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Si è costituito a New York un gruppo di ragazzi giovanissimi, più o meno adolescenti, 17 anni o poco più. Che cosa vogliono? Lo si ricava dal nome che si sono dati Luddite Club. Si ispirano, con modalità e intenti però diversi, al luddismo classico, il movimento operaio nato in Inghilterra ai primi dell’Ottocento, cioè pochi decenni dopo il take off industriale che già proiettava la sua sinistra ombra sul mondo del lavoro e non solo. I luddisti sabotavano i nuovi macchinari e spesso li distruggevano. Naturalmente il movimento, appena prese un po’ di corpo, fu soffocato nel sangue. La borghesia industriale e l’ineluttabile Progresso avanzavano i loro diritti.

I ragazzi del Luddite Club non distruggono macchine, fanno una cosa più intelligente: non comprano o comunque non utilizzano gli smartphone e si tengono alla larga dai social. Per loro è una questione di ecologia mentale. Sono quindi più avanti dell’ecologismo alla Greta Thumberg (chiamata sprezzantemente “gretina” dai cretini, in genere di destra). Il disfacimento ecologico lo vedono tutti, anche se poi in concreto non si fa nulla per fermarlo se non con le truffe del “bio” e del “green”, moltissime imprese sono diventate improvvisamente “bio” e “green” nonostante si sappia bene che con la globalizzazione la “filiera corta” è impossibile, come è impossibile tornare all’ “economia di sussistenza” vale a dire autoproduzione e autoconsumo.

Questi ragazzi si sono resi conto che la devastazione mentale portata dal digitale è più insidiosa di quella materiale. Incontrati per strada, come dovrebbe fare ogni buon cronista, in questo caso Viviana Mazza del Corriere, alla domanda di cosa mai stessero facendo, hanno risposto: “passiamo semplicemente il tempo”. Che non è il famigerato “tempo libero” che è ancora un tempo di consumo, ma il tempo “liberato” come l’ha chiamato, sia pur esprimendosi nel consueto modo un po’ confuso, il mio amico Beppe Grillo che può essere considerato, sia pur a distanza d’oceano, l’ispiratore di questo moderno luddismo. Naturalmente ci vuole una bella forza per imboccare questa strada, perché vuol dire essere tagliati fuori, “tf” nel linguaggio dei ragazzi, da un contesto sociale come l’attuale. Ma forse è meglio avere quattro o cinque amici in carne e ossa che rapporti con migliaia di fantasmi sparsi per il mondo.

Il pensiero del Luddite Club si lega ad altri fenomeni collaterali presenti anche in Italia: il grande aumento delle dimissioni volontarie, il rifiuto di fare anche un solo minuto in più di straordinario (niente mail a casa o sullo smartphone, non rompetemi i coglioni quando sto per i fatti miei). C’è insomma nei giovani una forte esigenza di avere più tempo dedicato a se stessi, alle proprie predilezioni esistenziali, e meno al lavoro. Il Tempo è il grande valore della vita tanto più che, parlando in termini cosmici, ne abbiamo così poco. “Il tempo è denaro” poteva dirlo solo un soggetto psichiatricamente disturbato come Benjamin Franklin. E in epoche più sagge San Paolo definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. E anche se adesso non sudiamo materialmente più (Paolo si riferiva al mondo contadino) il concetto è lo stesso. In molti paesi, Germania, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svizzera, si è cercato di assecondare questa montante esigenza con la “settimana corta”, si lavora cioè fino al giovedì.

Quel che è certo è che noi abbiamo utilizzato malissimo la tecnologia. Potevamo usare la tecno perché lavorasse, almeno in parte, al posto nostro. In fondo è il vecchio “lavorare meno, lavorare tutti”. Invece abbiamo usato la tecnologia digitale per sbattere fuori la gente dal mondo del lavoro e metterla sulla strada. Faccio un esempio proprio minimale: ai caselli autostradali non ci sono quasi più degli umani, ma degli automatismi che sbrigano la faccenda (se poi saltano ci sono code di ore). E quelli che stavano ai caselli? Devono industriarsi a cercare un lavoro anche peggiore.

