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Basterebbe ascoltare El Gato Montes, la musica che accompagna l’ingresso scalpitante del toro nell’arena, per capire che gli spagnoli, catalani e non, hanno un temperamento focoso. La partita fra Spagna e Catalogna, fra Madrid e Barcellona, fra Real e Barca, fra Sergio Ramos e Gerard Piqué, non si concluderà con un pareggio.

L’indipendentismo catalano è stato bollato come un romanticismo puerile, fuor da ogni logica, ma nella vita degli uomini e dei popoli, a volte, emergono e straripano delle passioni e dei sentimenti profondi che vanno oltre la fredda razionalità. Testimone ne è Piqué, il centrale del Barca, ricco e famoso, che da questa situazione ha solo da perdere eppure è uno dei più fieri sostenitori dell’indipendentismo catalano.

Mariano Rajoy può ben minacciare di destituzione il comandante dei Mossos, la sindaca di Barcellona e tutti gli altri sindaci che domenica hanno aperto le porte ai seggi elettorali, e lo stesso Presidente della Catalogna, Puigdemont, ma se costoro, con l’appoggio della popolazione o di gran parte di essa, non ne riconoscono più l’autorità le sue scomuniche cadono nel vuoto.

Se le polizie delle due parti contrapposte, la Guardia Civil e i Mossos che dispongono di 17 mila uomini ben armati ed equipaggiati in funzione antijihadista, arrivassero a scontrarsi apertamente –ed è già mancato un pelo che ciò accadesse, tanto che Puigdemont ha chiesto che la polizia di Madrid lasci la Catalogna- si aprirebbe in terra di Spagna una sanguinosa guerra civile, non diversa, se non nelle dimensioni, da quella che nel 1936-1939 vide battersi gli uni contro gli altri i franchisti e i repubblicani. E come allora, anche se con diversi interpreti, potrebbero accorrere in terra di Spagna, questa volta in difesa della Catalogna e non della Repubblica, altri indipendentisti, non solo spagnoli, baschi, galiziani, ma anche scozzesi, gallesi, corsi, fiamminghi, slesiani, frisi e di regioni europee che si sentono oppresse dai rispettivi Stati centrali. Una sorta di ‘Union sacrée’ fra gli indipendentisti continentali in difesa di ideali e sentimenti comuni.

L’Unione europea non ha nulla da temere dalla secessione della Catalogna perché gli indipendentisti catalani hanno dichiarato di voler restare, senza se e senza ma, nella UE. E quindi giustamente nei primi giorni Bruxelles è stata silente considerando l’indipendentismo catalano una questione interna allo Stato spagnolo. Ma poiché questo silenzio è stato aspramente rimproverato da più parti adesso l’Unione europea ha preso apertamente posizione a favore del governo di Madrid. Se questa intromissione dovesse permanere, non limitandosi a dichiarazioni ma magari aggiungendovi sanzioni o invio di navi, si riproporrebbe, questa volta su larga scala, lo scontro fra centralismo autoritario e regionalismi. Allora sì si arriverebbe allo sgretolamento dell’Europa.

In ogni caso non si illudano gli autonomisti nostrani, divisi fra ‘sovranisti’ e indipendentisti, di entrare in questa partita, qualsiasi piega prenda. Ci fu un momento della prima Lega, allora fortemente secessionista, in cui Umberto Bossi minacciò di estrarre dalle fondine le pistole. Dalle fondine i leghisti, e più in generale gli italiani, possono tirar fuori solo i loro smartphone. E basterebbero le melensaggini e la lagnosità delle nostre canzoni, con maschi eternamente imploranti, così lontane dall’ardore di El Gato Montes, per farci capire che non abbiamo le palle.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2017

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Detesto gli animalisti, non gli animali che sarebbero anche delle brave bestie se non fosse per i loro padroni. Secondo quanto ha scritto sul Fatto (30.9) Silvia D’Onghia il Museo Guggenheim di New York è stato costretto a ritirare tre opere di artisti concettuali cinesi ritenute dagli animalisti una mancanza di rispetto e un’espressione di crudeltà nei confronti degli animali. La prima a scendere in campo è stata la presidente di People for the Ethical Treatment of Animals, Ingrid Newkirk. Sono seguite imponenti manifestazioni di animalisti davanti al Guggenheim, una raccolta di firme di protesta cui hanno aderito più di 700 mila persone e i soliti social con minacce più o meno larvate. Alla fine il Guggenheim è stato costretto a cedere per evitare guai peggiori (“siamo preoccupati per la sicurezza del personale, dei visitatori e degli stessi artisti”).

