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Sfoglio dei vecchi ritagli cartacei (io non utilizzo il web) e trovo un mio articolo sul Giorno del 23.3.1990 intitolato “L’invito del Papa e il tempo rubato”. Papa Wojtyla dopo aver visitato gli stabilimenti della Fiat di Chivasso aveva ammonito imprenditori e lavoratori a “rispettare la sacralità della domenica” suscitando la furibonda risposta di Confindustria. E a ragione, dal punto di vista di quegli strangolatori. Perché il discorso di Wojtyla andava ben al di là della domenica ma investiva l’intero modello di sviluppo occidentale. Cioè riguardava i ritmi assassini a cui è costretto un lavoratore oggi (Amazon per tutti ritornando al presente). E investiva il feticcio totalitario della produzione, per cui noi oggi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre. Universione che ho definito “paranoica”. Nel senso che quando non siamo al lavoro come produttori, lo siamo come consumatori. Il “tempo libero”, tipica invenzione e mostruosità moderna, che segnala tra l’altro la totale alienazione dell’uomo, non è in realtà che un ulteriore bene di consumo perfettamente inserito nella catena di montaggio della produzione. Insomma per dirla con linguaggio più semplice dei CCCP: “Produci, consuma, crepa”. Quando non siamo costretti a lavorare, siamo costretti a consumare. Ecco perché, a dispetto dell’enorme velocità di cui godiamo grazie alla tecnologia e che ci facilita ogni cosa, noi oggi viviamo la straordinaria ed angosciante esperienza di non avere mai tempo.

La società preindustriale non conosceva il tempo libero, ma aveva tempo. Perché i ritmi del pur duro lavoro di quegli uomini, legati com’erano a quelli della natura, erano più lenti, più ampi, meno affannosi, più armonici, più biologicamente giusti di quelli attuali. A differenza di oggi, lavoro e tempo libero non erano drasticamente e innaturalmente separati, ma il tempo dell’uomo, proprio perché seguiva i ritmi della natura, era un continuum in cui il lavoro sfumava nel riposo e viceversa. E in questo lento fluire c’era lo spazio, anche psicologico, per la riflessione, la pausa, l’ozio laborioso, l’attività fantastica e il divertimento semplice e istintivo e non coatti, drogati ed eterodiretti quali sono quelli cui si è costretti nel cosiddetto “tempo libero”.

I ritmi e le esigenze industriali hanno spazzato via tutto ciò. Ma proprio per questo c’è estremo bisogno che, come diceva Papa Wojtyla, e come dice oggi in un modo un po’ confusionario Beppe Grillo parlando di “tempo liberato”, resista almeno un giorno dedicato al sacro. Il che vuol dire, si sia noi religiosi o laici, un giorno liberato tanto dal lavoro che dal consumo e dedicato solamente a noi stessi.

Il lockdown potrebbe essere considerato una formidabile occasione per riflettere sul senso che ha la nostra vita all’interno di questo modello di sviluppo e sullo stesso modello. Ma da tanti segnali vedo che siamo pronti a ricominciare come prima, peggio di prima.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2020

 

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Oltre al Covid esiste, come se non bastasse, anche un “Long Covid”. Persone guarite ufficialmente da questa rognosissima influenza (ma sarà poi un’influenza, vai a sapere) accusano gli stessi sintomi e malesseri di quando erano malate: una grande stanchezza, debolezza, ansia, perdita di memoria, dolori muscolari. E’ comprensibile per chi ha vissuto un grande stress. Più curioso è che più o meno gli stessi sintomi li avvertono persone che non solo non hanno avuto il Covid ma non ne sono state nemmeno sfiorate. Qui entra in campo la paura, una componente consustanziale all’essere umano che può essere positiva, perché è grazie alla paura che noi abbiamo potuto sopravvivere per millenni a differenza di altre specie animali, ma anche, come in questo caso, negativa perché paralizzante. Basta uno stranuto, un colpo di tosse, un po’ di stanchezza (ma chi non è stanco in questa società ossessiva e nevrotica?) che subito si pensa al Covid e alla morte. Paura del tutto irrazionale perché in Italia i morti per Covid sono attualmente lo zero virgola della popolazione. Bisognerebbe che tutti ci ricordassimo del detto del vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte chi ha paura della morte”. Che è proprio la situazione irrazionale che stiamo vivendo, peraltro in una società che, per una sua folle ubris non contempla la morte biologica, quella inevitabile che prima o poi arriva per tutti, ma l’ha proibita, scomunicata, dichiarata pornografica.

Credo però che in molti di noi più che la paura della morte operi un autentico e molto razionale terrore della trafila delle “quarantene”. Sono abbastanza convinto che le “quarantene” faranno più danni del Covid. L’ansia abbassa le difese immunitarie che si aprono a malattie ben più pericolose del Covid. Ma questo lo potremo sapere solo a epidemia superata e sempre che sia superata. Infatti l’aver tentato di bloccarla in tutti i modi ci espone a continui colpi di ritorno (ad uno stiamo assistendo in questi giorni) come una molla troppo compressa torna su con la stessa forza con cui l’abbiamo schiacciata. E un’altalena del genere può continuare all’infinito.

