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Uno degli slogan del Sessantotto recitava: “Pagherete caro, pagherete tutto”. Io l’ho trasformato in “rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto”. Anche, e forse soprattutto, la Democrazia cristiana. Giorni fa Marco Travaglio ricordava sulle colonne di questo giornale: “I democristiani, consci del loro enorme potere, rispettavano la funzione critica della stampa ed evitavano di intimidirla trascinandola in tribunale ogni due per tre”. Io che qualche anno in più di Marco ce l’ho, e ho quindi vissuto la lunga stagione del potere democristiano, posso confermare le sue parole in corpore vili. Per tutta la vita sono stato antidemocristiano e ho attaccato la Dc, finché è esistita, in modo duro, spesso pesante, a volte ingiusto, anche se non credo nei termini personali e volgarissimi che son patrimonio della nostra stampa di oggi e, direi, di buona parte dell’attuale cultura italiana (io non mi sognerei mai di chiamare una donna sia che faccia politica o che ne sia del tutto estranea “patata bollente” o “tubero incandescente”, termini appioppati a Virginia Raggi da quel gran signore di Vittorio Feltri). Non ho mai ricevuto una querela dagli esponenti democristiani nemmeno quando a metà degli anni 80 ripresi sul Giorno, a proposito di Aldo Moro, un articolo impietoso pubblicato su Il Lavoro di Genova nei giorni delicatissimi del suo sequestro e che era stato intitolato “Aldo Moro: statista insigne o pover’uomo?” (Il Lavoro, Contropiede, 5 maggio 1978). Potrebbe dire il lettore: non ti querelavano perché non contavi nulla. Le cose non stanno proprio così. Durante la stagione democristiana io ho lavorato per L’Europeo e per Il Giorno di Zucconi e Magnaschi che non erano esattamente giornali di seconda linea e dove tenevo una rubrica molto seguita dai lettori e che non poteva sfuggire agli occhi di qualsiasi psicopolizia, democristiana o meno. Ma la Dc non ti estrometteva nemmeno dal dibattito pubblico. Padrona di buona parte della Rai lasciava che, sia pur col contagocce, vi partecipassero voci molto diverse dalla sua. Era la tattica, ma credo anche una forma mentis, del ‘ventre molle’. Modalità che spazientiva Indro Montanelli perché non trovava un contrasto forte alle sue opinioni. Un pomeriggio ero andato a trovarlo al Giornale e mentre si parlava appunto della Dc e della sua ‘mollezza’ il vecchio Indro mi disse: “A battersi contro avversari del genere non c’è gusto”. Poi prendendo dalla scrivania una immaginetta incastonata in una cornice d’argento, di quelle in cui in genere si mettono le fotografie della moglie e dei figli o di Padre Pio, me la mostrò. Lì per lì non capii, poi dalla carta un po’ traslucida emerse la figura inconfondibile di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, alias Giuseppe Stalin. “Con questo ci sarebbe stato gusto! Con questo –ripeté- ci sarebbe stato gusto a battersi!”. “Sì direttore –risposi ridendo- ma il tuo divertimento sarebbe durato poco perché ti avrebbe fatto fucilare”. Eravamo nel 1990 e Montanelli chiudeva così la sua prefazione al mio libro Il Conformista: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. E così è avvenuto.

Da allora la tattica degli uomini politici nei confronti dei giornalisti e degli intellettuali ha preso una direzione bifronte. Per coloro che, senza per questo essere dei rivoluzionari, hanno un angolo di visuale totalmente diverso nei confronti del ‘sistema’ c’è l’emarginazione e il silenzio. Per i pochi, pochissimi, giornalisti che nel ‘sistema’ ci stanno, combattendolo, c’è l’intimidazione costante, per tornare al discorso di Travaglio, della querela e dell’ancor più insidiosa e direi anche ignominiosa azione civile di danno perché nell’azione civile non si vuole che sia ripristinata la propria onorabilità, si vogliono solo quattrini, inoltre nell’azione civile anche un ladro che sia riconosciuto come tale dalla magistratura può avere soddisfazione, sempre pecuniaria, se il giornalista ha usato “termini non continenti”. E’ chiaro che per un piccolo giornale, o un singolo giornalista, ciò è estremamente oneroso, perché quand’anche si abbia ragione vuol dire costi e un’infinita perdita di tempo. Più che a lavorare noi dobbiamo passare le giornate a difenderci.

