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In Parlamento si è aperto un dibattito sulla sigaretta elettronica. Si discute se sia davvero utile per “eradicare” (nello loro linguaggio da collitorti i medici hanno scritto proprio così invece di sradicare) il vizio del fumo, quello vero di chi sta sempre come Humphrey Bogart di Casablanca, con la sigaretta in bocca tenuta leggermente di lato (un mito allora in tempi un po’ meno tremebondi). Il fumo, quello vero fortunatamente non è ancora proibito in Italia, se all’aperto.

In Giappone, che segue la linea proibizionista anche per il fumo vero, quello dello sigarette, hanno scelto una soluzione intelligente ma estraniante. Tu cammini per le strade di Tokio e non vedi una sola persona che fuma (i giapponesi sono radicali in questo proibizionismo di derivazione yankee) ma a un certo punto sulle più importanti strade di Tokio vedi trenta persone immobili, con lo sguardo fisso davanti a sé, che fumano, stando molto attenti a non valicare una linea disegnata sul marciapiede che segna il confine.

Nel dibattito parlamentare è saltato fuori che il fumo delle sigarette elettroniche (in termini tecnici E-Cig) che il fumo all’aperto sempre delle stesse E-Cig (di quello naturale, normale non se ne parla neanche, è il diavolo incarnato) non dovrebbe essere ammesso davanti ai bar, alle fermate dei tram e persino nei parchi se c’è una donna incinta. Ottima occasione: io vado in giro per i parchi a tastare il ventre di quelle più graziose senza cadere nemmeno nel divieto sessuofobico stile MeToo (i Talebani in questo senso sono dei veri paladini della libertà perché da quelle parti si fuma come a ognuno pare e piace).

In realtà questa storia del fumo sia E-Cig sia in atteggiamento Bogart, che ha aspetti esilaranti, si inserisce nel grande dibattito di quello che io ho chiamato il “terrorismo diagnostico”. Nella nostra società non esiste più l’uomo sano, sostituito da quello “a rischio”, un’espressione che fa venire i brividi. Sono “a rischio” anche i bambini, figli di genitori “a rischio”, cioè sanissimi ma che in futuro potrebbero sviluppare ipoteticamente alcune patologie. E allora si impedisce loro di mangiare le merendine, i dolci, i salami.  Siamo tutti “a rischio”. Del resto è ovvio: è vivere che ci fa morire.

Qualsiasi età si abbia bisogna controllarsi, palpeggiarsi, auscultarsi, bisogna stare a dieta, fare almeno sei controlli l’anno. Non si può fumare, non si può bere, non si può più ingrassare, al limite, sempre in nome della salute non si dovrebbe nemmeno scopare se non al minimo. Alle volte non si dovrebbe nemmeno respirare, come consigliava il famoso oncologo Umberto Veronesi in un grottesco decalogo di qualche anno fa. Secondo Veronesi (che poi novantenne andava giù pesante col Viagra) per non inalare l’inquinamento provocato dalla produzione industriale, in certe ore del giorno e in certe città noi non dovremmo nemmeno respirare. Cioè, invece di abbattere il mostruoso Ambaradan che ci siamo costruiti, mortale dal punto di vista ambientale, disumano da quello esistenziale, l’uomo non dovrebbe più respirare, in omaggio ai soli Iddii unanimemente riconosciuti, il Progresso, la Tecnica, l’Economia, le ancelle gemelle, queste due ultime, dell’Iddio di tutti gli iddii: la Modernità. Dobbiamo vivere ibernati, vecchi fin da giovani. Insomma per la paura della morte noi ci impediamo di vivere. 

Ma da dove ci viene questa abietta paura della morte? Dal passaggio dal mondo contadino a quello urbano. Nella società agricola, premoderna, l’uomo viveva in intimo contatto con la natura e, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, era consapevole che la morte non è solo la conclusione inevitabile della vita, ma è la precondizione della vita. L’uomo sentiva di far parte di un tutto, di un destino più ampio, della sua famiglia, della comunità di villaggio, della specie, della Natura stessa, in cui la sua vita e la sua morte si scioglievano nell’eterno gioco del passaggio di testimone tra generazioni, fra i vecchi e i giovani. Ma questi motivi che consentivano all’uomo di ieri di accettare la morte con una certa serenità, sono, capovolti, gli stessi che lo impediscono a noi. Noi viviamo lontano dalla Natura, a contatto con oggetti che non si riproducono ma semmai si sostituiscono, e alla cui sorte ci sentiamo sinistramente omologhi, abbiamo perso il senso di un destino collettivo e quindi sentiamo la nostra morte come un evento esclusivamente individuale, definitivo, radicale, assoluto e quindi totalmente inaccettabile. Ma, come diceva il vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte, chi ha paura della morte”.

