“Vigliacco! Piangeva, gridava. Era terrorizzato. Altro che eroe, è morto come un codardo. Si è fatto esplodere, trascinando con sé tre bambini”. Questa la dichiarazione, a reti unificate, di un tronfio Donald Trump il giorno in cui ha dato la notizia dell’uccisione di Al Baghdadi.
Non mi pare che uno che si suicida facendosi saltare in aria possa essere accusato di vigliaccheria. E’ una morte da mujaheddin, da combattente. Mi piacerebbe sapere come si comporterebbe in una situazione analoga Donald Trump, comandante in capo dell’esercito statunitense, che fa il fenomeno dietro una scrivania. I precedenti non sono incoraggianti. Quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono George W. Bush fu ficcato a forza sull’Air Force One e portato prudentemente lontano dal luogo delle operazioni. Un comportamento non precisamente da eroe, come ebbe il coraggio di far notare la scrittrice statunitense Susan Sontag.
Agli americani non basta vincere, hanno il morboso bisogno di umiliare il nemico sconfitto. Lo fecero anche con Osama Bin Laden quando finsero di averlo ucciso nel 2011 ad Abbottabad in Pakistan, affermando che il Califfo saudita al momento del dunque aveva vigliaccamente cercato di proteggersi dietro una delle sue mogli e scovando materiale pornografico nel suo nascondiglio. Dico “finsero” perché nessuno può credere, tranne il loro popolo che è ingenuo e naif (ed è il suo aspetto più simpatico), che si cattura il “pericolo pubblico numero uno”, lo si uccide ma non se ne fanno vedere le spoglie e si butta frettolosamente il cadavere in mare in modo che nessuno possa più controllare niente. Pratica che è stata usata anche adesso con Al Baghdadi, per cui c’è qualcuno, come il New York Times, che dubita che il Califfo sia stato veramente ucciso nel giorno indicato da Trump, ma che la data sia stata sfasata per gli interessi elettorali dell’inquilino della Casa Bianca (sia detto di passata, Bin Laden deve essere morto fra il 2004 e il 2005, probabilmente per malattia –aveva i reni gravemente compromessi– oppure ucciso dagli stessi americani per tappargli la bocca, perché sapeva troppe cose compromettenti. Altrimenti non si capirebbe perché fino al 2004 il Califfo saudita abbia sculato davanti a ogni video possibile e immaginabile per poi scomparire improvvisamente, di colpo, e rispuntare magicamente sei o sette anni dopo).
Un’altra specialità yankee è quella di negare una degna sepoltura ai propri nemici. Lo hanno fatto, stando alla loro narrazione, con Osama Bin Laden, lo fanno ora con Al Baghdadi: in mare, ai pesci e non se ne parli più. In epoche passate, quando gli americani non erano ancora comparsi all’onor del mondo, una tomba e le relative onoranze funebri non si negavano a nessuno, foss’anche il peggior nemico. Quando Catilina osò sfidare lo Stato romano prendendo le parti dei piccoli proprietari terrieri e dei plebei contro le oligarchie senatorie, latifondiste e fainéant che depredavano i primi e opprimevano i secondi, e cadde eroicamente in battaglia, in una lotta impari, il suo cadavere fu restituito agli anziani genitori. Quando l’imperatore Nerone, colpito da ‘damnatio memoriae’, la più definitiva pena per un cittadino romano, fu costretto al suicidio, nessuno si sognò di negargli le onoranze funebri, che furono curate dalle sue nutrici Egloge e Alessandra, né tantomeno una tomba sulla quale la plebe di Roma, che lo aveva molto amato, continuò a portar fiori per trent’anni ancora.
Ma torniamo al piacere di umiliare i nemici sconfitti. Nel lungo viaggio che li portava a Guantanamo i guerriglieri talebani che erano stati catturati ed esposti alla curiosità di tutte le televisioni (trattamento alla Saddam Hussein) furono narcotizzati e muniti di pannoloni per umiliarli e in quella famigerata prigione venivano trasportati in carriola per renderli ridicoli e rinchiusi in gabbie illuminate notte e giorno. Questa di mettere i nemici in gabbia è proprio una mania yankee. Nell’immediato dopoguerra il poeta Ezra Pound, mallevadore di molti letterati statunitensi, colpevole di essere vissuto in Italia e di non aver osteggiato il fascismo fu messo anche lui in una gabbia illuminata giorno e notte ed esposto, come una bestia, alla curiosità della canaglia che poteva osservarlo anche mentre cacava. E il grande Ezra, una volta liberato, per dieci anni si chiuse, per ripicca, in un mutismo assoluto. L’orrore sadico e perverso di Abu Ghraib lo ricordiamo tutti. Durante il processo di Norimberga i criminali nazisti venivano ridicolizzati obbligandoli a deporre in piedi indossando dei pantaloni privi di cintura e costretti a tenerseli su con le mani.
