Si celebrano in questi giorni in Gran Bretagna i 70 anni della NATO (North Atlantic Treaty Organization). Portati malissimo. In un’intervista rilasciata all’Economist ai primi di novembre il presidente francese Macron ha definito la Nato in uno stato di “morte cerebrale” e se la Germania della Merkel ha preso le distanze da questa dichiarazione è stato solo per il momento scelto, giudicato prematuro, non per il suo contenuto. Lo stesso Trump, in uno dei suoi momenti di quella brutale franchezza che gli è propria, tempo fa aveva definito la Nato “obsoleta”.
Il fatto è che la Nato nel corso degli anni ha cambiato completamente la sua natura. Da trattato difensivo fra i Paesi occidentali al di là dell’Atlantico e le democrazie occidentali al di qua si statuiva un mutuo soccorso armato nel caso che uno dei Paesi dell’Alleanza fosse stato aggredito da un altro che della Nato non faceva parte. Fondamentale è l’articolo 5 del Trattato che recita: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse...assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.
Finché è esistita l’Unione Sovietica questo Patto aveva un senso per inibire all’”orso russo” la tentazione di intraprendere pericolose avventure in Europa Ovest (già escluse peraltro dal Patto di Jalta fra Roosevelt, Churchill e Stalin). Poi l’ha perso. Che Paese Nato minacciava la Serbia, cristiana e socialista, di Milosevic aggredita brutalmente nel 1999? Che Paese Nato minacciava l’Iraq di Saddam aggredito e invaso nel 2003? Che Paese Nato minacciava la Libia di Muammar Gheddafi aggredita e invasa nel 2011? Tutte queste avventure di iniziativa americana (perché la parità fra i membri del Patto Atlantico non esiste, è solo formale) hanno avuto conseguenze pesantissime per l’Europa. Basterebbe pensare alla Libia, ma anche il continuo martellamento sui Paesi musulmani del Medio Oriente ha partorito l’Isis che sull’Europa ha rovesciato i suoi terroristi essendo l’America troppo lontana per essere, almeno per il momento, raggiunta.
Nonostante tutto questo si continua a ribadire, in ogni sede, l’”indispensabilità della Nato” per l’Europa. Franco Venturini, autorevole commentatore del Corriere, in un’intervista a Sky, ha affermato che gli italiani (ma la cosa potrebbe essere attribuita anche ai tedeschi) sono contenti, anzi “felici”, perché così si sentono meglio difesi, di avere 60 basi militari, alcune nucleari, sul proprio territorio, basi che sono Nato o americane tout court. Ne dubito molto. Non c’è bisogno di essere Salvini per non essere affatto “felici” che gli americani facciano il bello e il cattivo tempo nel nostro Paese, godendo oltretutto dell’extraterritorialità per cui i crimini dei loro militari non possono essere giudicati in Italia (Cermis, stupri dei soldati americani, per limitarci a qualche esempio). Ma Italia a parte dovrebbe essere evidente a chiunque che gli interessi, militari ed economici, di Europa e Stati Uniti non coincidono più, sono anzi divergenti. Gli americani, sentendosi ancora padroni del mondo mentre non lo sono più, vogliono impedire, con vari pretesti, all’Europa di avere relazioni commerciali con l’Iran o la Cina. Ci minaccia forse la Cina? No, la Cina fa una politica economica nel suo interesse che coincide però con gli interessi di noi europei perché, nella globalizzazione, sarebbe folle ignorare un mercato di un miliardo e 400 milioni di individui. L’America continua a imporci dazi che vanno tutti a nostro svantaggio. “America first”, capiamo il punto di vista di Trump, ma dovrebbe essere lecito anche poter dire “Europa first”.
