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Sul Corriere del dodici Agosto Mauro Magatti fa un’intemerata contro il gioco d’azzardo segnalandone, dati alla mano, i danni sociali ed economici. Ma il gioco d’azzardo non ha nulla a che fare con l’economia. Riguarda piuttosto la psicologia.

Negli anni Sessanta in una Milano più semplice non esisteva quasi un bar che non avesse un retrobottega dove si giocava d’azzardo: ramino pokerato, tressette, tressette ciapa no. A nessun pulotto veniva in mente di ficcare il naso. Sulla strada si giocava a dadi. C’erano poi bische clandestine mascherate da insospettabili circoli culturali. Mi ricordo che al Circolo Napoli, o qualcosa del genere, nel centro di Milano, c’era un retrobottega in cui giocavano il Procuratore generale e famosi giornalisti.

 La media borghesia non giocava nei bar o sulla strada ma in casa. Giocava a poker. Il vecchio poker d’antan dove le qualità del giocatore dovevano essere la psicologia e la “presenza al tavolo” (tu dovevi essere temuto anche quando non avevi in mano nulla) e non l’odioso Texas hold’em basato molto di più sulla matematica.

A casa mia, per moltissimi anni, si sono giocate grandi partite. Mia madre, russa, tollerava. I russi sono attratti dal gioco d’azzardo, non a caso si parla di “roulette russa”, e comunque a testimoniare c’è Dostoevskij non tanto per aver scritto Il giocatore ma perché sperperava i guadagni di ‘scrittore d’appendice’ frequentando tutti i Casinò d’Europa. A cominciare da quello di Baden-Baden dove c’è A tuttora un suo autografo, ben incorniciato.

 Io comunque, più modestamente andavo a Campione d’Italia, l’unico casinò che è riuscito a fallire. Quante volte, all’alba, io e il mio compagno di merende, Diego, abbiamo guardato le luci di Lugano senza nessun interesse perché a Lugano non c’era la roulette, ma una sua parodia. La sorte ha voluto che essendo diventato il compagno di una redattrice della Rsi che abitava appunto a Lugano, io, anni dopo, guardassi dall’altra sponda quell’arco che introduce a Campione, e che sembra dire “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Le imperscrutabili leggi del Caso vogliono che la prima volta che vai a giocare in un casinò tu vinca. E questo è un amo fatale. Mi ricordo di “monsieur douze”. Questo monsieur douze era un uomo sulla cinquantina, sposato, con due figlie, dirimpettaio di scrivania del mio amico Diego. Quest’uomo guardava con stupore e mal celata disapprovazione Diego vedendolo sperperare la sua vita al gioco. Ma una volta, lo convincemmo, dopo molte insistenze, a seguirci a Campione. Giocavamo alla roulette, il meno predatorio dei giochi da casinò, rispetto per esempio allo chemin de fer perché il banco tiene per sé una percentuale abbastanza bassa. Dopo meno di mezz’ora il nostro amico aveva perso tutto quello che si era portato dietro. Venne a chiederci dei soldi. Glieli demmo. Ma dopo un’altra mezz’ora aveva perso anche questi. Ci chiedeva altri quattrini. Io e Diego, improvvisamente saggi, gli dicemmo di lasciar perdere. Ma venendo via e dirigendoci al vestiario lui alla disperata raccattò una fiche a caso su un tavolo. Fummo raggiunti da un valè che, ignorando me e Diego, si rivolse al nostro amico dicendogli “è lei che ha giocato il numero 12?”. Il nostro amico impallidì temendo che la giocata non fosse valida, invece il valè ci condusse al tavolo della roulette dove sopra il numero 12 c’era una montagna di fiches. La regola infatti vuole che, se non hai dato disposizione contraria, la fiche originaria rimanga sul tavolo. Quindi il nostro amico non recuperò solo i soldi che aveva perso, ma si ritrovò con un bel malloppo. Lasciò la moglie e le “bambine”, lasciò l’azienda e si comprò una residenza lussuosa. Quando andavo a Campione “monsieur douze”, così ormai era chiamato da tutti perché giocava solo il 12 e i suoi ‘vicini’, non mi salutava quasi. Ci furono alcuni mesi in cui per motivi di lavoro non potei andare a Campione. Ci tornai con Diego. In macchina gli chiesi “che ne è di monsieur douze?” “rovinato!”. Aveva perso il lavoro, la casa, la famiglia, tutto.