Se si seguisse questa linea delle ‘anime belle’ animaliste, e sempre che si ammetta che gli uomini hanno pari dignità e diritti degli animali, il Cristo della pala di Isenheim di Matthias Grunewald, esposto nello splendido chiostro di Unterlinden a Colmar, detto anche ‘il Cristo verde’ o ‘Cristo putrefatto’, dovrebbe essere scalpellato via a colpi di martello, magari insieme allo stesso chiostro che osa ospitarlo. Il Cristo di Grunewald si staglia su un cielo scurissimo, compatto come un muro di mattoni neri. La testa è caduta sul petto, la bocca spalancata in un grido gelato dalla morte, le labbra sono già molli, la pelle verde e marrone ha il colore e la rigidità delle lucertole stecchite, un rivo di sangue si è raggrumato sul costato. E’ l’immagine stessa della sofferenza dell’essere umano provocata da altri uomini. Dovrebbero essere debellati anche il Cristo morto del Mantegna disteso come su un tavolo da obitorio e tutti i San Sebastiano trafitti.

Negli Stati Uniti vivono 163 milioni tra cani e gatti che consumano una quantità di carne tale che potrebbe sfamare interi paesi dell’Africa subsahariana. E non si tratta di carne qualsiasi ma ad alto rendimento nutritivo come quella di cui ci dà notizia ogni giorno la pubblicità (Friskies and company). Un tempo, non poi tanto lontano, ai cani e ai gatti si davano i resti della tavola.

Negli ultimi cinquant’anni la produzione mondiale dei cereali di base, riso grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50 per cento e una crescita, sia pur modesta, della produzione di tali alimenti c’è stata anche nell’Africa subsahariana. Eppure gli africani, insieme a tanta altra gente del Terzo Mondo, muoiono di fame lo stesso e ne sono drammatica testimonianza le migrazioni che tanto ci spaventano. Il fatto è che in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industrializzati se è vero che il 66 % della produzione mondiale dei cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei paesi ricchi (dati FAO). I poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli.

In Occidente si è arrivati a produrre e commercializzare “shampoo e linee di beauty per cani”, gli si fa indossare, oltre ai cappottini, t-shirt, cappellini, trench, bretelle, stivaletti di montone, occhiali da sole, gli si smaltano le unghie, li si irrora di eau de toilette alla vaniglia, perché non odorino da cani, di “Color Highlight” per fare le mèche al pelo striandolo di rosa, di arancione, di blu, di fucsia, di oro, li si fa massaggiare, in centri specializzati, con gli oli essenziali e si fanno loro impacchi d’argilla, li si vaporizza con spray anti-stress, li si porta dallo psicanalista da 300 dollari a seduta, si stipulano polizze vita a loro favore del valore di 200 milioni di dollari o di euro.

Scrive Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio: “Io sono persuaso, per esperienza e osservazione, che coloro i quali si identificano con gli animali, vale a dire gli innamorati quasi professionisti di cani e altre bestie, sono capaci di una maggiore crudeltà verso gli esseri umani, di coloro che stentano a identificarsi con gli animali”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 ottobre 2017

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Nel 1975, a Helsinki, 35 Stati del mondo, fra cui la Spagna, sancirono il diritto all’’autodeterminazione dei popoli’. Se questi accordi non sono solo delle astratte enunciazioni di principio destinate a non avere alcuna applicazione la Catalogna ha il pieno diritto di fare il suo referendum di indipendenza dalla Spagna.