Il Fatto Quotidiano (10 marzo 2023)

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“E noi cambiavamo molto in fretta Il nostro sogno in illusione Incoraggiati dalla bellezza Vista per televisione” (Pane e Coraggio, Ivano Fossati)

Papa Bergoglio in una sua omelia ha detto una cosa importante: senza rivalutare il colonialismo storico ha affermato che quello economico, cioè quello in atto, soprattutto in Africa nera, da più di mezzo secolo, è peggiore. Ormai per trovare qualcosa di sinistra bisogna ricorrere a questo Papa che non per nulla ha voluto darsi il nome di Francesco, il più attuale di tutti i santi: ecologista (“Frate sole, frate luna, frate lupo” per cui quando dico “Dio Lupo” non è una bestemmia) e pauperista. Papa Francesco, anche se qualche volta è, uhm, diciamo un po’ troppo piacione, non dimentica  che il magistero della Chiesa ha due importanti funzioni, quella della cura delle anime e quella sociale.

Il colonialismo classico oggi abbandonato dagli ex Paesi colonialisti, tranne che dalla Francia (vedi Mali), non ha fatto danni irreparabili. Si limitava a rapinare materie prime di cui gli autoctoni in genere non sapevano che farsi, ma non aveva la pretesa di cambiare il sistema economico, sociale e culturale di quei Paesi. Gli autoctoni, gli indigeni, i Naturvölker (“i popoli della Natura”) continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni su quella che si chiama “economia di sussistenza”, autoproduzione e autoconsumo, una lezione che i cosiddetti Paesi Moderni dovrebbero imparare a memoria.

Ai primi del Novecento l’Africa nera era alimentarmente autosufficiente, lo era ancora, in buona sostanza (al 98 percento), alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Cosa è successo dopo? Che i Paesi cosiddetti sviluppati, sempre bisognosi di accrescere la loro crescita pena un tracollo dell’intero sistema, hanno cominciato a considerare interessanti i 700 milioni di abitanti dell’Africa nera. Erano poveri sì, ma potevano essere convertiti, nel senso quasi religioso del termine, in “consumatori”. È stata questa la causa devastante. Il modello di sviluppo che chiamiamo occidentale imposto ai neri invece di arricchirli li ha impoveriti fino alla fame nuda e cruda, non si capirebbero altrimenti le spaventose migrazioni di questi ultimi anni. Un uomo dello Zambia o dell’Etiopia o della Nigeria, non violerebbe, con grave pericolo, i confini del proprio Paese d’origine con famiglia e bambini appresso, non attraverserebbe la Libia che dopo la criminale aggressione (francese, americana e italiana) e la brutale eliminazione del colonnello Muhammad Gheddafi, è diventata una delle aree più pericolose del mondo, non si affiderebbe agli scafisti, taglieggiati costoro anche dall’Isis che dalla confusione ha sempre tutto da guadagnare, non si imbarcherebbe su gommoni pericolanti lasciandoci spesso la pelle, se non fosse spinto dalla più cruda delle esigenze: la fame (tra l’altro i neri non sanno nuotare, un po’ perché il mare non l’hanno mai visto, un po’ perché hanno le ossa pesanti – i neri sono stati grandissimi in tutti gli sport tranne che nel nuoto).

Lo “aiutiamoli a casa loro” di salviniana memoria è ipocrita e criminale. Più cerchiamo di integrare i neri, con la forza o con l’illusione delle nostre televisioni e naturalmente con le pressioni degli imprenditori, multinazionali o meno, nel nostro sistema più li strangoliamo trasformandoli da poveri che erano in miserabili.

Oltretutto oggi l’Africa nera è diventata particolarmente allettante perché nel suo ventre ci sono il cobalto e il coltan che è indispensabile per le batterie di computer e smartphone cioè per gli strumenti oggi necessari al digitale (altro che oro e diamanti che comunque stanno soprattutto in Sud Africa) e non saranno certo gli indigeni a utilizzare queste preziose materie prime, ma le multinazionali di ogni Paese, Cina compresa.  