Il problema è sempre il solito: ribaltare questo modello di sviluppo che ho chiamato “paranoico”. Il Covid, o per meglio dire il lockdown, poteva essere un’ottima occasione. Chiusi in casa potevamo capire – qualcuno l’ha capito – che di certe cose, di certi bisogni eterodiretti potevamo fare tranquillamente a meno. Che di certi bisogni non avevamo alcun bisogno. Invece vedo che continua a prevalere la pazzesca legge di Say: l’offerta crea la domanda. È il macchiavello, insieme all’invidia, su cui si regge tutto il sistema. Purtroppo l’uomo è l’animale più tragico, perché è lucidamente consapevole della propria fine, ma anche il più stupido del Creato: “resisto a tutto fuorché a una tentazione” diceva ironicamente Oscar Wilde.

Il Fatto Quotidiano (1 marzo 2023)

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Ho conosciuto Maurizio Costanzo nel suo momento più buio, quando si era bruciato sul braciere della P2 e tutti, anche coloro che gli avevano fin lì leccato i piedi, anzi soprattutto costoro come vuole la consuetudine flaianesca italiana (salire sul carro del vincitore, picchiare sul perdente) lo schienavano. Il suo isolamento era impressionante, quasi un quadro di de Chirico, i personaggi si rifiutavano di andare al suo show – aveva penosamente ricominciato da Rete4 – e lui stesso si vergognava persino ad uscir di casa.

La nostra conoscenza ed anche un briciolo di amicizia risale a quel periodo (naturalmente ero stato molte volte al suo show, ma in quei casi i rapporti erano del tutto superficiali, Maurizio si limitava a chiedermi che cosa pensavo di dire, per appropriarsene o per tapparmi la bocca al momento opportuno a seconda che gli facesse più comodo). Gli feci quindi un’intervista post P2 per Amica in cui non gli scontavo nulla ma davo atto a quest’uomo, precipitato da un giorno all’altro dalle vette del successo alla polvere, del lavoro, della fatica, della grandissima forza di volontà con cui stava cercando di rialzarsi. Fra i più accaniti e feroci con Costanzo c’erano i giornalisti della Rizzoli-Corriere per la quale Costanzo era stato adulato direttore dell’Occhio e della Domenica del Corriere (due fallimenti). Per questo era importante per lui ritornare, sia pur come intervistato, su un giornale del Gruppo come era Amica. E infatti Pietroni, il direttore di Amica, ebbe delle grane con i sindacalisti della Rizzoli molto predisposti al linciaggio (in questo come in altri casi, Tobagi docet). Costanzo mi è sempre stato grato per quell’articolo e, interpretando la cosa a modo suo, un po’ “mafiosetto”, come un favore mentre per me era solo un articolo scritto nei termini che mi parevano più giusti. Quando fu tornato in auge mi invitò ripetutamente al suo show per sdebitarsi di un debito che non aveva.

Nell’intimo Maurizio non era un uomo cattivo, solo un po’ vile. Non cercava mai lo scontro diretto, frontale di cui aveva orrore e un timore quasi fisico, la sua tattica era avvolgente e aveva trasmesso questo metodo anche alla moglie, Maria De Filippi (naturalmente parliamo di allora – siamo nei primi anni 90 – in seguito i rapporti di forza fra i due sarebbero cambiati, anzi si sarebbero ribaltati). Una volta che vidi la De Filippi in quel suo infame programma, Padri e Figli, le tolsi i panni di dosso sul Tempo di Roma. Lei, che non mi conosceva, mi telefonò la sera stessa, a casa, dimostrandosi dispiaciuta e attenta alle critiche che le avevo mosso. Un modo di fare democristiano, tutto sommato, visto che cosa è venuto dopo la DC, meno sgradevole di altri.