Pare che durante l’incursione nei cunicoli di Barisha alla caccia di Al Baghdadi i commandos americani fossero guidati da un cane che, ferito, è stato subito elevato a eroe nazionale. Gli altri si fanno saltare in aria, da noi, tecnologicamente avanzatissimi, gli “eroi” possono essere solo dei cani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2019
Mentre Matteo Salvini celebra in Umbria (un test che ha riguardato 700 mila italiani) il suo trionfo e il Pd ma soprattutto i Cinque Stelle si leccano le ferite che per questi ultimi sembrano preludere a una scomparsa dalla scena, sul Corriere della Sera di qualche giorno fa leggiamo un articolo di Sabino Cassese (“La decadenza (ignorata) e il vuoto di idee dei partiti”) grande giurista ed economista che non può essere incasellato in nessuna corrente politica, insomma un uomo indipendente, articolo da cui, fra le altre cose, esce un dato all’apparenza sorprendente: “All’inizio della storia repubblicana, in un’Italia con quasi 13 milioni di abitanti in meno, i partiti avevano otto volte più iscritti di oggi”. E se ne capisce il perché. Nel dopoguerra i partiti erano portatori di grandi ideali e di grandi valori: la Dc si poneva come baluardo del “mondo libero” e liberista senza dimenticare però, richiamandosi proprio ai valori cristiani su cui era nata, la funzione sociale che uno Stato deve avere, il Pci, legato idealmente ma anche materialmente all’esperienza sovietica, stava dall’altra parte della barricata lottando per un’uguaglianza sociale a prezzo del sacrificio dei diritti civili, il Psi cercava di coniugare uguaglianza sociale e diritti civili, i liberali erano schierati senza se e senza ma col liberismo di stampo anglosassone, il Partito radicale di Marco Pannella, essenzialmente libertario, difendeva a spada tratta la laicità dello Stato interessandosi meno, almeno allora, dell’economia, il Msi riconosceva al Fascismo di aver avuto in testa e praticato coerentemente un’idea di Stato e di Nazione anche se poi era stato travolto dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale a favore delle Democrazie occidentali. Insomma, come si può vedere, veicolavano idee molto forti per cui aveva senso battersi.
Secondo Cassese i partiti “sono nati con un piede nella società, l’altro nello Stato. Hanno conservato il secondo e perduto il primo, con una grave crisi di legittimazione”. I partiti tradizionali, o almeno i più importanti, erano ben radicati nella realtà sociale, sul “territorio” come si dice oggi, il Pci e il Psi avevano sezioni ovunque anche nel borgo più sperduto, la Dc contava sulla diffusione capillare delle parrocchie. Inoltre facevano cultura, soprattutto cultura politica anche se settaria. A Milano, per stare alla città che conosco meglio, c’erano la Casa della cultura, comunista, il Circolo Formentini, socialista, mentre la sera in piazza Duomo si radunavano centinaia di persone che discutevano appassionatamente (oltre che di calcio, allora il grande sport nazionalpopolare, unificante) di politica in relazione ai partiti a cui si riferivano. Nel corso del tempo i partiti hanno perso il contatto con i cittadini ma hanno occupato sempre più lo Stato trasformandosi in autentiche mafie che si spartiscono il potere assoggettandovi i cittadini. Tutti noi sappiamo, per esperienza diretta, che in Italia non si fa carriera, in qualsiasi settore, se non si lecca la babbuccia di un qualche boss di partito, il merito, se c’è, viene dopo. I partiti pur occupando l’intero Stato, e proprio perché lo occupano, si sono talmente screditati davanti all’opinione pubblica che, come nota sempre Cassese, “solo 5 dei 49 partiti iscritti nella prima parte del ‘registro nazionale dei partiti politici’ hanno la parola ‘partito’ nella loro denominazione ufficiale e solo uno di quelli rappresentati in Parlamento la conserva”. Insomma gli stessi partiti si vergognano di se stessi.
Ma il fenomeno non è solo italiano è internazionale. Tutte le rivolte attualmente in atto nel mondo dai gilet jaune francesi, all’indipendentismo catalano, al Cile, all’Ecuador, al Libano, all’Iraq nascono in modo spontaneo, contro i partiti, la loro politica, la loro corruzione, la classe dirigente. E se qualche partito cerca di mettere il proprio cappello sopra queste rivolte, per lucrarne arbitrariamente il consenso, viene respinto brutalmente.
