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Non avendo scritto la letterina a Babbo Natale, e non avendone quindi ricevuto doni, mi rifaccio con Giano il Dio futurologo degli inizi e anche quindi, dopo la riforma giuliana del calendario, del primo dell’anno che cade nel mese a lui dedicato (ianuarius). Ecco i miei desiderata per il 2018.

1. Che gli occidentali lascino l’Afghanistan che occupano illegittimamente da più di 16 anni senza trarne alcun reale vantaggio o, meglio ancora, che siano i Talebani a cacciarli, con ignominia, sempre che riescano a reggere la difficilissima posizione che li vede costretti a combattere sia gli occupanti sia i guerriglieri dell’Isis che, approfittando della miopia dell’Occidente, sono penetrati profondamente in quel Paese che col governo del Mullah Omar (che Allah lo abbia sempre in Gloria) non aveva conosciuto discriminazioni fra sunniti e sciiti.

2. Che i signori George W. Bush e Barack Obama siano trascinati davanti a un Tribunale internazionale per ‘crimini di guerra’, basato nella capitale di un Paese neutrale, cioè né occidentale né musulmano. Nel caso di condanna le pene non devono essere ‘esemplari’ (concetto che non esiste in diritto) ma semplicemente giuste, cioè proporzionate ai misfatti. Diciamo i lavori forzati, possibilmente nel settore agricolo che ne ha particolarmente bisogno. Esclusi gli ‘arresti domiciliari’ in lussuose ville frutto, in modo diretto o indiretto, di azioni di rapina.

3. Che i signori Nicolas Sarkozy, Barack Obama, Silvio Berlusconi siano portati davanti allo stesso Tribunale per aver aggredito, senza alcuna valida ragione, la Libia, Stato sovrano, rappresentato all’Onu, e assassinato il suo legittimo Presidente, il colonnello Muammar Gheddafi. Un’attenzione particolare merita la figura dell’imputato Berlusconi. Costui dopo aver ospitato nella capitale del suo Paese, con tutti gli onori, Gheddafi, quando il ‘fraterno amico’, come affettuosamente lo definiva, morì in seguito a un vergognoso linciaggio, dichiarò riesumando il suo incerto latino (tempo addietro aveva chiamato i fondatori di Roma Romolo e Remolo) “sic transit gloria mundi”. Dimostrazione di un cinismo ributtante, che peraltro il soggetto aveva mostrato anche in altre occasioni, e che merita quindi un’aggravante per ‘abiezione morale’ le cui modalità spetterà al Tribunale stabilire. Inoltre con l’aggressione alla Libia il Berlusconi ha leso gravemente gli interessi del proprio Paese per cui può essere ulteriormente imputato, secondo il diritto penale romano che sta alla base di molte giurisdizioni moderne, di ‘lesa maestà’, cioè di tradimento della Patria.

4. Che gli ‘scafisti’ che solcano il mar Mediterraneo siano riconosciuti non come dei criminali ma dei benefattori umanitari perché sottraggono il dolente carico dei loro barconi ai ‘campi di accoglienza’ dell’attuale Libia democratica.

5. Che il generale Al Sisi sia trascinato davanti a un Tribunale speciale per ‘crimini contro l’umanità’, affidato ai suoi stessi servizi segreti che se ne intendono e poi fucilato senza tante cerimonie.

6. Che la sovranità del Kurdistan sia riconosciuta ai suoi legittimi abitanti, i curdi, che hanno speso generosamente il loro sangue per combattere l’Isis in Siria, in Iraq e persino in Libia, per vedersi poi beffati, come sempre, in nome degli interessi delle Potenze regionali e della onnipresente Superpotenza americana.

7. Che il dio dia lunga vita a Donald Trump perché così, sia pur in modo trasversale e ipocrita, è diventato possibile, finalmente, prendere qualche distanza dall’’amico americano’.

8. Per l’Italia, o divino Giano, non chiedo niente perché il suo disfacimento, etico, politico, culturale, è irredimibile. In Italia ci sarebbero così tante cose da fare che non c’è più nulla da fare.

O divino Giano in tuo onore, e alla faccia degli animalisti, sacrificherò cento tori e mille vacche se esaudirai i miei wishful thinking (perdona l’inglese, o divino, ma è diventata la lingua ufficiale dell’Impero).

