, che lavorava per la Nazione di Firenze oltre ad essere licenziato dal quotidiano fu manganellato due volte dalle squadracce fasciste. La prima dai fascisti pisani e fu una manganellata per così dire ‘dimostrativa’ perché si conoscevano tutti e dopo una botta al collo fece finta di essere svenuto e la cosa finì li. Ma la seconda volta c’erano i fiorentini e la batosta non fu per niente dimostrativa. Lui scelse allora la via dell’esilio in Francia dove rimase una quindicina d’anni e incontrò quella che sarebbe diventata sua moglie, Zenaide Tobiasz, che ebrea, fuggiva da un altro totalitarismo, quello stalinista che degli ebrei, come degli zingari o comunque di chiunque apparisse “diverso” e non allineato faceva carne da macello. Rientrato in Italia nel ’40 alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra fece quel poco di Resistenza che ci fu al Corriere della Sera, poca cosa ma sufficiente a lasciarci la pelle soprattutto con una moglie ebrea e i tedeschi in casa. Ora se io dovessi chieder conto a quelli che fanno adesso i fenomeni dell’antifascismo di cosa fecero i loro padri o i loro nonni, come oggi si chiede conto a coloro che sono sospettati di filofascismo del loro lontano passato, mi comporterei davvero da fascista.

Il Fatto Quotidiano, 28 Aprile 2023