E non credo proprio che il modesto test umbro possa essere interpretato come un’inversione di tendenza, come una rinnovata fiducia nei partiti. Anzi la conferma, perché sappiamo bene che nelle elezioni amministrative, ancor più che in quelle politiche, contano le camarille, le lobby locali, legate da interessi particolari, clientelari, quando non apertamente corruttivi (e questo vale, naturalmente, anche se in Umbria invece che la Lega avessero vinto il Pd o i Cinque Stelle). Altrimenti, facendo un esempio fra i tantissimi, non si capirebbe perché mai Claudio Scajola condannato per un reato infamante, prescritto per altri, uscito per il rotto della cuffia da un fatto moralmente ripugnante, l’essersi fatto pagare una lussuosa abitazione con vista Colosseo, che dovrebbe suscitare il disgusto, il disprezzo e l’incazzatura dei suoi concittadini, sia stato bellamente rieletto, nel 2018, sindaco di Imperia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2019
Dopo la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione esultano i giornali romani e quelli più legati al mondo romano, un po’ meno i quotidiani del nord, compresi i notoriamente ‘ultragarantisti’ Il Giornale e Libero che non danno alla notizia un rilievo particolare. Il Tempo: “Mafia Capitale non è mai esistita”. Il Messaggero: “Non era mafia Capitale”. Il Foglio: “Mafia Capitale era una fiction”. Sul Messaggero Mario Ajello, figlio di Nello Ajello (nel giornalismo italiano quasi nessuno è figlio di nessuno) si lancia in una intemerata contro la sentenza della Corte d’appello, riformata ora dalla Cassazione, che aveva definito Roma come una città potentemente infiltrata da associazioni mafiose che usavano metodi mafiosi. E scrive: “Era una fake news (la sentenza della Corte d’appello, ndr). Ma quanti danni ha creato, quanta vergogna ha prodotto, come è riuscita ad annichilire la coscienza personale e pubblica dei romani, e ad abbattere l’immagine di capitale d’Italia e di caput mundi, l’etichetta di Mafia Capitale. Mai brand ha distrutto di più, agli occhi di tutti, la reputazione di una città…Mafia Capitale ha segnato la brusca interruzione del plurimillenario rispetto che il mondo portava a questa città, non solo per il suo passato ma anche per il resto della sua storia”.
E allora che cos’era questa Mafia Capitale che non era mafia? Ce lo spiega, in tutta innocenza e con un certo candore, Il Foglio, un giornale che con un trucco, come ha ammesso Giuliano Ferrara che ne fu lo storico direttore, è in parte pagato dai contribuenti, cioè da noi: “Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (‘corruzione come ovunque’ secondo Il Tempo, ndr) quella che dal 2011 al 2 dicembre 2014, data in cui deflagrò l’inchiesta con decine di arresti e rilevanza mediatica in tutto il mondo, avrebbe operato nella Capitale accaparrandosi appalti per la manutenzione urbana (come punti verdi e piste ciclabili) e per il sociale (gestione dei migranti) coinvolgendo anche i vertici di Ama, la municipalizzata dei rifiuti”…. In quanto a Salvatore Buzzi era “un imprenditore a capo di una compagine di cooperative sociali che offriva lavoro a ex detenuti, con la complicità di politici e funzionari pubblici”. Il tutto condito con “intimidazioni e minacce”, cioè quella “riserva di violenza” riconosciuta in primo grado che il verdetto della Cassazione non ha smentito. Insomma bazzecole, cose di tutti i giorni da non meritare che si spacchi il capello in quattro.
Io dico che sarebbe stato meglio se in Roma fosse stata accertata la presenza di una mafia propriamente detta. Perché la mafia ha una struttura, un’organizzazione, una gerarchia, per cui si può pensare di poterla smantellare, almeno in linea teorica, risalendo dai ‘picciotti’ ai sottocapi e ai capi. La corruzione capillare, il cosiddetto “mondo di mezzo” è invece ‘liquido’, come si dice oggi, non è individuabile se non caso per caso e può coinvolgere tutti, anche persone all’apparenza insospettabili. A differenza della Mafia propriamente detta ti sguscia fra le dita, come acqua infetta, senza poter nemmeno sapere che ti ha sporcato.
In quanto alla reputazione di Roma tanto decantata da Mario Ajello è patetica. Quando i piemontesi nel 1865 spostarono la capitale da Torino, troppo decentrata, decisero per Firenze in quanto Roma era ancora capitale dello Stato Vaticano. Scelsero Roma dopo la breccia di Porta Pia perché era diventata territorio italiano, senza inglobare però il Vaticano che rimase Stato a sé. Ma la scelsero solo per la sua posizione centrale, non certo per la sua fama di città eterna e immacolata. Roma è splendida, ma è una città parassitaria, clientelare e corrotta dai tempi dell’Impero romano. E il Papato, con la sua pesante e inquietante presenza, non ha contribuito certo a migliorarla, anzi è una concausa del suo ulteriore degrado. Come una cozza ha assorbito il peggio del Sud, trasportandolo poi al Nord, in particolare a Milano la fu “capitale morale”. Nel 1980 feci per Il Settimanale un’inchiesta intitolata “Via da Roma la capitale”. Roma infatti col progressivo accentramento di tutti i poteri, dai ministeri alla Rai alla stessa economia (gli imprenditori del nord dovevano fare code defaticanti davanti a sottosegretari e segretari, non dico ai loro ministri, irraggiungibili, per cercare di risolvere qualche loro problema) aveva finito per assorbire, nel modo peggiore, le energie positive del nostro Paese che allora non mancavano. Ma molto prima di me, nel 1955, L’Espresso per l’illustre firma di Manlio Cancogni aveva dedicato pressoché l’intero settimanale a un’inchiesta intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta”. Da allora nulla è cambiato, se non in peggio. Perché il cosiddetto ‘mondo di mezzo’ è molto più inafferrabile della Mafia. Io ribadisco quindi: meglio la Mafia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2019