È una comica leggenda metropolitana che Costanzo fosse un uomo di sinistra, utile a Berlusconi per dire che sulle sue TV c’erano anche degli oppositori. Pupi Avati, che fu uno dei pochissimi amici, tre in tutto, a rimanergli vicino all’epoca dello scandalo P2, ed è quindi una fonte non sospettabile di astio, mi ha detto una volta: “Maurizio è antropologicamente fascista”. Io non mi spingo così lontano, dico che era un qualunquista della più bell’acqua. Inoltre, cosa rara per chi aveva milioni di fan adoranti, era uno che non se la dava.

Costanzo aveva il mito del lavoro, cosa singolare per un romano de Roma, si realizzava nel lavoro, fuori non esisteva. Mi capitò una volta di andarci a cena, con Nantas Salvalaggio e un altro giornalista che non ricordo, e lui fece praticamente scena muta. Del resto il suo orizzonte culturale non andava e non è mai andato oltre la Garbatella. Diventava protagonista e domatore solo sul palcoscenico, dove usava una frusta morbida, vellutata, insidiosa e spietata con i deboli, e pronto ad aprire il ventaglio dell’adulazione e dell’ossequio con i forti.

Il primo Costanzo, quello, se non ricordo male, di Bontà loro, faceva simpatia perché, con un fisico così insignificante, impersonava l’uomo della strada che punzecchiava, sia pur con prudenza, i potenti, e il pubblico si immedesimava.

Qualche anno dopo la vicenda P2, quando lui era tornato in grande spolvero, poiché passavo le vacanze nella vicina Talamone, era agosto, andai a trovarlo nella sua villa di Ansedonia, che affittava come ci tenne a precisare perché non aveva i soldi per comprarsela. Dopo aver attraversato un immenso parco, scortato dalle sue guardie del corpo e da numerosi famuli, entrai nella villa e lo vidi al centro di un grande salone, in piedi, con indosso una larghissima camicia (era già dimagrito) lunga fin quasi alle ginocchia, che gli dava un’aria da satrapo orientale, un po’ lascivo, con un telefonino in mano che non abbandonò un istante, facendo mille chiamate o ricevendone, nelle due ore che stetti lì. “Cosa vuoi, se non lavoro mi annoio a morte”, mi disse vedendo il mio sguardo perplesso e interrogativo. Durante il mese di agosto, che dovrebbe essere di riposo, organizzava il lavoro dell’annata. Sotto le sue finestre aveva uno degli angoli di mare più incantevoli d’Italia, fra l’incontaminata Feniglia e il litorale esclusivo di Ansedonia, ma non andava mai a fare il bagno. Praticamente non usciva mai, o quasi, stava lì rintanato nella sua villa o, al massimo sulla terrazza con una piscina che non usava, come un grosso ragno al centro della sua tela, e lavorava. Lei, Maria De Filippi, invece no, lei usciva, andava a cavallo, si divertiva. Quel pomeriggio la incrociai per un attimo, vestita appunto da cavallerizza, e mi parve più bella e affascinante di com’è in televisione. C’era un forte contrasto fra i tratti androgini, duri nella loro regolarità, di lei e la cedevolezza e la mollezza che era di lui. Mi parvero una buona coppia, affiatata, complice. 

Avendo avuto successo con un talk show, Costanzo aveva una fiducia illimitata, infantile e un po’ comica nel potere taumaturgico della parola. Qualsiasi situazione si presentasse, la sua reazione era: “Parliamone”. Uno si è rotto la gamba? “Parliamone”.

Durante il lockdown, non avendo di meglio da fare, ho rivisto programmi del passato fra cui molti Costanzo Show. Devo dire che rivisti oggi sono, a parte l’insopportabile ‘TV del dolore’, molto meno banali di quanto mi apparivano un tempo: persone che raccontano le loro storie, i loro drammi, il loro vissuto, artisti, politici, il tutto tenuto insieme da un filo psicanalitico o sociologico, comunque da un tema di fondo anche se non particolarmente profondo.

