Non vorrei aver l’aria di sminuire la straordinaria vittoria del Movimento Cinque Stelle (in fondo sono stato uno dei pochissimi intellettuali, insieme a Travaglio, a partecipare al primo, e irriso, ‘Vaffa’ di Grillo) dovuto all’impegno dei suoi militanti, al suo programma, alla grande abilità di Di Maio (altro che “uno che ha solo un bel visino” come lo definì il geronte Berlusconi) ma almeno una parte del trionfo dei ‘grillini’ è dovuta alle stesse ragioni che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Quando il ceto medio americano si è accorto che quella madonnina infilzata di Hillary Clinton aveva dalla sua parte tutta la finanza internazionale, tutti i più importanti giornali internazionali, tutto lo star system di Hollywood si deve esser chiesto “ma costoro mi rappresentano?” e ha votato ‘the Donald’. Così quando una parte degli italiani vessati e di fatto impoveriti da una partitocrazia sempre più arrogante e corrotta ha visto che tutti i partiti e tutti i giornali che a loro fanno riferimento (cioè la totalità, fatte un paio di eccezioni) si accanivano contro i Cinque Stelle con gli argomenti più pretestuosi, falsi e ridicoli deve aver capito che l’unico movimento veramente antipartitocratico, o se si preferisce antisistema, era proprio quello fondato da Beppe Grillo. Della malafede e della straordinaria spudoratezza delle accuse mosse ai Cinque Stelle può essere presa come esempio Virginia Raggi che non aveva avuto ancora il tempo di mettere piede in Campidoglio che subito si è scoperta la monnezza di Roma, i topi di Roma, i maiali di Roma e in seguito è stata accusata della siccità di Roma e poi della pioggia e della neve cadute su Roma e quindi ancora del dissesto delle Ferrovie dello Stato che sono appunto di Stato e non del Comune capitolino. Ma è, appunto, solo un esempio degli infiniti, e ancora più gravi, che si potrebbero fare.
Dopo una vertiginosa ascesa durata cinque anni i veri problemi per i Cinque Stelle arrivano ora. Ho sempre scritto che i difetti dei Cinque Stelle dipendono dai loro pregi. Legalità, trasparenza, incorruttibilità, la volontà ferrea di non accettare alcun compromesso sono stati i loro vincenti cavalli di battaglia, ma adesso o accettano una qualche mediazione o resteranno una fortissima forza di opposizione che però in quanto tale non conterà nulla perché nulla hanno mai contato le opposizioni in Italia, se si eccettua il caso del Pci che però per avere voce in capitolo dovette consociarsi col potere democristiano e socialista, cioè non fare più l’opposizione.
In linea teorica i Cinque Stelle possono allearsi con tutti, perché nel loro Movimento ci sono fattori sia di sinistra che di destra oltre alcuni del tutto nuovi che sono i più interessanti perché i Cinque Stelle hanno finalmente capito (come l’aveva capito a suo tempo Umberto Bossi) che Destra e Sinistra sono due categorie ormai superate dalla storia perché non sono in grado di comprendere le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo, che sono esistenziali e non più solamente economiche.
Con tutti si possono alleare i Cinque Stelle tranne che con Forza Italia e il suo leader che hanno fatto della illegalità, intesa sia in senso penale che politico e morale, la loro bandiera. Lo ha ribadito l’altra notte, forse senza nemmeno rendersi conto della gravità di quanto stava dicendo, Renato Brunetta quando ha affermato che se la coalizione di centro-destra fosse arrivata ad avere 260 seggi alla Camera non le sarebbe stato difficile comprare o corrompere la sessantina di deputati mancanti (i metodi li conosciamo, De Gregorio docet).
Silvio Berlusconi è stato dato per politicamente morto mille volte, ma il 5 marzo è “scaduto” davvero come teneva spiritosamente scritto sul petto la ragazza col seno nudo mentre andava al seggio.
E noi che abbiamo contestato il Grande Imbroglione da quando nel 1986 fece la sua prima vistosa apparizione pubblica presentando all’Arena un Milan totalmente americanizzato, possiamo finalmente chiudere gli occhi serenamente.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2018
L’Emirato islamico d’Afghanistan (vale a dire i Talebani), che si considera tuttora il governo legittimo di quel Paese essendone stato spossessato da un’invasione straniera, attraverso una lettera aperta indirizzata direttamente al “popolo americano” ha proposto agli Stati Uniti di avviare un negoziato per arrivare finalmente alla pacificazione in una terra che non conosce tregua da quasi quarant’anni, se si escludono i sei e mezzo in cui fu governata dal Mullah Omar.
E’ difficile immaginare che gli americani accettino di trattare (del resto un niet è già arrivato dalla Nato) stretti come sono fra un malposto orgoglio nazionale e il proprio totalitarismo ideologico. La guerra afgana è infatti ormai puramente ideologica non essendoci evidenti interessi economici –al contrario- e nemmeno strategici, a differenza di quello che avviene nell’Estremo Oriente dove l’obbiettivo Usa è di tenere Seul in perenne conflitto con Pyongyang, in funzione essenzialmente anticinese, mentre le due Coree potrebbero tranquillamente convivere in modo sereno come hanno dimostrato le recenti Olimpiadi invernali.
