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La lotta per delegittimare Mani Pulite ebbe inizio con l’inizio di Mani Pulite. Berlusconi, Presidente del Consiglio, in terra di Spagna dichiarò che in Italia era in atto una “guerra civile” fra settori della Magistratura, cioè Mani Pulite, e il Governo. Non potendo delegittimare in toto la Magistratura si puntò sui singoli magistrati. Francesco Saverio Borrelli, capo della Procura di Milano, fu fotografato in groppa a un cavallo sulla cui sella erano incise le iniziali GG che corrispondevano a Giancarlo Gorrini indagato in quei mesi dalla stessa Procura. Si inferì quindi che fra Borrelli e Guerini corressero loschi affari. Peccato che le iniziali GG corrispondessero alla scuderia in cui andava a cavalcare Borrelli.

Antonio Di Pietro, che era il più esposto perché era lui a portare le legittime istanze della magistratura milanese in Tribunale e che col suo contadinesco “che c’azzecca” metteva spalle al muro le fumose risposte degli indagati (qualcuno ricorderà, forse, le memorabili riprese di Un giorno in Pretura di Rai3) fu inquisito sette volte e regolarmente assolto. In uno di questi processi si accertò che Silvio Berlusconi aveva pagato due testimoni perché accusassero Di Pietro. I testimoni furono condannati ma il mandante, cioè Berlusconi, ne uscì inspiegabilmente indenne.

Sono anni che si cerca di rifare la storia della stagione di Mani Pulite e, non potendo cancellarla, si inventano frottole. E non solo da parte dei berluscones ma anche di esponenti della sinistra. Così Giovanni Pellegrino, ex senatore Pci-Pds, ha di recente affermato che Mani Pulite mirava al “primato del potere giudiziario, in contrasto col disegno costituzionale”. Il compagno Rino Formica va più in là, affermando che “Borrelli voleva fare il Capo dello Stato”. Me ne dispiace, perché Rino Formica (quello che accusò la Dirigenza del Psi di essere “una corte di nani e ballerine”) è un uomo onesto da tutti i punti di vista, insieme a Ugo Intini è uno dei pochissimi socialisti a non aver rubato. Che cosa sia saltato in testa a Rino Formica, che ha 97 anni, non riesco proprio a capirlo.

Un’altra delle tesi è che Mani Pulite fosse un complotto del Pci. Base di questa affermazione sono due viaggi che Antonio Di Pietro aveva fatto negli Stati Uniti a scopo di istruzione. Comunque, perché mai gli americani avrebbero dovuto favorire l’eliminazione di tutti i partiti a loro favorevoli (Dc, Psdi e frattaglie, Pri) per lasciare sul campo l’unico partito, il Pci, a loro dichiaratamente ostile?

Ma nel tempo la lotta a Mani Pulite si è estesa all’intera Magistratura, una guerra che, come si vede, è ancora in corso. Il capintesta di questa guerra è stato naturalmente Silvio Berlusconi con l’appoggio della potenza dei media in suo possesso. Esemplare è il caso del giudice Raimondo Mesiano. Fu sorpreso da Mattino 5, trasmissione Mediaset, mentre, al termine di un’udienza, stava seduto su una panchina a fumare e, dettaglio decisivo, sotto il risvolto dei calzoni gli si vedevano dei calzini azzurri. Tutto questo diceva che il giudice Mesiano, colpevole nella cosiddetta “vertenza Mondadori” di avere dato torto alla Fininvest condannandola al pagamento di 750 milioni a favore della Cir di Carlo De Benedetti, non aveva la testa a posto. Poi Mattino 5 fu condannata per questa inammissibile intromissione nella sfera privata del magistrato. Ma intanto il danno d’immagine era fatto.

Ancora più spregevole è l’operazione condotta ai danni del pubblico ministero Henry John Woodcock. Fu fotografato in sella a una moto e questo era un chiaro segno che non aveva la testa a posto. Ora se c’è un magistrato irreprensibile è proprio Henry John Woodcock, non a caso di origine inglese, che non ha mai rilasciato interviste, è intervenuto rarissimamente sui giornali, e che quando si assentava dalla sua casa di Potenza o di Napoli per qualche inchiesta non diceva nemmeno alla sua fidanzata dove andava.