 Ma sul lago di Lugano si sono avute altre tragedie. C’erano due fratelli, due giovani imprenditori di Bari, che prendendo l’aereo venivano a giocare a Campione quasi ogni weekend. Sembravano solidi, ma una mattina vennero trovati cadaveri nel lago. Cos’era successo? Erano rimasti senza fiches e il croupier si era rifiutato di rifornirli come si fa di solito con i grandi giocatori. Almeno ai tempi miei il casinò sapeva esattamente la situazione finanziaria dei giocatori. Mi ricordo che una notte ad uno di questi, un immobiliarista molto noto, il croupier si rifiutò di far scendere le fiches. Lui se ne andò sacramentando, “lei non sa chi sono io”, lasciando sul tavolo un accendino d’oro. Ma due giorni dopo leggemmo sui giornali che l’imprenditore era fallito. Secondo me il Fisco, invece di inseguire improbabili capitali depositati alle Cayman, dovrebbe piuttosto appoggiarsi al casinò.

Il debito di gioco è un “debito d’onore”. Non onorarlo, come dice la parola stessa, significa perdere l’onore. C’è chi in passato ha perso grandi fortune e pur vendendo ville, appezzamenti e imprese, non è riuscito a “onorare il debito”. Allora ha preferito suicidarsi. Di queste storie sono piene le cronache di Piero Chiara, originario di Luino (sia detto di passata: in provincia si gioca molto di più che nelle grandi città, per reagire alla noia o a un tradimento o per altri mille motivi). Nell’ambiente del gioco un Renzi non avrebbe avuto scampo. Alain Delon, uomo d’onore, sì. 

Il baro. Naturalmente a poker si incontrano un’infinità di bari. Il gioco lo permette. Il baro è l’esatto contrario del gioco del poker perché ne rifiuta l’alea. Ma prima o poi il baro viene sgamato. Una volta fui io a smascherarlo. C’era un certo Di Silvio, soprannominato in seguito il “barone Di Silvio” che utilizzava questo metodo. La tornata prima che fosse lui a dare le carte si asteneva. Poi, mescolava le carte e ravanando fra quelle scartate dagli altri giocatori (cosa che non si potrebbe fare, ma di fatto si fa) si costruiva un punto forte e ne affibbiava uno solo di poco meno forte ad un altro dei giocatori. Una volta dissi: “giù le carte, scommettete che Di Silvio ha in mano un punto forte e un altro di noi uno quasi altrettanto forte ma un po’ meno?”.

C’è una cosa che chi non ha frequentato il gioco d’azzardo non sa. Il giocatore, inconsciamente, vuole perdere. Per movimentarsi la vita. In questo senso pur essendo stato al poker il “numero uno” come possono confermare alcuni testimoni del tempo, io non sono stato un vero giocatore: volevo vincere.

Qualcuno consiglia di giocare “in modo responsabile”. Nel gioco d’azzardo la responsabilità non esiste altrimenti tu non andresti incontro a sicure sconfitte, alla roulette, allo chemin, al black jack, perché è troppo impari la percentuale della cagnotta a favore del casinò.

Infine. Se uno vuole rovinarsi al gioco è un suo diritto. E’ proprio di una cultura cattolica quella di voler salvare chi vuole farsi del male da solo. Rovinarsi con le proprie mani è, oso dire, un diritto civile. Un diritto di libertà. Non siamo nel Medioevo quando si puniva il suicida.