Poiché le richieste degli uomini politici sono milionarie andrebbe, come ricorda ancora Travaglio, ripristinata la fattispecie della “querela temeraria”, dove per far causa bisogna depositare una cauzione proporzionale alla richiesta del danno e se poi tu la querela la perdi, perdi anche la cauzione. E allora un uomo politico, che pur ha alle spalle la tutela rassicurante del suo partito, prima di fare una causa che ha solo scopo intimidatorio ci penserebbe due volte. Per parte mia, ma questo sta solo nel mio “personalissimo cartellino” come diceva Rino Tommasi quando faceva telecronaca degli incontri di boxe, ripristinerei l’antico istituto del duello. E allora si vedrebbe chi ha le palle e chi non ce le ha.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2019

 

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In un dossier riservato di un’agenzia federale statunitense del 2015 che ha raccolto centinaia di testimonianze venuto ora alla luce grazie al Washington Post, il generale Douglas Lute, comandante in Afghanistan sotto le amministrazioni Bush e Obama, ha dichiarato: “Eravamo privi delle conoscenze basiche sull’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo, non ne avevamo la minima idea”.

Gli americani hanno invaso e occupato l’Afghanistan senza conoscerne la mentalità, i costumi, l’organizzazione sociale e neppure la sua storia. Il primo errore lo commisero già al tempo del governo talebano del Mullah Omar che gli Stati Uniti videro sulle prime con favore perché avendo Omar sconfitto i “signori della guerra” potevano avere un unico interlocutore per trattare l’affare che in quel momento gli interessava e cioè la costruzione del lunghissimo gasdotto (1.800 chilometri) che dal Turkmenistan porta al Pakistan, e quindi al mare, attraversando l’intero Afghanistan. Al gasdotto era da tempo interessata la Unocal, potentissima multinazionale americana nella quale erano presenti Dick Cheney, Condoleezza Rice e altri pezzi grossi che di lì a poco avrebbero fatto parte dell’amministrazione di George W. Bush. I rappresentanti della Unocal arrivarono a Kabul con la solita prepotenza, dando l’affare per già concluso: come potevano quegli “straccioni” opporsi? Non sapevano che agli afghani piace trattare per giorni e giorni davanti a una fumante tazza di tè. Bisogna avere la pazienza di stare seduti a quel tavolo. La ebbero quelli della Bridas argentina, una società a conduzione familiare ma molto esperta e quotata nel settore, diretta dall’italiano Carlo Bulgheroni. Con gli italoargentini, più rispettosi, più ‘italiani’, si instaurò un ottimo rapporto e il Mullah Omar decise di affidare il colossale affare alla Bridas. Causa non ultima, questa, insieme alla decisione, sempre di Omar, di azzerare nel 2000 la coltivazione del papavero e quindi il traffico di stupefacenti, dell’aggressione americana all’Afghanistan. Gli americani presero il pretesto dell’attacco terrorista alle Torri Gemelle per invadere il Paese. Ma era appunto un pretesto perché come è saltato fuori da un’accuratissima inchiesta del Guardian, e come noi abbiamo scritto da sempre, “gli attacchi dell’11 settembre si fecero all’insaputa dei leader talebani dell’epoca”.