Perché la classe politica, berlusconiana ma, come si vede, non solo berlusconiana, ce l’ha tanto con Mani Pulite? Perché, per la prima volta nella storia della nostra democrazia, “che a farle i complimenti ci vuole fantasia” (Gaber, Io non mi sento italiano, 2003) la classe dirigente, politica e imprenditoriale era stata chiamata al rispetto di quelle leggi cui noi tutti comuni cittadini dobbiamo sottostare. E la lotta non si è arrestata nemmeno adesso che “lorsignori” si sono assicurati ogni tipo di immunità. Nel 1993 avevamo votato un referendum, vincente, contro il finanziamento pubblico dei partiti. E che cosa hanno fatto costoro? L’hanno camuffato con un rimborso spese. C’è una canzone di Adriano Celentano, Svalutation (1976) che dice: “C’è un buco nello Stato dove i soldi vanno giù”.

Ora è in ballo la “separazione delle carriere”. Che fosse una riforma fortissimamente voluta da Silvio Berlusconi lascia un po’ perplessi. A una persona normalmente onesta che non ha pendenze giudiziarie la separazione delle carriere dovrebbe interessare poco o nulla, non è certamente un focus nella sua mente. Ma Antonio Di Pietro, un magistrato che non è mai stato iscritto ad alcuna corrente, ha affermato che la “separazione delle carriere” è giusta anche perché va contro quella tabe della giustizia italiana rappresentata dalle correnti dei magistrati. È perché Antonio Di Pietro è una persona intellettualmente onesta che ha fatto quell’affermazione in favore della “separazione delle carriere”. Ma come dissi in un discorso tenuto al Palavobis nel 2002: “Non si può lottare con una mano legata dietro la schiena contro avversari che non solo le usano tutte e due ma, all’occorrenza, si fanno vantaggio anche con un bastone”. Così trasformai il famoso “resistere, resistere, resistere” di quella gran persona che è stato Francesco Saverio Borrelli in un “reagire, reagire, reagire”. Utilizzai anche una frase dell’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini che suonava così: “A brigante, brigante e mezzo”. Per quella frase Roberto Castelli, ministro della Giustizia (come si vede non c’è mai limite al peggio, adesso abbiamo Carlo Nordio) nel salotto del sempiterno Bruno Vespa chiese il mio arresto. Ma non spetta al ministro della Giustizia decidere arresti, casomai alle Procure, e così la cosa si perse nel nulla.

Reagire? Non ce l’abbiamo fatta. L’onestà, che pur era stata moneta corrente negli anni del dopoguerra e nei primi anni Cinquanta, sia per il mondo borghese che per quello contadino che per quello proletario, oggi è diventata un handicap. Costoro, dico i “lorsignori”, hanno addirittura il terrore che nei loro ingranaggi di potere si inserisca una persona onesta perché, ragionando con la loro testa marcia e bacata, temono di esserne ricattati. Cioè questi pensano che tutti siano simili a loro. Fortunatamente non è così. Ma è inutile.

Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2024

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Il cardinale Zuppi, Presidente della Cei, in chiusura dell’assemblea generale dei Vescovi italiani ha espresso le sue perplessità sulla riforma del premierato attualmente all’esame del Parlamento. Il cardinale Zuppi e il suo Supremo Superiore, alias il Sommo Pontefice, dovrebbero ricordare che fra Chiesa e Stato italiano esistono due concordati, uno del 1929 firmato, per la parte laica, da Benito Mussolini, il secondo del 1984 a firma Bettino Craxi, che regolano i rapporti fra Stato italiano e Chiesa. Da questi concordati si ricava che in nessun modo la Chiesa può entrare negli affari interni dello Stato italiano. A parti invertite sarebbe come se il nostro premier o il governo italiano o i suoi ministri esprimessero a livello istituzionale dubbi sulla verginità della Madonna.

