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Non invidio il nostro Presidente del Consiglio stretto fra due necessità in realtà fra di loro inconciliabili: quella di tutelare la salute dei cittadini senza far saltare l’economia. Benché io sia stato contrario fin dall’inizio alle misure di contenimento dell’epidemia Covid, perché se tu comprimi una forza con un’altra forza questa, appena viene allentata la pressione, rimbalza fuori come una molla –ed è quanto è puntualmente avvenuto tant’è che oggi ci troviamo sostanzialmente nella stessa situazione epidemiologica di marzo e aprile- apprezzo il comportamento di questo avvocato, sbalzato improvvisamente ai più alti livelli della politica, e quindi senza conoscerne i marchingegni e le trappole, in un frangente difficilissimo quale nessun suo predecessore aveva dovuto affrontare. Apprezzo Giuseppe Conte, che i giornali che è difficile definire di destra senza far torto alla Destra, chiamano sprezzantemente Giuseppi, per il modo con cui si è speso senza risparmio in questi nove mesi,  mettendo in gioco anche la sua di salute, per la pacatezza e i toni sostanzialmente tranquilli, un po’ alla Angela Merkel, con cui quasi ogni giorno ha illustrato agli italiani gli intricatissimi problemi cui ci troviamo di fronte.  

Però una scivolata Conte l’ha fatta proprio sul piano comportamentale e psicologico quando a proposito del coprifuoco ha chiesto ai suoi ministri di “utilizzare ogni possibile sinonimo per non spaventare i cittadini”. In realtà questa raccomandazione, uscita immediatamente dalle segrete stanze, sembra fatta apposta per spaventare ulteriormente chi ne viene a conoscenza, cioè noi. Se tu cerchi di nascondere una cosa è perché la ritieni grave. Ma poi non è cambiando le parole, usando gli eufemismi, che si cambiano i fatti. Sembra di essere precipitati nel 1984 di Orwell dove il Grande Fratello stabilisce le parole che si possono usare e quelle che sono proibite, tanto che alla fine del suo profetico romanzo Orwell inserisce un saggio sulla neolingua. Insomma ci avete tagliato tutto, non tagliateci anche la lingua. Del resto in questo campo la situazione è già abbondantemente compromessa, perché tutto ciò che esce da quello che viene chiamato, con un termine che a me non piace, “politically correct” viene sanzionato socialmente se non addirittura penalmente. Un esempio grottesco è la querelle che dal 2006, trascinandosi di talk in talk, divide Alessandra Mussolini e Vladimir Luxuria perché a un “Porta a Porta” la nipote del Duce aveva dato all’altro/altra del frocio e costui/costei aveva replicato appioppandole l’appellativo di fascista.

Del resto, al di là del Covid e dei suoi verboten, pratici e adesso, a quanto pare, anche linguistici, la nostra democraticissima Repubblica è una società di divieti. Una promettentissima poliziotta, Arianna Virgolino, 31 anni, è stata sospesa dalla Polizia per “demeriti estetici”. Qual è la gravissima colpa di Arianna? Essersi fatta tatuare sul polso un cuore con coroncina, regalo per i suoi 18 anni. Tatuaggio che aveva poi eliminato. E’ comprensibile che i poliziotti, Corpo di Stato, abbiano divieti particolari che non riguardano gli altri cittadini, anche se forse, a mio modo di vedere, bisognerebbe fare una qualche distinzione fra un tatuaggio che inneggia all’Isis e uno, del tutto innocente, che inneggia all’amore. Peraltro, come si è detto, quello scandaloso tatuaggio, peccato di gioventù, era stato estirpato a colpi di dolorosi e costosi laser. Insomma usare qualche volta quello che le persone istruite chiamano “senso comune” e il popolo buon senso non guasterebbe. E questo vale per tutti. Per Conte, per il Corpo di Polizia, per il Consiglio di Stato che con una sentenza ha posto le premesse per l’espulsione di Arianna Virgolino, per la pleistocenica querelle mediatica inflitta agli spettatori fra due personaggi non proprio di primissimo piano (non siamo qui alle diatribe fra Ennio Flaiano e Gianni Brera o per mettere un piede in Francia fra Sartre e Camus ma piuttosto al livello di Trissottino). Buon senso e buona educazione, che pur erano molto presenti nel popolo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, sembrano essersi inabissati nella volgarità del vivere contemporaneo, incentivata dalla Tv, dai social media e, diciamolo pure, dai nostri giornali. Il buon senso, come il coraggio di manzoniana memoria, chi non ce l’ha non se lo può dare. La buona educazione invece può essere trasmessa, certamente dalla famiglia ma soprattutto dalla scuola. Ed è uno dei compiti, e non dei più marginali, dello Stato senza per questo dover ricorrere a una totalitaria neolingua ma usando semplicemente quella, straordinaria, che ci ha lasciato in eredità padre Dante di cui l’anno prossimo si celebrano i settecento anni dalla morte. Io penso anzi che quella della buona educazione sia la prima, vera, urgente riforma da fare in Italia. Covid, che tutti ci innervosisce, permettendo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2020