21 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano

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In un bel pezzo su Repubblica (29.07) intitolato “la chiesa sbiadita non guida più gli italiani” Ilvo Diamanti nota come il magistero spirituale della Chiesa sia sempre più debole nel nostro Paese. In realtà il processo è in atto da molto tempo e non riguarda certamente solo l’Italia ma l’intero mondo occidentale. Il pregio dell’articolo di Diamanti è di darci alcuni dati Istat e di Demos & Pi basati quindi non su un’impressione, peraltro assai diffusa, ma su dati statistici: meno del 20 per cento fra gli italiani va a messa regolarmente ogni settimana, l’insegnamento della chiesa è ritenuto molto importante solo dal 15 per cento e fra gli under 30 il dato scende al 5 per cento.

Quando alla fine dell’Ottocento Friedrich Nietzsche proclama la “morte di Dio” constata in realtà, sia pure con un certo anticipo, che il senso religioso e del sacro sta morendo nel mondo occidentale, come diventerà evidente nel Novecento. La religione verrà sostituita dalle ideologie, ma oggi anche le ideologie sono in crisi perché, si tratti di Occidente o di Cina, nonostante i feroci scontri geopolitici in atto, il modello di sviluppo che si è affermato è quello capitalista come del resto anche tutto il filone che deriva dal pensiero di Marx.

Un mondo totalmente materialista genera, per forza di cose, dei contraccolpi di segno contrario. E poco importa che in molti paesi la religione Cattolica sia ufficialmente la più diffusa. Prendiamo la Francia. La Francia è laica per definizione poiché la sua cultura deriva direttamente dalla Rivoluzione che fece piazza pulita della convinzione che i Re fossero tali per “diritto divino” (la decapitazione di Luigi XVI è emblematica in questo senso) ma, a parte questo il francese è troppo influenzato dal pensiero di Cartesio per poter credere in qualcosa di irrazionale come la religione. Tanto che la Francia ha fatto del laicismo una specie di religione di Stato, cioè una religione di segno contrario, e del resto basta aver seguito una messa in qualche chiesa d’oltralpe per capire che il francese è una lingua inadatta alla religione.

 Il problema della chiesa Cattolica di oggi (per quella ortodossa il discorso è, sia pur leggermente, un po’ diverso) è che non è riuscita ad intercettare questi contraccolpi. La Chiesa, nel tentativo di non perdere il contatto con i fedeli, ha cavalcato la Modernità invece che prenderne le distanze. Tipico è il caso del pontificato di Wojtyla, che è stato percepito come un Pontefice politico, perché a lui si attribuisce il merito di aver dato la spallata decisiva al comunismo e aver favorito, insieme alla Germania, l’indipendenza della cattolica Croazia, indipendenza che darà poi origine a tutte le guerre slave a svantaggio della Serbia sì comunista ma ortodossa. Ma il peggio è che Papa Wojtyla ha utilizzato tutti i mezzi pubblicitari del mondo moderno, TV (la presenza, sia pure a distanza, nel salotto di Vespa), jet, viaggi spettacolari, creazioni di eventi, concerti, papamobile, papaboys fino alla sua troppo esibita agonia. Se è vero quello che dice McLuhan e cioè che “il mezzo è il messaggio” Wojtyla ha finito per immedesimarsi nella Modernità. Sulla stessa linea mi pare si sia messo Papa Bergoglio coi sui modi da “piacione” e il desiderio di essere accettato da tutti (un intermezzo in questa deriva è stato il pontificato di Ratzinger, una figura più spirituale, il quale, quando era ancora cardinale, aveva affermato che “il Progresso non ha migliorato l’uomo nè la società e si prospetta come un pericolo per la stessa sopravvivenza del genere umano”). Insomma Wojtyla raggiunse l’apogeo della popolarità mondana a scapito del messaggio spirituale (in fondo la ragione in ditta della Chiesa è la cura delle anime, non la politica).

Ma poiché le esigenze spirituali sono consustanziali all’essere umano le persone si sono rivolte altrove, al buddismo, all’islamismo, all’esoterismo, all’occultismo, al satanismo e perfino all’astrologia.