A dare inizio a questo vizio della Chiesa di entrare a piedi uniti in affari che non la riguardano è stato, come sempre, papa Wojtyla che tuonò contro l’ipotesi indipendentista della Lega di Bossi e il progetto delle “macroregioni”. Questioni che nulla avevano a che fare col magistero della Chiesa per quanto lato lo si voglia intendere. Non è che un popolo è più religioso se è uno piuttosto che trino. Tra l’altro è curioso e bizzarro che la Chiesa si schierasse a favore dell’unità dello Stato italiano quando era stata proprio la Chiesa a dividerlo. La “breccia di Porta Pia” non l’ho inventata io.

Ma anche la nostra cattolicissima premier e quell’altro che ha sempre in mano il rosario dovrebbero ricordare che Camillo Benso di Cavour, colui che di fatto ha creato l’unità dello Stato italiano, ha affermato: “Libera Chiesa in libero Stato”. Quindi non avrebbero dovuto far polemica con il cardinale Zuppi, ma semplicemente ignorarlo o dichiarare le sue perplessità irricevibili. Nel 1997 Umberto Bossi, nella cui Lega c’erano anche cattolici, basta ricordare l’ex Presidente della Camera Irene Pivetti, ebbe un durissimo scontro con la Chiesa. Disse l’Umberto: “Il Papa polacco ha investito nel potere temporale, nello Ior e nei Marcinkus. Ha investito nella politica dimenticando il suo magistero di spiritualità e di evangelizzazione”. Ma anche la Democrazia Cristiana, finché ebbe il potere, tamponò queste indebite interferenze della Chiesa. Giulio Andreotti, il cattolicissimo “divo Giulio”, che andava a Messa alle sei del mattino, non permise mai che la Chiesa si intromettesse nei nostri affari interni. Perché la Dc aveva quel senso dello Stato che sempre gli abbiamo rimproverato, a torto, di non avere, come dimostrò all’epoca del rapimento di Aldo Moro, quando Papi e socialisti, corrotti nell’anima prima ancora che sul piano degli affari sporchi, si schieravano per la trattativa con le Brigate Rosse.

Dubito molto che Giorgia Meloni e soprattutto Matteo Salvini, quantunque schierati su un nazionalismo radicale, abbiano lo stesso senso dello Stato di Giulio Andreotti o del cattolico Amintore Fanfani. Per non parlare naturalmente di Alcide De Gasperi che, dopo la parentesi del Fascismo, fu il continuatore di quella concezione laica dello Stato che era stata di Cavour.

Di recente un uomo politico dallo storico pedigree di sinistra ha detto: “Un tempo temevamo di morire democristiani, oggi speriamo di morire democristiani”.

Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2024

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In uno sgangheratissimo articolo sul Giornale (29.05.2024) Augusto Minzolini, prendendo in esame il cosiddetto ‘caso Toti’, si scaglia contro i magistrati genovesi che hanno previsto gli arresti domiciliari per il Presidente della Regione Liguria. Secondo l’articolo 274 del Codice di procedura penale gli arresti domiciliari, che sono già in qualche modo una misura più lieve della custodia in carcere, possono essere decisi su richiesta del pubblico ministero al Gip, cioè a un giudice che deve convalidarla, in tre casi: uno, pericolo di inquinamento delle prove, due, pericolo di reiterazione del reato, tre, pericolo di fuga. Solo il Pm che sta conducendo le indagini può sapere se questi pericoli esistono in concreto. Il suo apprezzamento è ampiamente discrezionale, ma questa discrezionalità gli è attribuita dalla legge. Evidentemente i pubblici ministeri genovesi, sempre sotto il controllo del Gip, hanno ritenuto che almeno uno di questi requisiti esistesse. Improvvisatosi Pm e Gip, Minzolini sostiene che i giudici genovesi non hanno “lo straccio di una prova”. Minzolini definisce “retorica qualunquista” quella di coloro che ritengono che i diritti, ma anche i doveri, degli uomini che ricoprano cariche pubbliche debbano essere uguali davanti alla legge a norma dell’art. 3 della Costituzione.