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A Parigi è già vigente da alcuni giorni il coprifuoco dalle 21 di sera alle 6 del mattino, cioè in questo orario nessuno può uscire di casa (Parigi brucia?). Si è deciso di adottare questa misura anche in Italia, in particolare per una grande città come Milano che curiosamente risparmiata dall’epidemia nei primi mesi oggi vede un’accelerazione dei contagi da ‘zona rossa’.

Il termine ‘coprifuoco’ è di derivazione medioevale. Nel Medioevo europeo ad una certa ora della sera, al suono delle campane, si chiudevano le porte della città (quelle porte che oggi fanno parte del nostro patrimonio artistico), nessuno poteva uscire dal borgo né entrarvi e c’era la precauzione di coprire con le ceneri le braci per evitare incendi (copri-fuoco, appunto). All’interno della città o del borgo la vita notturna continuava come sempre, pur tenendo conto che in un’epoca in cui non c’era la luce elettrica quella vita era meno turibolante di quanto possa essere oggi a Parigi, a Londra, a Milano, a Roma. Il coprifuoco non era quindi un provvedimento eccezionale, ma una consuetudine che aveva a che fare con la normale amministrazione.

Nei tempi moderni invece il coprifuoco è una misura eccezionale presa dai governi per fronteggiare un’emergenza altrettanto eccezionale. In linea di massima è stato utilizzato durante le guerre, soprattutto dopo l’avvento dei bombardieri. Di qui la necessità di spegnere tutte le luci per non offrire al nemico un bersaglio troppo facile. E infatti a Milano, la città più colpita, gli angloamericani bombardarono alla cieca e alla cieca fecero un mucchio di morti civili, senza riuscire a colpire alcun obbiettivo militare o paramilitare apprezzabile. Sia in epoca medioevale o moderna il coprifuoco non aveva quindi nulla a che vedere, sia pur per motivi diversi, con la difesa da un’epidemia. Nell’ultimo secolo e mezzo ci sono state in Europa e in Italia numerose epidemie, anche più letali di quella Covid, ma mai si era pensato di introdurre il coprifuoco e nemmeno a misure di sicurezza così stringenti come quelle attuali a cominciare dalla più devastante di tutte, dal punto di vista psicologico, emotivo, sociale ed economico, che si chiama appunto “distanziamento sociale”. Non sto dicendo qui che il Covid non esiste –i contagi ci sono e dopo la parziale fine del lockdown propriamente detto stanno aumentando- ma che la nostra reazione è sproporzionata al pericolo che dobbiamo affrontare. I contagi, di cui ci dà quotidianamente conto il Cts, riguardano in buona parte soggetti asintomatici, cioè persone che non sono malate di alcunché, ci sono poi i cosiddetti “paucisintomatici”, cioè persone che hanno sintomi leggeri non diversi da quelli di una normalissima influenza, quindi quelli ricoverati in terapia semintensiva o intensiva, ma alla fin della fiera dopo nove mesi dall’inizio della pandemia i morti per Covid in Italia sono lo 0,15% della popolazione. Perché allora questo allarme, questo senso di angoscia che, ammettiamolo, ci prende tutti, chi più chi meno, perché questa pandemia di panico che non ha precedenti nel passato? Io credo che le ragioni siano sostanzialmente due.