Gli americani non hanno tenuto conto che la società afghana è organizzata in grandi clan ognuno con i propri interessi, anche se Omar aveva cercato, riuscendovi, di dare al Paese un diritto uniforme basato sul Corano. Quante volte in questa interminabile guerra gli americani hanno attaccato un clan neutrale, cioè che non stava né con i Talebani né con gli occupanti? Se tu uccidi un uomo di un clan del genere non hai semplicemente ucciso un uomo ma ti sei fatto d’un sol colpo duemila o tremila nemici che sono andati a unirsi alla resistenza talebana.

Non sapevano neanche che è abitudine degli afghani durante un matrimonio sparare in aria coi kalashnikov (in Afghanistan tutti hanno un kalashnikov). E così sono decine le volte che gli americani, scambiando un matrimonio per un raduno di guerriglieri, hanno raso al suolo oltre agli sposi i loro ospiti. E costoro, o per meglio dire i loro parenti rimasti in vita, sono andati a unirsi ai Talebani.

Ma la cosa che ha mandato letteralmente in bestia la gente afghana, popolo fiero, orgoglioso e guerriero, è il modo di combattere, o per essere più precisi di non combattere, degli americani con i bombardieri e successivamente con i droni teleguidati da diecimila chilometri di distanza. Gli afghani sono sempre stati abituati a combattere avendo l’avversario di fronte, questo nemico invisibile e imprendibile non poteva andare loro a sangue. Ed è per tutta questa serie di motivi che i Talebani hanno potuto riconquistare chi dice il 70 chi l’80 per cento del loro territorio, soprattutto nelle zone rurali che rappresentano il 90 per cento del Paese. Inoltre hanno sempre confuso e continuano a confondere i Talebani con l’Isis, permettendo al terrorismo internazionale di penetrare in Afghanistan, mentre i Talebani, oltre a combattere l’Isis, non si sono mai resi responsabili di attacchi fuori dal loro territorio.

Gli americani non hanno avuto presente nemmeno la storia, passata e recente, dell’Afghanistan. Con tre guerre successive, e sia pure con lunghi intervalli, gli afghani ci hanno messo ottant’anni per liberarsi dell’Impero inglese. Con i sovietici sono bastati dieci anni e del resto i russi hanno avuto il buonsenso di ritirarsi avendo capito che era inutile continuare una guerra che non potevano vincere. Adesso tocca agli americani e alle loro frattaglie, fra cui purtroppo ci siamo anche noi italiani. Ma gli americani si illudono se pensano di poter coinvolgere nelle trattative con i Talebani attualmente in corso a Doha nel Qatar il governo di Ashraf Ghani. Ghani, laureatosi presso l’American University, che si è perfezionato successivamente alla Columbia University, funzionario della Banca Mondiale è di cultura yankee e solo un po’ più decente del suo predecessore Hamid Karzai, trafficante di droga insieme al fratello. Quando Karzai divenne per la prima volta presidente nel 2004, in elezioni farsa, la stampa internazionale non trovò di meglio che nominarlo “uomo dell’anno” per l’eleganza del suo abbigliamento. Questa “eleganza” è costata agli afghani centinaia di migliaia di morti. Ma se Ashraf Ghani è personalmente un po’ meglio di Karzai non migliore è il suo entourage: corrotta è l’intera amministrazione pubblica, corrotta è la polizia, corrotta è la Magistratura tanto che è da tempo che gli afghani nelle aree rurali preferiscono affidarsi alla giustizia talebana. Ciò ha fatto dire nel 2016 al colonnello Christopher Kolenda che la democrazia che gli americani volevano imporre in Afghanistan si era trasformata in una “cleptocrazia”.

Tu non combatti diciotto anni, con perdite rilevantissime fra guerriglieri e civili, per trovarti ancora sulla testa un fantoccio degli americani. E quindi la guerra continua. Solo due giorni fa un furgoncino-bomba è stato fatto saltare in aria da un guidatore kamikaze, uccidendo almeno 10 militari governativi di stanza presso una base del distretto di Nad Ali, nella provincia di Helmand, notoriamente talebana da sempre.