Eppure dalla fine della guerra all’Afghanistan gli americani hanno solo da guadagnare. 1. Soldi innanzitutto. Gli Stati Uniti infatti vi spendono 45 miliardi di dollari l’anno. Donald Trump, che è molto attento ai quattrini del ceto medio americano (‘America first’ vuol dire innanzitutto questo) dovrebbe rifletterci. Che senso ha continuare a spendere soldi in una guerra che gli stessi strateghi e think tank americani ammettono che “non può essere vinta”? E invece ‘the Donald’, che per il resto ha sconfessato pressoché in tutto la politica del suo predecessore, in questo caso ha seguito la linea Obama inviando in Afghanistan altri 4.900 uomini. 2. L’Isis, nonostante le sanguinose sconfitte di Mosul e Raqqa e l’eliminazione di un proprio territorio, è ritenuto ancora, e con ragione, una grave minaccia, tanto che non c’è riunione fra presidenti o ministri degli Esteri o degli Interni degli Stati che non appartengono alla galassia sunnita in cui il terrorismo jihadista non sia uno dei temi in discussione e non c’è incendio o esplosione di un caseggiato, con tutta evidenza casuali, di cui non ci si affretti ad affermare che il terrorismo internazionale non c’entra, così forte è la paura che la sua sola esistenza ci ha messo addosso. Bene, i Talebani, pur sunniti, in Afghanistan combattono l’Isis e riescono per ora a fare argine. Ma la cosa non può durare a lungo, perché i Talebani, stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri che si richiamano al Califfato di Al Baghdadi, perdono terreno rispetto agli jihadisti, come dimostrano alcuni recenti attentati a Kabul targati Isis. E così, a loro volta, per riaffermare la loro supremazia sono costretti a incrementare gli attacchi agli obbiettivi militari occidentali (quattro solo nell’ultima settimana con un bilancio di 23 morti fra i soldati del governo fantoccio di Ashraf Ghani sostenuto dagli Stati Uniti). Ma potrebbe anche accadere –e ce ne sono già le avvisaglie- che i Talebani finiscano per allearsi con Isis, invece di combatterlo, considerandolo il male minore rispetto agli occupanti occidentali. L’Isis ne uscirebbe quindi enormemente rafforzato. Questo Putin l’ha capito benissimo riconoscendo ai Talebani lo status di “movimento politico e militare” e quindi non terrorista. Non si capisce perché gli americani non possano fare lo stesso accettando di trattare con gli emissari dell’Emirato islamico d’Afghanistan e ponendo così fine a una guerra che ha causato centinaia di migliaia di vittime civili, di persone contaminate dai proiettili all’uranio impoverito, di bambini nati per lo stesso motivo deformi, e che non giova a nessuno se non, appunto, al terrorismo internazionale che, battuto per ora in Medio Oriente, ritrova vigore in Asia Centrale e da lì, oltre alla Russia, può ritornare a colpire in Europa e negli stessi Stati Uniti.
In quanto a noi, che in quel Paese manteniamo 900 soldati, i Cinque Stelle hanno promesso in campagna elettorale che se andranno al governo ritireranno dall’Afghanistan il nostro inutile contingente che ci costa 475 milioni l’anno. Con 475 milioni non si risanano certo le malandate finanze del nostro Stato, ma almeno il ritiro dall’Afghanistan, il rifiuto di fare gli eterni servi schiocchi degli americani, oltre che un dovere morale, sarebbe anche una prova, sia pur su un aspetto apparentemente minore, della credibilità dei ‘grillini’ e dei loro programmi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2018
La tesi di Massimo Fini sul Fatto ("Perché l'astensione preoccupa i padroni") è che l'uguaglianza non ha bisogno di tutela, né di governanti ("gente che paghiamo perché ci comandi"). A riprova, il giornalista cita l'organizzazione sociale dei Nuer, popolazione del Sudan che non ha gerarchie, deducendo da questa particolarità un'uguaglianza perfetta. Fini si legge per apprezzarne le provocazioni. Ma su questo tema - potere, gerarchie e uguaglianza - è bene che rimangano tali, visto che non hanno alcuna attinenza con la nostra complessità.
In democrazia, chi non vota danneggia l'uguaglianza. Che non è una condizione di natura a cui si ritorna disertando le urne, ma una faticosa conquista sociale contro la legge del più forte. Tant'è che per arrivare al dominante che si astiene dal sopraffare l'inerme ci vogliono secoli di cultura, diritto, politica, fino a rendere autonoma la dignità dalla forza, con la conquista dell'uguaglianza.
La democrazia egalitaria, quindi, è un equilibrio molto precario, perché contrastato continuamente dalle forze della diseguaglianza (violenza fisica, educativa, economica). E pertanto ha bisogno di manutenzione continua, perché la legge del più forte è recidivante. Rinunciare alla vigilanza democratica - cioè non votare, né protestare per le ingiustizie - è una cessione di sovranità, che non porta al paradiso dei Nuer, ma alla dittatura.
Quindi caro Fini, come se avessi accettato: ma preferisco difendere la democrazia in Italia.
E andare a votare.
Massimo Marnetto
Le ‘società acefale’ erano basate su un altro elemento che a noi suona blasfemo: la violenza. Invece è proprio la possibilità della reazione individuale a limitare, in quelle comunità, la violenza e il sopruso. “Ogni Nuer ha un senso profondo della propria dignità e non tollera che sia in alcun modo intaccata”. E’ anche il venir meno del senso della propria dignità che ci impedisce di tornare a comunità tipo Nuer. Inoltre in democrazia il più forte ha strumenti così sofisticati e subdoli (economici, finanziari, mediatici, lobbies) che è pressoché impossibile combatterlo e non sarà certo l’infilare una scheda in un urna a cambiare le cose. Ci vorrebbe una rivoluzione. Ma la Storia ci insegna anche che nemmeno le rivoluzioni (francese, russa, fascista) cambiano le cose, perché a una classe dominante se ne sostituisce quasi immediatamente un’altra. E’ uno dei tanti impasse in cui si trova quell’essere tragico che è l’uomo.
Massimo Fini
Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2018