La tecnologia, in questo caso particolare la tecnologia medica, ci ha dato l’illusione di poter avere sempre tutto sotto controllo. Invece il Covid è uno screanzato che non rispetta né regole né previsioni, che marcia per conto suo, tant’è che ha mandato in totale confusione la comunità scientifica dove non si trova un solo esperto che sia d’accordo con un altro. E’ insomma caduto, o è stato largamente intaccato, il mito della Scienza che tutto può e che a tutto provvede (”Poi venne Dio che tutto dà e tutto toglie”, Maddalena, Alessandro Mannarino).

La seconda ragione è una paura della morte, un abbietto terrore della morte che è venuto via via crescendo nel corso degli ultimi decenni. Nella società del benessere che ha sancito il diritto alla felicità (per la verità nella Dichiarazione d’indipendenza americana si parla più cautamente di un “diritto alla ricerca della felicità” che però l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato in un vero e proprio diritto alla felicità) che felicità ci può mai essere se poi a conti fatti si continua, come sempre, a morire? In questa società la morte biologica, questo evento così naturale e ineludibile, è l’’Inaccettabile’, è il vizio oscuro che non si deve nemmeno nominare, come la pederastia di vittoriana memoria (basta leggere i necrologi).

Le epidemie possono durare degli anni. Non credo proprio che nessuna popolazione, anche la più disciplinata e ‘tedesca’, possa tollerare tanto a lungo la situazione da lager che stiamo vivendo ormai da otto mesi. Per ragioni psicologiche ed economiche che si intrecciano. Noi dovremmo vivere, di fatto, fra casa e lavoro, anzi fra lavoro e casa, abbandonando ogni relazione sociale che non appartenga ad una cerchia già consolidata (la famiglia) e non senza qualche mannaia anche su quest’ultima. Col paradosso ulteriore che sul tragitto casa-lavoro-casa sui mezzi pubblici c’è proprio quell’”assembramento sociale” che a tutti i costi si vorrebbe evitare.

Particolarmente pregiudicati da questa epidemia di panico sono proprio i soggetti che si vorrebbero salvaguardare: i vecchi. Uno dei drammi, se non addirittura il principale, della vecchiaia è la solitudine, i compagni di una vita si sono dispersi, altri sono morti, restano solo i figli e i nipoti, ma questi per il timore di contagiare i loro congiunti più anziani se ne devono restare alla larga. Inoltre i vecchi, per la falsa convinzione, a cui le notizie di stampa hanno dato vasta eco, ritengono che i loro coetanei siano, a parità di condizioni, più infettanti dei giovani e quindi si evitano. Addio quindi anche alla combriccola così ben descritta da De André (“Una gamba qua una gamba là/Gonfi di vino/Quattro pensionati mezzo avvelenati/Al tavolino/Li troverai là col tempo che fa/Estate inverno/A stratracannare a stramaledir/Le donne il tempo ed il governo”, La città vecchia). E allora, perdio, esco almeno a fare quattro passi a prendere una boccata d’aria. Solo che con la mascherina obbligatoria anche in solitudine (almeno che tu non corra per i campi cosa inadatta e praticamente impossibile dopo una certa età) quella che ti prendi è una boccata di anidride carbonica.

Particolarmente devastante in economia è lo “stop and go” delle misure prese dal governo. Peculiare qualità dell’imprenditore è la capacità di prevenire e di prevedere gli eventi. Ma che cosa mai posso prevedere se da un mese all’altro, da una settimana all’altra, alle volte da un giorno all’altro, cambiano le regole del gioco?