Il governo italiano ha deciso una linea, poi seguita più o meno da tutti gli altri Paesi europei, e l’ha portata avanti in modo coerente, forse l’unico appunto che gli si può fare è di non aver rafforzato i presidi sanitari fin dal momento in cui l’epidemia è comparsa in Cina, perché oggi tutto si muove a velocità supersonica.

Io, che per fortuna di tutti non sono presidente del Consiglio, avrei seguito una linea completamente diversa. Storicamente le epidemie non nascono a caso, arrivano quando c’è un eccesso di popolazione. Nel mondo non siamo poi molti, sette miliardi e mezzo circa, ma questa cifra è moltiplicata proprio dalla velocità degli spostamenti per cui, forzando un po’ il paradosso, è come se stessimo tutti nello stesso posto. L’epidemia ha la funzione di sfoltire questo eccesso di popolazione, eliminando i soggetti più deboli. Nel mondo i morti per Covid si aggirano attualmente fra gli 800 e i 900 mila. Quanti sarebbero stati senza le misure di contenimento presi dai vari Paesi? Il doppio, il triplo? Nell’ultima guerra mondiale, in un’area molto più ristretta (Europa e Giappone) i morti sono stati 50 milioni. La guerra ha avuto la funzione di un’epidemia. Se si fosse lasciato che l’epidemia sfogasse liberamente il suo corso alla fine se ne sarebbe andata, per mancanza di alimento, come sempre se ne sono andate le epidemie e se ne sarebbe riparlato fra trent’anni. Invece rischiamo di portarcela appresso per trent’anni ancora e forse più.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2020

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All’inizio di questa estate che sta morendo, purtroppo non da sola, il sindaco di Milano Beppe Sala in un’intervista a InOltre ripropose la ‘vexata quaestio’ delle gabbie salariali affermando in sostanza che fra chi vive nel capoluogo lombardo e chi, poniamo, a Reggio Calabria il discriminato, a suo sfavore, è il primo e non il secondo perché a Milano il costo della vita è mediamente superiore del 30 per cento. Fra le risposte sdegnate spicca quella della deputata 5stelle calabrese Federica Dieni: “Le affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti. E’ inaccettabile che nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.

Non c’è nulla di allucinante e inaccettabile o complesso da “cultura superiore” nella proposta di Sala, ma molto di logico ed economicamente ineccepibile. Ciò che ha detto il sindaco di Milano è un dato di fatto che non riguarda solo Reggio Calabria, presa da Sala a puro titolo di esempio, ma l’intero nostro Sud.

Nell’Italia repubblicana e democratica le gabbie salariali sono esistite fino al 1970. La possibilità di un loro ripristino fu ripresa da Umberto Bossi negli anni Novanta. Sul ‘senatur’ caddero i fulmini sia della cosiddetta sinistra che della cosiddetta destra. Fra le tante l’accusa principale era naturalmente quella di “razzismo”. Bossi non era affatto razzista, la mitica Padania da lui sognata era di “chi ci vive e ci lavora” senza esami del sangue sulla sua provenienza. Ma la proposta di Bossi, a differenza di quella di Sala che il sindaco di Milano ha legato, chissà perché, alla contingenza del Covid che non c’entra nulla, si inseriva in una visione molto più ampia dell’Italia e dell’Europa. Bossi, che io considero l’unico statista italiano degli ultimi trent’anni, pensava che in un’Europa politicamente unita sarebbero scomparsi gli Stati nazionali, che non avrebbero avuto più alcuna ragion d’essere, sostituiti come riferimenti periferici dalle “macroregioni”, cioè da aree coese dal punto di vista economico, sociale, culturale e anche climatico. E, per quel che riguarda l’Italia, è fuori discussione che Nord, Centro, Sud sono realtà molto diverse. Non migliori o peggiori, diverse. Diceva Aristotele che “ingiustizia non è solo trattare gli eguali in modo diseguale, ma anche trattare i disuguali in modo eguale”. Da chi vive al calor bianco del Sud non si può pretendere che si comporti come l’industrialotto brianzolo che , per sua cultura e non certo solo per ragioni climatiche, ‘rusca’ 15 ore al giorno. Di converso  chi vive e lavora al Sud non può pretendere lo stesso tenore di vita dell’immaginato industrialotto brianzolo . Tutti gli uomini e le donne, in Italia e fuori, hanno pari dignità, ma vivendo in situazioni economiche, sociali, culturali, climatiche diverse non possono essere trattati, seguendo Aristotele, allo stesso modo.

Devo anche dire che l’eterno piagnisteo meridionale, a più di 150 anni da quella sciagura che è stata l’Unità d’Italia, comincia a dare sui nervi. Io lo vidi bene durante gli scioperi dell’ “autunno caldo” del 1969, cui partecipai. Gli operai milanesi, in maggioranza socialisti, e gli immigrati da tempo dal Sud  conducevano la loro sacrosanta lotta con la necessaria durezza ma con dignità, con quelli di più recente immigrazione si assisteva a messinscena del tutto fuori luogo che tiravano al patetico, tipo clochard involontario che tende la mano invece di pretendere diritti.

In Italia non esiste nessuna Questione Meridionale, su cui son state riempite intere biblioteche, esiste una Questione Settentrionale, dimenticata o comunque obnubilata, di una parte del Paese che deve trascinarsi dietro a forza un’altra recalcitrante.

Ipse dixit.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2020