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2017

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Nella tradizionale benedizione di Natale ‘Urbi et orbi’ Papa Francesco, oltre ad aver sciorinato la scontata quanto inutile lista dei bambini uccisi o martoriati dalla guerra e dalla fame, una cosa di sostanza però l’ha detta: “un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale”. Naturalmente i media, non certo a caso, hanno preferito concentrarsi sulla parte pietistica del discorso di Francesco evitandone il nocciolo duro, cioè l’attacco all’attuale modello di sviluppo.

Io non sono il Papa però queste cose le vado scrivendo da più di trent’anni, da quando pubblicai, ignorato o deriso, La Ragione aveva Torto?(1985). Per la verità anche Benedetto XVI, quando era ancora cardinale, aveva scritto: “il Progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”. Ma anche questo monito, autorevolissimo, venne ignorato.

Adesso pure Papa Francesco scopre che “c’è del marcio nel Regno di Danimarca”. Però non è che questo modello sia “superato” come dice Papa Francesco facendo intendere che bisogna oltrepassarlo e quindi andare pur sempre in avanti. Invece di un ottimistico “superamento” si tratta, al contrario, di un ‘tornare indietro’ perché questo modello era sbagliato in origine da quando, con la Rivoluzione industriale, l’uomo abbandonò la quiete e l’equilibrio di una società sostanzialmente statica, in cui fino ad allora era vissuto, per imboccare la via di una società dinamica, la più dinamica che sia mai apparsa sulla scena del mondo, con l’occhio perennemente fissato sul futuro, e diventare ‘homo oeconomicus et technologicus’ e, nei tempi più recenti, come logica conseguenza, anche digitale e virtuale.

Non si tratta quindi di modificare il modello in questo o quel punto, con qualche ritocco migliorativo, ma di scardinarlo, di reciderlo alle radici. Perché in questo modello ‘tout se tient’ e ogni elemento è legato indissolubilmente a tutti gli altri. Prendiamo, per esempio, produzione e consumo che sono due dei fattori principali su cui si basa l’attuale modello. Noi non possiamo ridurre il consumo senza ridurre anche la produzione. Ma questo, in un sistema basato sulla crescita, è impossibile. Perché meno produzione significherebbe un’ulteriore contrazione dei consumi e quindi, ancora, meno produzione in una vertiginosa spirale che lascerebbe tutti col culo per terra. Prendiamo, per fare un altro esempio, le tecnologie digitali e la robotica che stanno espellendo milioni di persone dal mondo del lavoro. Certo, noi possiamo pensare che con l’”innovazione” (parola diventata oggi magica e taumaturgica) le tecnologie riescano a creare altre, e più moderne, occupazioni che assorbano, in tutto o in parte, la mano d’opera cacciata dalla porta facendola rientrare dalla finestra. Ma anche l’innovazione tecnologica troverà prima o poi, come ogni altra cosa, un limite, un tetto da cui precipiterà vorticosamente sul pavimento.

Ci siamo cacciati in un vicolo cieco. Possiamo venirne fuori? Sì, rinculando lentamente e gradualmente. E’ la linea di pensiero, oltre che mia (eh sì, ora che ‘sun dré a murì’, mi sono anche stufato dell’understatement e del fatto che altri prendano a piene mani da ciò che vado scrivendo da più di un quarto di secolo come se fosse farina del loro sacco, senza nemmeno avere la bontà, direi la decenza, di citare la fonte) di due correnti filosofiche americane, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, che, detto in estrema sintesi, propugnano “un ritorno graduale, limitato e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo, che passano necessariamente per un recupero della terra, dell’agricoltura, e per una riduzione drastica dell’apparato industriale, tecnologico, digitale e finanziario”. Non si tratta di farsi infinocchiare come finora è sempre avvenuto: dalle biotecnologie o, quando qualcuno in Occidente, in una società totalmente materialistica ha avvertito l’esigenza di un recupero della spiritualità, di trasformare tale esigenza in ‘new age’ e cioè, ancora, in produzione e consumo della spiritualità, oppure di altre stronzate del genere di cui potremmo fare un lunghissimo elenco che risparmiamo al lettore.