Insomma per una paura troppo annunciata, e a nostro modo di vedere irrazionale, della morte, noi ci stiamo impedendo di vivere. L’uomo è una creatura tragica e paradossale: a volte si uccide per paura della morte. E’ quanto, senza che ce rendiamo ben conto, stiamo facendo oggi su larga scala.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2020

 

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Non si può aprire un telegiornale, qualsiasi telegiornale, senza che l’intero spazio sia dedicato al Covid. Covid in tutte le salse. Inviati da Milano, da Napoli, da Genova, da Torino, da Matera. E quando sul finire dei servizi si pensa che ci si occupi finalmente di cose serie, il calcio, eh no anche il calcio è visto in versione Covid (Cristiano Ronald, il campione della Juventus che, del tutto asintomatico, e quindi sano, è stato trovato positivo e non potrà giocare alcune partite importanti o il suo compagno Weston McKennie che è più o meno nella stessa situazione). Tutto ciò crea un senso d’angoscia sia nei credenti, nella potenzialità devastante del virus, sia nei miscredenti. Per non contribuire a questo panico, molto irrazionale secondo il nostro personalissimo cartellino, ci occuperemo quindi d’altro.

Il mese scorso è stata arrestata in Siria, dopo una lunga e complicatissima indagine dei Ros, Alice Brignoli, un’italiana che, seguendo il marito marocchino, era andata a combattere per lo Stato Islamico di Al Baghdadi, che a quel tempo era uno Stato a tutti gli effetti perché secondo la giurisprudenza uno Stato è tale quando esistono tre elementi costitutivi:  un governo, un territorio, una popolazione, e lo Stato Islamico li aveva tutti e tre (sia detto di passata, non credo che chi sta combattendo attualmente in Siria, dall’una o dall’altra parte, o in Afghanistan nel conflitto fra Talebani e Isis, si preoccupi molto del Covid, perché da quelle parti la possibilità di morire è molto concreta e non un’ipotesi, e quando la morte si presenta nelle forme dinamiche, per esempio la battaglia,  ci si pensa molto di meno. François Mauriac: “Per tutta la vita ho pensato alla morte. Ora che mi batto non ci penso più”).

Ho anche qualche dubbio che l’arresto di Alice Brignoli sia legittimo. Durante la guerra di Spagna moltissimi europei vi parteciparono battendosi per l’una o l’altra parte, il franchismo o la repubblica, ma non mi risulta che, posso sbagliare, siano stati perseguiti dai rispettivi governi per avervi preso parte. Ma la questione centrale è un’altra. Alice Brignoli ha quattro figli avuti dal suo compagno combattente. Sono ovviamente intrisi di islamismo radicale. Ora sono in una comunità dove, come si esprime Gian Micalessin (Il Giornale, 30.9), devono essere “rieducati” alle buone maniere. Quella della “rieducazione” è una costante di ogni totalitarismo, da Mao ai khmer rossi al sovietismo di marca staliniana. Nei gulag sovietici si utilizzavano tecniche sofisticatissime per correggere i prigionieri, cambiandone radicalmente la personalità, da ogni “deviazionismo” che non corrispondesse esattamente alla linea del partito. Si legga in proposito lo spettrale libro di Gustaw Herling “Un mondo a parte”. Non si capisce perché i ragazzini italo-siriani portati in Italia, che erano stati educati in un certo modo dai propri genitori, ora debbano essere “rieducati” secondo i valori della democrazia liberale che per i primi anni della loro esistenza erano stati loro estranei, per passare da un totalitarismo a un altro. Si lasci che questi ragazzini che poi diverranno adulti siano liberi, sempre che non commettano reati per la legge italiana, di scegliersi la vita, le idee, i pensieri che più riterranno congeniali alla propria esistenza e alla propria interiorità. Sarebbe per esempio interessante sapere se Silvia Romano la volontaria rapita in Kenya, trasferita in seguito in Somalia sotto il controllo degli shebaab, e rientrata in Italia vestita con abiti rigorosamente islamici e con ideali islamici, sulla quale a suo tempo si è fatto tanto chiasso, dopo sei mesi di vita nel nostro Paese ha cambiato idea oppure no. Ma il giornalismo non fa più il proprio mestiere. Si occupa solo di Covid.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2020