Ma è inutile seguire, o piuttosto inseguire, Minzolini nei suoi sragionamenti sgangherati, fra cui c’è quello della “giustizia ad orologeria”, consueto negli opinionisti di destra che si autodefiniscono “garantisti”, categoria giuridica, come quella, contrapposta, dei “giustizialisti”, mai esistita in nessun Codice, né italiano né europeo né di qualsiasi altro Paese. Poiché in Italia ci sono elezioni ad ogni momento, comunali, regionali, politiche e adesso anche europee, i magistrati non potrebbero mai agire senza che cali su loro il sospetto, accreditato nel caso Toti da Minzolini, di fare politica e di essere schierati con una parte politica. Esemplare, in questo senso, è il “caso Teardo”, presidente della Regione Liguria arrestato e poi condannato per “associazione a delinquere, concussione, concussione continuata, peculato ed estorsione” pochi giorni prima delle elezioni politiche in cui si era candidato. Se Teardo non fosse stato arrestato a tempo opportuno, in omaggio alla teoria della “giustizia ad orologeria”, sarebbe diventato un parlamentare della Repubblica, autorizzato, con tutte le guarentigie di cui i parlamentari godono in Italia, immunità compresa, a continuare i suoi maliaffari.

Ma perché dico che è inutile inseguire il professor Minzolini nei suoi sragionamenti? Perché è evidente che è tutto teso a salvaguardare dal rispetto della legge politici e ‘lorsignori’, non certamente gli stracci autori di reati da strada per i quali vale il brocardo di Daniela Santanchè, “in galera subito e buttare via le chiavi”, condiviso da tutta la irriconoscibile destra italiana (ma la destra, e mi scuso con la vera Destra, non era per “la legge e l’ordine”?). Forse Minzolini, se si vuole dar credito a questo personaggio che non ne ha, dovrebbe chiedersi come mai i ‘lorsignori’ di qualsiasi tipo vanno ai “domiciliari”, in genere nelle loro belle case, e i poveracci direttamente in carcere. È una delle tante discriminazioni sociali che esistono in Italia giustificata con l’argomento che per ‘lorsignori’, abituati alla bella vita, il carcere sarebbe troppo duro mentre i poveracci che vi entrano, vi escono e spesso vi rientrano perché nessuno dà loro lavoro, vi sarebbero abituati.

Comunque, e in sostanza, il tentativo di Augusto Minzolini è di dare una lezione morale a chi chiede il rispetto della legge. Ci chiediamo dove fosse Minzolini quando noi difendevamo Valpreda, in carcere da quattro anni senza processo e poi assolto, o il presunto terrorista rosso Giuliano Naria che ha fatto nove anni di carcerazione preventiva, non i “domiciliari”, per essere poi anche lui assolto. Gli sarà facile rispondere che in quegli anni prestava il suo fascino ai film di Nanni Moretti Io sono un autarchico ed Ecce bombo. Ma non è certo per questo che noi non accettiamo lezioni morali da Augusto Minzolini. Costui, arrivato alla direzione di Rai1, la più importante televisione generalista del nostro Paese, in virtù di meriti che gli erano stati attribuiti dallo Spirito Santo, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per “peculato continuato”. Un peculato miserabile, non bastandogli lo stipendio, presumiamo remunerativo, della Rai, Augusto Minzolini sgraffignava sulle ‘note spese’, cosa che peraltro ho visto fare anche a molti altri dirigenti Rai. Costoro facevano i fenomeni, facevano i munifici, invitando a cena un mucchio di persone pagando il conto. Ma quel conto non lo pagavano i Minzolini di turno, lo pagava la Rai con i soldi del canone, cioè con i soldi tuoi, caro, stupidissimo, lettore. E ti tocca anche beccarti l’accusa infamante di “forcaiolo” da un Augusto Minzolini non per nulla ribattezzato da Marco Travaglio “Minzolingua”, nel senso che lecca i potenti ma lecca anche le briciole dei pranzi di gala.

Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2024