Per questo sarebbe necessario che gli europei, se ne avessero le palle, denunciassero un Trattato, quello Atlantico, che non ha più alcuna ragion d’essere (ci dobbiamo beccare anche la dittatura di Erdogan in Turchia, membro, non si sa per quali ragioni, anzi le si sa benissimo, della Nato). Ecco perché sarebbe di vitale importanza che l’Europa si dotasse di una difesa autonoma, nucleare, togliendo innanzitutto alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere quella Atomica di cui, oltre a Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna (che però è fuori dalla Ue), si sono ormai dotati tutti, India, Pakistan, Sudafrica, Israele e persino l’Arabia Saudita e in prospettiva anche l’Iran se continueremo a martellarlo con le pesantissime e del tutto ingiustificate sanzioni economiche imposte dall’America. Perché nessun Paese, in questo caso quell’agglomerato di Paesi che chiamiamo Unione Europea, potrà mai essere veramente indipendente e sicuro senza una forza militare adeguata.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019
Scrivevamo sul Fatto del 16 novembre (L’Isis è oramai un’epidemia mondiale): “Chi pensava che l’Isis fosse stato definitivamente debellato con la cancellazione del territorio dello Stato islamico a Raqqa e a Mosul grazie al coraggio dei peshmerga curdi, con l’aiuto però determinante dell’aviazione americana, si faceva delle pericolose illusioni”.
Purtroppo siamo stati facili profeti come ci dice l’attentato di Londra. E’ del tutto improbabile che in questo caso l’attentatore abbia agito in coordinazione con lo Stato islamico, ne hanno subìto però le suggestioni. Dall’attacco alle Torri Gemelle il valore simbolico dell’atto, come osservò Jean Baudrillard, supera in potenza la realtà dell’atto stesso, si tratti di tremila morti come alle Torri o di tre come venerdì a Londra. Da allora nei Paesi occidentali, i cui abitanti erano abituati a ruminare una vita tranquilla, si vive in uno stato di perenne inquietudine (“qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”). Significativo è l’obbiettivo scelto dal jihadista improvvisato: l’affollatissimo London Bridge nel giorno del Black Friday. E’ ovvio che gli attentatori scelgano i luoghi più affollati perché più facile è colpire. Ma non c’è solo questo. Gli jihadisti vogliono colpire la nostra way of life, il nostro consumismo, i nostri giorni di festa. Credo che nella mente dello jihadista solitario di cultura musulmana si agiti questo pensiero: per anni avete vissuto tranquillamente mentre ci bombardavate senza pietà facendo centinaia di migliaia di morti. Bene. Adesso la Festa è finita, al vostro terrore rispondiamo col terrore.
Ma nel caso di London Bridge c’è anche un’importante e incoraggiante novità: i cittadini inglesi invece di comportarsi come pecore e scappare, com’era avvenuto in tutte le altre occasioni simili, hanno aggredito e stoppato l’attentatore. E’ stato rincuorante vedere uno di questi passanti, uno qualunque, tenere in mano il coltello strappato all’attentatore prima di consegnarlo alla polizia. Un’azione che se forse è troppo definire eroica è troppo poco definire coraggiosa perché nessuno poteva sapere se la “cintura esplosiva” era falsa o invece autentica e in grado di far saltare in aria tutti quelli che stavano nelle vicinanze. Ma gli inglesi sono inglesi, un popolo a cui, nel bene e nel male, non è mai mancato il coraggio. E’ agli inglesi, più che agli americani o ai russi, che dobbiamo la sconfitta del nazismo. A Dunkerque, in stato di grandissima difficoltà di fronte alla possente avanzata delle armate di Hitler, in quel momento più forti e più motivate, riuscirono a ritirarsi con ordine, senza panico. Sotto l’infuriare delle V2 il re Giorgio XI rimase ostentatamente a Buckingham Palace per dare un esempio ai suoi sudditi. E Winston Churchill quando divenne Primo ministro all’inizio della guerra chiudeva il proprio discorso, riprendendo quello di Catilina ai soldati prima della battaglia decisiva di Pistoia, così: “vi prometto solo lacrime e sangue”. Questo è un popolo. Cerchiamo, almeno nella lotta senza quartiere col terrorismo internazionale, di prenderne esempio.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2019
Il dibattito sullo stop ai tempi della prescrizione alla sentenza di primo grado sarebbe surreale se non nascondesse interessi molto concreti e tutt’altro che limpidi. Chi si oppone a questa legge afferma che allungherebbe i tempi del processo. Vero, ma questo avviene su processi già lunghissimi che sono l’autentico nocciolo della questione, di cui parleremo più avanti. Per l’intanto la nuova legge se entrerà in vigore offre enormi vantaggi. Con l’attuale regime i magistrati vengono demotivati perché già durante l’iter del processo sanno che il loro lavoro cadrà nel nulla. Lo Stato (cioè noi cittadini) spende un fracasso di soldi altrettanto per nulla. Non c’è la certezza della pena. La parte offesa non otterrà mai alcuna soddisfazione. Per evitare questa legge che Di Maio ha definito giustamente “di assoluto buon senso” gli oppositori ricorrono a un escamotage: la legge deve essere subordinata a una preventiva riforma del Codice di Procedura penale. E’ come dire: non se ne fa nulla. La precedente riforma, quella curata da Giandomenico Pisapia insieme a uno stuolo di giuristi, ha voluto un lavoro durato dieci anni per partorire peraltro un obbrobrio, un ibrido fra sistema accusatorio e inquisitorio che non ha funzionato.
La riforma del Codice di Procedura penale, nel senso di uno snellimento dei processi, dovrebbe quindi correre in parallelo con la legge sulla prescrizione e non rimandarla alle calende greche. Ad opporsi alla legge sono soprattutto quei partiti, Forza Italia e Pd in particolare, che hanno nel loro dna una particolare propensione a delinquere come dimostra l’infinità di loro imputati in attesa di un giudizio definitivo. Costoro se la caveranno perché la legge non può essere retroattiva. I loro successori no. Secondo la ricostruzione di Antonella Mascali sul Fatto nel solo 2018 i processi caduti sotto la mannaia della prescrizione sono 117.367 e al primo posto ci sono i reati in materia edilizia, 13.260. E qui casca l’asino perché i “reati in materia edilizia” sono quelli propri di ‘lorsignori’: corruzione, appalti truccati, traffico di influenze, finanziamento illecito ai partiti.
Il nocciolo della questione non è quindi la legge sulla prescrizione ma l’abnorme durata del nostro processo che va a incidere, fra le altre cose, sulla durata, spesso altrettanto abnorme, della carcerazione preventiva e sulla possibilità o meno, durante la delicata fase delle indagini preliminari, di dare informazioni sull’attività degli inquirenti. Al segreto istruttorio, in questa fase, si oppone, bisogna pur dirlo, un’altra casta, quella dei giornalisti.
Alleggerire le procedure quindi. Purtroppo il sistema giudiziario italiano ha preso dal diritto bizantino, una stupenda cattedrale fatta di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di revisioni e controrevisioni, di misure e contromisure, che dovrebbe eliminare l’errore e invece finisce per favorirlo perché a distanza di tanto tempo i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili e a volte scomparse. Il sistema anglosassone prende invece dal diritto latino (di cui noi dovremmo essere gli eredi, ma non lo siamo) un diritto di matrice contadina, pragmatico, efficiente, che sconta la possibilità dell’errore a favore della velocità dei processi. Il nostro impianto giudiziario, già farraginoso per queste ragioni storiche, negli ultimi anni è stato ulteriormente appesantito da leggi ‘pseudogarantiste’ che sembrano fatte apposta per salvare i furfanti. Perché l’interesse dell’innocente è di essere giudicato il prima possibile, quello del colpevole il più tardi o possibilmente mai come è avvenuto tante volte a partire dall’entrata in campo’ di Silvio Berlusconi. Ritorniamo quindi alla nostra matrice latina. Un passo indietro che sarebbe in realtà un grande passo in avanti.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2019