Di particolare importanza, visto il periodo che stiamo vivendo, è il raffronto con l’Islam. Ho assistito a Teheran, quando c’era ancora Khomeyni, alla “preghiera del Venerdì”. Io non appartengo a nessuna religione, ma quel giorno mi sono emozionato per la forza della loro emozione che non trovi in nessuna chiesa europea dove, a parte il rito stanco e vagamente scaramantico della messa della domenica, in chiesa ci sono solo una decina di vecchie strapenate terrorizzate dalla vicinanza della morte.

La forza degli islamici, e non è necessario essere Isis o dei radicali, è che credono in qualcosa. Noi non crediamo più a nulla, crediamo al dentifricio che “sbianca più bianco”, cioè alla pubblicità, al marketing, ai prodotti materiali, in definitiva al modello di sviluppo che promettendo la felicità universale ci ha resi, per ciò stesso, infelici (e lasciamo perdere qui, per pietas, l’enorme crescita dell’uso e abuso di stupefacenti che vuol dire semplicemente che le persone, ricche o povere che siano, non stanno bene nella propria pelle, insomma questo modello è riuscito nell’impresa di far star male anche chi sta bene). In questo contesto è facile capire che sarà l’Occidente, nonostante il suo strapotere militare, economico, tecnologico e politico, a perdere la partita.

15 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano

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Ci furono tempi felici in cui facevo il cronista. All’epoca il curriculum del nostro mestiere aveva step piuttosto precisi. All’inizio ai praticanti si davano da redigere le “brevi”, i TACCUINI, cioè notizie di poca importanza che riguardavano piccoli eventi cittadini. Se passavi questo step diventavi “inviato di città”. E in una metropoli come Milano non mancavano, soprattutto negli “anni di piombo”, eventi di portata nazionale. Come la misteriosa morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli che mal maneggiando un ordigno morì sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate (Indro Montanelli scrisse crudamente che Feltrinelli era “un povero ragazzo malato di guevarismo”). O la morte di Pino Pinelli, un anarchico del tutto teorico, mite, che dopo un interrogatorio pesante fu fatto “volare” dal quarto piano della Questura di Milano. O Il vile omicidio sotto casa del commissario Calabresi. Dopo infinite inchieste della Magistratura i mandanti vennero individuati in Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, gli esecutori in Ovidio Bompressi e Leonardo Marino. Sofri ottenne, caso quasi unico nella storia giudiziaria italiana, la Revisione del processo ma anche la Revisione lo ritenne colpevole. Ciò non gli ha impedito, scontati sette anni dei ventidue che gli erano stati comminati, di diventare editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più diffuso settimanale di destra, Panorama: promosso evidentemente per meriti penali. C’è una fotografia, che conservo gelosamente, di noi della cronaca dell’Avanti, a cena dopo la morte di Feltrinelli (allora i giornali chiudevano molto tardi, verso le 3 del mattino) Ugo Intini, Liano Fanti, Attilio Schemmari, Arturo Viola ed io, felici per aver tenuto botta allo strapotere del Corriere. Insomma anche nelle piccole redazioni, come era quella dell’Avanti, ci si poteva togliere qualche soddisfazione.

In seguito diventavi inviato “regionale” e poi “nazionale”. Se avevi dimostrato attenzione e interesse per i fatti internazionali diventavi inviato tout court. E qui c’era un altro step. Non è detto che un inviato, anche un grande inviato, abbia la weltanschauung, cioè la visione del mondo, necessaria per commentare fatti di geopolitica.

Le soddisfazioni di un inviato di esteri erano sostanzialmente due. La prima, più importante, era di conoscere culture diverse dalla nostra di cui avevamo solo letto o sentito parlare. Fu in un viaggio in Kenya e Tanzania nel 1970, quando non facevo ancora il giornalista, che cominciai ad elaborare i miei sospetti sulla “cultura superiore” che daranno poi origine, anni dopo, a La ragione aveva Torto?.  La seconda è che se stavi un mese, poniamo, nel Sudafrica dell’apartheid, come è capitato a me, dovevi occuparti solo di quello che accadeva in quel Paese, cioè non dovevi seguire quotidianamente le miserie della politica politicante italiana, le catacombali polemiche su fascismo e antifascismo, su Vannacci o sulle dichiarazioni di Mollicone.