Una ventina di anni fa fu rapito in Nigeria, a titolo di riscatto, un importante dirigente di una altrettanto importante multinazionale italiana, oltretutto un nero che si occupava di “risorse umane” e ovviamente non era ben visto dalla popolazione locale. Scosso dal fatto di aver dovuto infierire su un uomo di colore come lui, uno dei rapitori disse: “Voi ci costringete ad essere dei mostri anche se non lo siamo”. Del resto quanto è avvenuto in Ruanda tra Tutsi e Hutu dice quanto abbiamo ibridato quella gente, perché il nero di suo non è un violento è un istintivo che è cosa diversa, e nella bimillenaria storia dell’Africa nera pochissime sono state le guerre, niente a che vedere con quello che hanno combinato i Paesi cosiddetti sviluppati in Europa e in Oriente, in genere innocuizzate, con grande sapienza, con istituti consuetudinari che tendono a canalizzare l’aggressività senza annullarla del tutto.

Ma il tritacarne economico sull’Africa nera continua imperterrito. Parola di Papa.

Il Fatto Quotidiano (7 marzo 2023)

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Su Repubblica il capo del Politico Stefano Cappellini consiglia a Elly Schlein di aderire al principio di realtà “senza cedimenti alle seduzioni della decrescita”. A parte che non credo che Schlein abbia bisogno di pelosi consigli perché sembra una che va diritta per la sua strada, come del resto Giorgia Meloni che a me piace come persona, perché è fresca, diretta e cocciuta, anche se non condivido quasi nulla del suo pensiero (non si può essere europeisti e nello stesso tempo atlantisti cioè senza condannarsi a un perenne servaggio americano) la decrescita, che non sarà “felice” come ipotizza Maurizio Pallante un pensatore troppo spesso messo ai margini, ma sanguinosa . Però è il solo modo di salvarci.

La crescita ha creato sconquassi inauditi in campo sociale, economico e militare. È stato Alexis de Tocqueville il primo a notare, con un certo sbalordimento, nel suo saggio “Sulla povertà”, scritto nel 1830, che nell’Inghilterra del suo tempo, il Paese più opulento d’Europa, nel pieno del suo sforzo industriale, cioè della sua crescita, i poveri erano sei volte di più che in Spagna e Portogallo che erano appena all’inizio di quel processo, mentre nei Paesi non ancora toccati dall’industrializzazione, quindi dalla crescita, la povertà non esisteva.

È un dato sotto gli occhi di tutti che la crescita è causa della divaricazione sempre crescente, a volte spinta fino allo sbalorditivo (Elon Musk, Bezos), fra ceti ricchi e sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. E questo vale anche a livello internazionale con il divario crescente fra Paesi ipocritamente detti “in via di sviluppo” e quelli già sviluppati (il disastro africano evocato anche da Papa Bergoglio in una sua omelia). Viene quindi pian piano erosa la classe media che fa da collante fra queste due realtà, nazionali e internazionali, così lontane e questo, oltre che indecente, è pericoloso perché può portare, con buona pace di Cappellini (ma chi era costui?) e di tutti i Cappellini, a uno scontro sociale violento. Il vecchio Marx pensava che alla lunga i ricchi sarebbero diventati così pochi che per cacciarli non ci sarebbe stato bisogno di una rivoluzione, ma sarebbe bastata una pedata nel culo. Si sbagliava. Perché oggi i ricchi oltre che piuttosto numerosi hanno in mano tutte le leve del potere, e in particolare quello finanziario, per schiacciare nel sangue la classe media, i poveri e i miserabili. Ma se l’attuale successo della crescita continuerà verrà un giorno, non poi tanto troppo lontano visto la velocità esponenziale cui sta andando questo processo, in cui saranno quel che resta della classe media, i poveri sempre più poveri, i miserabili a innocuizzare i ricchi e i potenti in un bagno di sangue. Sarà il “dies irae”, il giorno del redde rationem.

È stata la crescita tecnologica a portare gli strumenti bellici dalla spada, cioè dal virile corpo a corpo, alle attuali armi a distanza che non solo distruggono l’epica della guerra ma anche la sua etica (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta) ma soprattutto si prefigurano come l’autodistruzione dell’intero genere umano  (“il progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”, Ratzinger). Più che una minaccia è ormai quasi una realtà se i potenti della Terra arriveranno all’uso della Bomba travolgendo tutti noi, miserabili cittadini del tutto ininfluenti (Don’t look up, Adam Mckay), ma pure, per fortuna, anche se stessi.

È l’antica questione che contrappone le società statiche, quali erano sostanzialmente quelle preindustriali, contadine e artigiane, e quelle dinamiche che sono destinate, per definizione, per la loro criminale coerenza interna, all’autodistruzione. Questo, perlomeno, è il mio personale wishful thinking. Bye bye.       

Il Fatto Quotidiano (3 marzo 2023)