L’unico modo per porre fine a questa guerra priva di alcuna autentica legittimità, immorale, oscena, è che le truppe occupanti se ne vadano al più presto. Poi saranno gli afghani a vedersela fra di loro. Il solo modo per salvare l’Afghanistan, come disse saggiamente il generale sovietico che aveva guidato l’invasione russa in quel Paese (guarda da chi ci tocca prendere lezioni) è che “gli afghani si salvino da soli”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2019

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Venerdì il CENSIS, Centro studi investimenti sociali (smettiamola di parlare per sigle e ridiamo alle cose il loro nome) ha pubblicato l’annuale Rapporto sulla situazione sociale del nostro Paese. Uno studio, ricchissimo di spunti, che tutti i giornali hanno ripreso, ma in modo più approfondito, dedicandogli tre pezzi, l’Avvenire, quotidiano della Cei, Conferenza episcopale italiana, cioè dei vescovi. Ed è naturale che sia così perché, in un mondo totalmente materialista, la Chiesa cattolica ha al centro della sua riflessione l’uomo, anche se, rispetto ad altre religioni, non è riuscita, per ora, a intercettarne i rinascenti bisogni spirituali.

La giornalista dell’Avvenire, Alessia Guerrieri, scrive che “viviamo fra un’ansia di massa, incertezza del futuro e difficoltà di fidarsi degli altri”. Che esista un’”ansia di massa” è confermato, sul Corriere, dallo psichiatra Claudio Mencacci che afferma che “ben 8 milioni d’italiani soffrono di disturbi d’ansia con conseguenze gravi sulle proprie capacità nella vita professionale”. Ma non c’è bisogno di ricorrere agli psichiatri, tutti noi, credo proprio tutti, poveri o ricchi che si sia, viviamo in un perenne stato d’ansia. Da che cosa dipende? Il Censis lo fa risalire a ragioni economiche: disoccupazione, semi-occupazione, incertezza per il proprio futuro lavorativo, disuguaglianze sociali.  Certo sono ragioni importanti, ma io non credo che questo sia il nocciolo più autentico della questione. Negli anni Cinquanta eravamo tutti – a parte una strettissima striscia di borghesia che aveva almeno il buon gusto e il buon senso di non ostentare la propria ricchezza - molto più poveri di quanto non lo si sia oggi. Eppure non si avvertiva in giro nessuno “stato d’ansia”, ma semmai spavalderia e anche allegria. Il nostro generale smarrimento deriva, a mio parere, da altre circostanze. In primo piano c’è la velocità spaventosa, esasperata dalla globalizzazione, a cui sta andando il nostro modello di sviluppo e la questione qui non è solo italiana ma riguarda gli stili di vita del mondo occidentale e di quei Paesi che questi stili hanno adottato. Dopo aver letto Avvenire ho visto la sera su Sky uno speciale dedicato ai Bitcoin e a tutte le monete virtuali che stanno prendendo piede in un mondo che non è più reale ma è appunto virtuale. Che è lo stesso mondo in cui si rifugiano i ragazzi, e non solo loro: secondo il Censis il 73,8% possiede almeno uno smartphone e vive con esso da quando si sveglia a quando va a dormire. C’è quindi una fuga dalla realtà, una realtà troppo complessa per poter essere in qualche modo governata e soprattutto retta dal singolo. Il fatto è che nel giro di pochi decenni sono saltati tutti i punti di riferimento su cui eravamo abituati a vivere, quei valori che io chiamo “preideologici e prepolitici”: senso della propria dignità, onestà e persino un minimo di buona educazione. C’è nel Rapporto del Censis un dato che a mio parere è decisivo: “il 75% degli italiani non si fida più degli altri”. E non si vive bene quando non puoi mai sapere se chi ti sta davanti è una persona onesta oppure un mascalzone che nei modi sofisticati oggi possibili cerca di portarti via, oltre al portafoglio, anche l’anima.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2019