Attualmente gli inviati di esteri, soprattutto su terreni di guerra, si dividono in due categorie. C’è chi invece di dar conto di ciò che succede sul campo si inventa come analista dando interpretazioni che si potrebbero fare tranquillamente anche da Milano, da Parigi, da Berlino. C’è invece chi scrive di ciò che succede sul campo, non limitandosi a intervistare questo o quel comandante militare, o un sociologo o un politologo, ma parlando anche col salumiere o il prestinaio. E ti rende quindi l’humus in cui vivono quelle popolazioni. E’ il cosiddetto giornalismo “in presa diretta” che ha caratterizzato la mia generazione e un paio di quelle successive. A questa categoria appartiene Lorenzo Cremonesi, inviato di lungo corso del Corriere, probabilmente il migliore dopo la morte dell’inarrivabile Ettore Mo, persona, parlo di Mo ma anche di Cremonesi, dai modi assai modesti e riservati come sono tutti quelli che, sicuri del proprio mestiere, non hanno bisogno di dimostrare nulla, da Montanelli a Giorgio Bocca.

Cremonesi ha seguito tutte le più importanti guerre dell’ultimo quarto di secolo, dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria, al conflitto israelo-palestinese, alla guerra russo-ucraina. L’ultima volta che l’ho sentito, per telefono, si trovava a Charkiv, sotto le bombe russe. Uno dei pregi di Cremonesi è quello di cercare di entrare nella mentalità anche dei gruppi combattenti la cui ideologia gli è più estranea. La prima volta che incrociai Cremonesi, naturalmente sulle pagine del Corriere, fu in occasione dell’invasione occidentale/Nato dell’Afghanistan del 2001. Raccontava questo episodio. I giornalisti occidentali entravano in Afghanistan dal Pakistan e naturalmente i giovani afghani, cioè i talebani, erano ostili ai giornalisti che appartenevano a paesi che stavano invadendo la loro terra. Un gruppo di giovani talebani si mise a prenderli a sassate. Ma intervenne un vecchio, in quelle culture l’anziano ha un grande prestigio e non importa che sia un capo clan o una persona qualsiasi, che disse “no ragazzi questo non si fa”. Eravamo a Kandahar l’ultima roccaforte talebana dove gli americani scaricavano bombe su tutto, compresi i campi da gioco dei ragazzini. Annota Cremonesi “pare incredibile ma a Kandahar regna l’ordine, l’ordine del Mullah Omar”. Perché per il Mullah gli stranieri, a meno che non appartenessero a forze combattenti ostili, erano degli “ospiti”. E ci sono infinite circostanze che dimostrano che tutti coloro che sono stati prigionieri dei Talebani vennero trattati con correttezza, soprattutto le donne, stando molto attenti alle loro particolari esigenze femminili. C’è da tener presente che allora i Talebani, accusati a torto di essere alle spalle degli attentati dell’11 Settembre, erano per l’Occidente “l’orrore puro”. Ci voleva del coraggio per raccontare un episodio a loro favorevole.

Il bello delle vacanze estive è che, sottratti all’impegno di seguire la politica politicante, ci si può dedicare alla lettura di libri interessanti. Uno di questi è “Guerra infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina” di Lorenzo Cremonesi dove l’autore mescola gli eventi di guerra di cui è stato testimone, comportandosi con grande coraggio ma anche con la necessaria prudenza, che gli deriva proprio dalla sua esperienza di inviato, alla sua vita personale. Ma vedo che il suo libro ha avuto poche e riottose recensioni, in genere su media di basso livello. E se Cremonesi ha sentito il bisogno di telefonarmi, perché l’avevo citato favorevolmente in un’intervista a Michele Brambilla de Il Giornale, vuol dire che si sente un isolato. Invece, a parer mio, meriterebbe il Pulitzer.

11 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano