Il 5 novembre è scattato il diktat americano rivolto all’intera comunità mondiale: nessun commercio con l’Iran, nei settori energetici e finanziari. Donald Trump ha graziosamente esentato alcuni Paesi, fra cui l’Italia (gli altri sono Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Turchia, Taiwan) dall’applicare queste sanzioni, ma a termine: entro sei mesi dovranno adeguarsi.
Chi si credono di essere gli Stati Uniti d’America? I padroni del mondo tanto da poter imporre le loro decisioni unilaterali all’intero pianeta? Effettivamente lo sono, i padroni. Ma il loro predominio globale comincia a vacillare, anche per l’ingresso sulla scena di altre grandi potenze, economiche e militari, come la Cina e l’India. La stessa decisione di Trump, la minaccia implicita di ritorsioni contro i Paesi che non ottempereranno al suo diktat, non è un segno di forza ma di debolezza. Non si ha bisogno di ringhiare quando si ha la situazione sotto controllo. Gli Stati Uniti capiscono o intuiscono che “il secolo americano” sta per concludersi e che siamo vicini alla fine del loro Impero. Gli antichi Imperi mesopotamici durarono tre millenni, più recentemente l’Impero austroungarico, quello ottomano e quello russo qualche secolo. Ma oggi le cose, non solo in politica ma in qualsiasi ambito, come sperimentiamo sulla nostra stessa pelle, vanno molto più velocemente. Un’egemonia durata un secolo è già al limite.
Una reazione europea c’è stata, ma debole e fatta solo dei soliti comunicati. Ma l’Europa ha tutte le possibilità di non solo resistere a questo diktat ma di ricacciarlo in gola agli yankee. Basterebbe imporre agli americani lo stesso diktat, non in campo energetico, dove siamo deboli, ma in tutti gli altri settori. Cioè gli americani non potrebbero vendere i loro prodotti e fare affari in Italia. Poiché gli abitanti della UE sono circa mezzo miliardo, e una parte consistente è costituita da forti consumatori, mentre gli americani sono 320 milioni, vediamo chi uscirebbe vincitore da questo braccio di ferro.
Naturalmente dubito che l’Unione Europea abbia non la forza, quella ce l’ha, ,almeno economica, ma il coraggio di prendere una decisione del genere che dovrebbe essere seguita tra l’altro dall’uscita dalla Nato e dalla cacciata dall’Europa delle basi militari americane, molte con missili atomici (in Germania ce ne sono 80, in Italia 60). Ma qualche piccola cosa possiamo già farla, anche noi italiani. Denunciare, come chiede una parte dei Cinque Stelle, il contratto che permette agli americani, dal 2016, di avere in Sicilia, a Niscemi, il cosiddetto Muos, una sorta di super radar che ha la funzione di tenere in collegamento le truppe americane sparse per il mondo e che occupa una superficie di un milione di metri quadri sottratti alla riserva naturale della Sughereta. Al Muos Donald Trump tiene molto. Si dice che il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, esiterebbe perché ha di recente incontrato, in modo molto amichevole, Trump alla Casa Bianca. Ma la politica estera non la si fa con le pacche sulle spalle, ma avendo come obbiettivo primario gli interessi del proprio Paese. Insomma come scrisse Sergio Romano, che di queste cose se ne intende essendo stato ambasciatore, in un bellissimo articolo sul Corriere: “La politica estera si fa alla moda di Andreotti, non in quella di Berlusconi”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2018
Il presidente Mattarella parlando al Quirinale ad alcuni studenti ha sottolineato “il grande valore della libertà di stampa”. Giusto. E quindi male ha fatto Virginia Raggi a chiedere le scuse dei giornalisti che hanno seguito il suo caso. I giornalisti fanno il loro mestiere, sul quale si possono avere le più diverse opinioni, e il giudizio se abbiano operato bene o male spetta solo al lettore, come diceva Indro Montanelli, almeno che nel loro scrivere si siano resi responsabili di diffamazione. Ma la libertà di stampa è solo un aspetto della più generale libertà di espressione come recita espressamente l’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La libertà di espressione del proprio pensiero non è quindi uno specifico privilegio dei giornalisti, ma appartiene a tutti i cittadini, compresi Beppe Grillo e Alessandro Di Battista a cui, con tutta evidenza, si riferiva il monito di Mattarella.
A me pare che noi italiani si viva in una grande confusione per cui nessuno più conosce quali sono i diritti e i doveri del suo ruolo pubblico e anche privato e i diritti e i doveri altrui, pubblici e anche privati. Tutto ciò deriva da un drastico abbassamento del livello culturale del nostro Paese, non solo nel settore del diritto ma in ogni ambito, la cui lunga genesi imporrebbe un saggio con cui non vogliamo ammorbare il lettore. Ma è a tutti evidente, almeno a quelli che hanno l’età per farlo, e per restare solo in politica, che lo spessore culturale di Einaudi, di Andreotti, di Fanfani, di Togliatti, di Almirante, cioè dei protagonisti politici del dopoguerra, non a nulla a che vedere con quello dei Mattarella, dei Salvini, dei Di Maio, dei Renzi e compagnia cantante. Così come, in campo giornalistico, Montanelli e Bocca non hanno nulla a che vedere con i Feltri, i Sallusti, i Calabresi e naturalmente i Fini.
Le rimonte culturali sono le più difficili e le più lunghe. Solo uno choc, come per i nostri predecessori fu la Seconda guerra mondiale, potrebbe accorciare i tempi. Nel nostro caso, poiché di guerre, almeno nel senso tradizionale, non se ne fanno più, lo choc potrebbe venire da un collasso repentino di un modello di sviluppo, economico, tecnologico, ambientale, sociale, che ci sta togliendo l’aria e ci costringe, in qualsiasi campo noi si operi, a boccheggiare. Aspettiamo quindi, perché un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è certo che, prima o poi, andrà in frantumi. Ma questo riguarderà i nipoti dei nipoti dei nostri nipoti. Noi, come in un girone dantesco, restiamo nella merda che ci siamo ampiamente meritati.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2018
Sono ben curiosi questi ‘garantisti’ in servizio permanente effettivo. Virginia Raggi, sindaco di Roma, è stata assolta in primo grado perché il fatto che gli veniva imputato dai Pubblici ministeri “non costituisce reato” come ha sentenziato il giudice monocratico Roberto Ranazzi che era stato investito della questione. Il tutto dovrebbe finire qui, salvo che ci potrà essere un’impugnazione da parte dei Pubblici ministeri e quindi un Appello. Ma allo stato la Raggi è innocente. Cosa scrive invece Alessandro Sallusti direttore de Il Giornale? “Il problema della Raggi –come del resto quelle (sic) della sua collega Appendino sindaca di Torino- non sono eventuali reati ma l’assoluta e conclamata incapacità a governare che nessuna assoluzione potrà mai mitigare”. Cioè Sallusti s’inventa una sorta di ‘Tribunale del popolo’ che è proprio l’espressione di quel giacobinismo di cui Sallusti, e tutti i Sallusti del nostro paese, ha sempre accusato Il Fatto. Che l’incapacità della Raggi a governare sia “conclamata” se lo inventa Sallusti. Raggi è stata eletta sindaco con consultazioni democratiche e finché non verrà sfiduciata dal Consiglio comunale vorrà dire che avrà la fiducia dei romani o perlomeno della maggioranza di essi.
Lo stesso discorso vale per il sindaco di Torino Chiara Appendino. Venticinquemila persone sono scese in piazza contro la decisione di Appendino, in rappresentanza del proprio Comune, di dire no alla Tav. Che cosa rappresentano 25 mila persone di fronte alle 202.754 preferenze che Appendino a preso nelle ultime consultazioni comunali? Se valgono ancora le regole democratiche la maggioranza ha il diritto, e oserei dire il dovere, di prevalere su una minoranza che pur manifesta legittimamente il suo dissenso, come altrettanto legittimamente i molto più numerosi abitanti della Val di Susa manifestano il loro dissenso alla Tav. Ma anche qui Sallusti si crea a suo uso e consumo un giacobino ‘Tribunale del popolo’ che dovrebbe prevalere sulla maggioranza dei cittadini di Torino. Diceva un mio amico, Adolfo Levi, grande pokerista: “Io gioco contro tutti tranne che contro la sfiga”. Io ho trasformato questo broccardo in “io mi batto contro tutti tranne che contro coloro che sono in malafede” e che giocano l’eterno e sfibrante gioco delle ‘tre tavolette’ un tempo in voga in via Pré a Genova.
P.S. per Vittorio Feltri.
Calmati Vittorio. Non dare in scalmane come una donna all’inizio della menopausa e non darmi cotanta importanza. Io ho solo scritto che mi pareva sorprendente che Mattia Feltri, senza portare motivazione alcuna, desse dell’”orango” e del “bifolco” ad Alfonso Bonafede che, almeno in linea teorica, di diritto ne dovrebbe sapere più di lui. Ma ovviamente ognuno può dire ciò che vuole e ingiuriare chi vuole come fai tu nei miei confronti per tutto un lungo articolo su Libero dell’11 novembre. A me invece spiace che tu, da grande direttore quale sei stato, ti sia ridotto a essere la macchietta di te stesso, non so se senza rendertene conto o invece per rimanere comunque presente su un proscenio che ormai ti sfugge. Ma così va la vita e bisognerebbe accettarla: un giorno corre il cane, un giorno corre la lepre. Bye, bye.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2018