Si tratta di mettere in moto una rivoluzione copernicana. Alla rovescia. Ma questi smottamenti culturali, a meno di qualche imprevisto, sono storicamente lenti e questo modello di sviluppo, che ho definito ‘paranoico’, ci ricadrà addosso di colpo prima che qualcuno abbia potuto metterci mano. E a noi, dall’oltretomba, rimarrà la magra soddisfazione di dire via medium: ve l’avevo detto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2017

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Ora c’è un profluvio di ‘mea culpa’ di molti dei protagonisti della cosiddetta ‘rivoluzione digitale’ per i danni sociali e psicologici che ha provocato sulla comunità umana, dall’ex presidente di Facebook, Sean Parker (“Facebook e gli altri hanno costruito il loro successo sullo sfruttamento della vulnerabilità della psicologia umana”) a Roger McNamee (“Ho investito e guadagnato molto con Google e Facebook nei primi anni, ma oggi mi rendo conto che, come nel caso del gioco d’azzardo, della nicotina, dell’alcol e dell’eroina, Facebook e Google producono felicità di breve periodo con pesanti conseguenze negative nel lungo periodo”) a moltissimi altri che hanno abbandonato il loro ruolo in questa rivoluzione o che ancora ci restano ma con fortissime perplessità.

Credo alla sincerità di questi ‘mea culpa’ perché le conseguenze devastanti della ‘rivoluzione digitale’ potevano essere previste solo da chi avesse avuto un occhio che guardava molto lontano. Quando l’uomo introduce nella sua vita innovazioni che lì per lì sembrano formidabili non è in grado di prevedere le variabili che mette in circolo. Una cosa però è certa: una volta avviati questi processi diventano inarrestabili e irreversibili. Se si inventa la pallottola non ci si può meravigliare se poi si arriva al missile e oltre. Adam Smith considerava l’invenzione della banconota a livello di quella della macchina a vapore. Ma portando il denaro alla sua vera essenza di astrazione concettuale si arriva, anche attraverso l’ulteriore smaterializzazione del digitale, a quella finanziarizzazione della società globale che oggi ci sta travolgendo.

Ma se ho sempre nutrito molti dubbi sulla Scienza tecnologicamente applicata, adesso inizio ad averne anche sulla conoscenza in sé. La conoscenza è consustanziale all’uomo, ciò che lo distingue dagli altri animali del Creato. E’ la sua gloria ma insieme anche la sua tragedia. E’ un dono bifido. Non per nulla nella leggenda biblica, quando Adamo ed Eva vivevano felicemente nel Paradiso Terrestre, Dio proibì loro, per tutelarli, di mangiare la mela della conoscenza. Ma mentre quel tontolone di Adamo si sarebbe accontentato di tutti gli altri frutti del Paradiso, Eva, la curiosa, infranse la proibizione (Ma è mai possibile, porca miseria, che con tutti i frutti che c’erano Eva andasse a mettere i suoi dentini proprio sulla mela dell’Albero della Conoscenza? Ma questo è un altro discorso). Nietzsche la dice in un altro modo: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo”.

Sono convinto che l’ignoranza sia preferibile alla conoscenza, perlomeno a quella ad alti livelli. Galileo dimostrò sulle orme di Copernico e peraltro già dei filosofi e matematici greci, Pitagora e Filolao su tutti, che era la Terra a girare intorno al Sole. Magellano, confortato da queste teorie, circumnavigò il mondo e provò in concreto la sfericità del pianeta, arrivando dalla Spagna alla mitica Isola delle Spezie. Per lui fu una meravigliosa avventura anche se conclusa nel più beffardo dei modi. Ma che cosa cambiava per il comune mortale sapere che era la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa? Nulla. O meglio: cambiava in peggio e in due sensi. Da una parte l’uomo perdeva la convinzione di essere il centro dell’Universo e la stessa illusione di Dio, dall’altra, essendo il solo essere cosciente, veniva preso da un hybris prometeica. Per questo il cardinale Bellarmino, che sapeva benissimo, come del resto tutte le élites intellettuali dell’epoca, che Galileo diceva il vero, gli chiedeva di proseguire pure nei suoi studi ma di non divulgare le sue ricerche al di fuori di quelle élites. Per due motivi: perché questo capovolgimento copernicano avrebbe stressato le centinaia di milioni di uomini che avevano fin lì vissuto sulla concezione tolemaica-aristotelica dell’universo e perché, pensa Bellarmino, una conoscenza matematica basata sulle strutture oggettive del mondo eguaglia quella divina e un uomo che si sente uguale a Dio finisce fatalmente per sostituirlo e per perdere ogni senso del limite.

E’ quanto stiamo sperimentando ora sulla nostra pelle e la ‘rivoluzione digitale’ non ne è che un aspetto. Bellarmino, che guardava molto lontano, perse la partita. Ma quel lontano ora è qui, ci avvolge da tutte le parti e ci perderà. Questo era ed è il Destino dell’uomo e di tutte le cose. Perché, come scrive Eliot, “in ogni inizio è contenuta la sua fine”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2017