L’intervento di Madrid per impedire il referendum che dovrebbe svolgersi il primo ottobre è brutale, violento e nella memoria dei catalani che hanno l’età per averla ha ricordato i metodi del regime franchista. Arresti di funzionari del governo catalano anche di altissimo livello come il braccio destro del vice presidente catalano, Josep Maria Jové, minaccia di arrestare lo stesso presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, sequestro delle schede elettorali, chiusura dei seggi. Ma i catalani non demordono: hanno fatto stampare un milione di nuove schede, hanno aperto nuovi seggi che però la polizia di Madrid ha circondato impedendone l’accesso. Molto dipende ora dall’atteggiamento della polizia catalana (Mossos d’Esquadra) il cui comandante Trapero si è rifiutato, almeno per ora, di sottomettersi alla Guardia Civil spagnola. Nel momento in cui scriviamo le manifestazioni degli indipendentisti sono state pacifiche, nella forma prevalentemente dei sit-in ma se si dovesse arrivare a uno scontro fra le due polizie si aprirebbe la strada in Spagna a una sanguinosa guerra civile, non diversa se non nelle proporzioni da quella che attraversò il Paese alla fine degli anni Trenta e che contrappose i nazionalisti di Francisco Franco ai repubblicani.

Nulla è immutabile nella vita degli uomini e delle loro organizzazioni. La Storia, e il Tempo che scorre con essa, non si ferma checché ne abbiano pensato tutti gli storicismi, da Hegel a Marx fino a quel epigono imbecille di Fukuyama. Nuovi Stati si formano, altri si disgregano, altri ancora scompaiono. Se così non fosse tutto il ‘mondo nuovo’ che si aprì agli occhi degli europei al tempo di Magellano sarebbe rimasto, per diktat del Papato, che allora aveva una grande influenza, diviso in due zone, l’una spagnola, l’altra portoghese. Ma così non è andata.

Fermiamoci però a tempi più vicini a noi. Dopo il collasso dell’Urss le ex Repubbliche sovietiche sono diventate degli Stati a tutti gli effetti (Estonia, Lituania, Lettonia, Georgia, Turkmenistan, Azerbaigian, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Ucraina per nominarne solo alcuni), la Jugoslavia è scomparsa dalle mappe geografiche dividendosi in Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Montenegro, Kosovo, la Slovacchia si è staccata dalla Cechia, la Germania si è riunificata. A parte la Bosnia e in particolare il Kosovo dove c’è stato un pesante intervento militare degli americani per staccarlo, a loro uso e consumo, dalla madre patria serba, tutte queste separazioni, o riunificazioni, sono avvenute in modo sostanzialmente pacifico. A volte erano così naturali che non c’è nemmeno stato il bisogno di ricorrere a un referendum.

Attualmente bollono in pentola, oltre a quello catalano, l’indipendentismo basco, scozzese, corso e, se vogliamo, anche l’autonomismo Lombardo-Veneto.

Questi indipendentismi hanno raramente vere ragioni politiche ed economiche. Nascono piuttosto da pulsioni esistenziali. Sono il tentativo di recuperare le proprie radici, un’identità perduta, di sfuggire in qualche modo a quella standardizzazione e a quella omologazione che la globalizzazione ha esasperato. E più si stringe il cerchio della globalizzazione, più entreranno in azione le controspinte indipendentiste.

E’ il sogno delle ‘piccole patrie’ che è venuto prepotentemente alla ribalta, o perlomeno alla coscienza dell’opinione pubblica italiana, ai tempi della prima Lega.

Alla luce degli accordi di Helsinki è un ‘sogno’, anzi un diritto, del tutto legittimo e, a parte le violente resistenze di Madrid, non si capisce perché l’Onu, l’Unione europea, Angela Merkel e altri soggetti politici si oppongano all’indipendentismo catalano senza avere alcun diritto di mettervi il becco.

Non facciamo altro che parlare di democrazia, del potere sovrano del popolo ma quando la volontà popolare si manifesta nella sua forma più limpida che è quella della democrazia diretta, e non della democrazia rappresentativa, troviamo qualsiasi pretesto per aggirarla e annullarla. ‘Populismo’ è l’aggettivo più usato per svilire e bollare qualsiasi tentativo che si opponga al sistema e al dominio di ‘lorsignori’, politici, economici, finanziari, di tutto il mondo. E allora diciamolo una volta per tutte: la democrazia non esiste, è un imbroglio, una Fata Morgana che svanisce appena mette in pericolo il dominio dei Signori della Terra.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2017