Non pensi il lettore che questa mia sia la solita sviolinata ad un uomo che è morto. Anche questa volta non ho scontato nulla a Maurizio, come in quell’intervista su Amica in un lontano giorno di ottobre.

Il Fatto Quotidiano (26 febbraio 2023)

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“La Corsica sempre aggredita, sempre occupata, mai domata”. Così era scritto, al tempo del suo indipendentismo, su una maglietta. La stessa cosa si potrebbe dire per l’Afghanistan.   

In compenso l’Afghanistan non ha mai aggredito nessuno, se i Talebani han fatto terrorismo non è mai stato terrorismo internazionale, ma terrorismo interno contro gli occupanti e stando ben attenti che gli “effetti collaterali” colpissero il meno possibile i civili. Per dare ai Talebani la patente di “terroristi internazionali” c’è voluto l’11 settembre. Ma è stato evidente fin da subito, o quasi, che i Talebani non c’entravano nulla con l’attacco alle Torri Gemelle di cui la dirigenza talebana era completamente allo scuro. Del resto il Washington Post e il Wall Street Journal hanno rivelato che l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq era stata già predisposta da mesi (noi prendiamo sempre il peggio dagli americani non il meglio che è la loro libertà di stampa).

Ma facciamo un passo indietro. A metà degli anni Trenta dell’Ottocento l’Afghanistan è stato oggetto delle mire coloniali dell’Impero inglese. Ci fu una guerra fra i britannici e gli afgani che gli inglesi persero. Per questo, e soprattutto per quello che accadrà poi, l’Afghanistan è chiamato “la tomba degli Imperi”. Poi ci fu un secolo di relativa tranquillità in cui gli afgani continuarono a vivere secondo le loro tradizioni, la loro cultura, la loro legge che è quella sharia che manda in bestia gli occidentali e i Panebianco di tutte le risme.

Nel 1979 l’Afghanistan svegliò gli appetiti dell’URSS che voleva occupare il Paese e imporre il comunismo. Ma agli afgani non andavano a sangue né gli occupanti, tantomeno il comunismo. Furono aiutati dagli americani, in funzione antisovietica, con i missili terra-aria Stinger, che si portano a spalla. Ma di questi missili i combattenti afgani vennero in possesso solo verso la fine degli anni Ottanta e, quando cominciarono a cadere gli aerei e gli elicotteri, i russi ebbero il buon senso di filarsela.

Poiché si era creato un vuoto di potere iniziò un sanguinoso conflitto fra i grandi combattenti che avevano sconfitto l’URSS, i “signori della guerra”, Massud, Hekmatyar, Ismail Khan, Dostum. I “signori della guerra” sbattevano fuori dalle case i legittimi proprietari per metterci i loro seguaci, uccidevano a piacere, stupravano a piacere. Ci fu la ribellione della popolazione afgana che sotto il comando del Mullah Omar, guida militare, politica, spirituale, ricacciarono Massud nel Panshir, costrinsero Hekmatyar e Ismail Khan a riparare in Iran e Dostum, il più impresentabile (anche se poi farà parte dei governi Quisling a guida americana) a ritornare in Uzbekistan. Disse il giovane Omar: “Come potevamo restare fermi mentre si faceva ogni sorta di violenza sulla povera gente e si stupravano le donne?”. Ne salvò parecchie che erano cadute nelle grinfie dei “signori della guerra”, questo era il suo modo di difendere le donne.

Il Mullah Omar arrivò al governo nel 1996 e volle chiamarlo “Emirato islamico d’Afghanistan”, non Califfato perché il califfo si presenta come discendente di Maometto mentre Omar non aveva di queste pretese. E furono i soli sei anni di pace di quel Paese.

All’inizio gli americani accolsero con favore la presa del potere da parte dei Talebani perché così avevano un unico interlocutore per i loro affari, che si concentravano su un grande gasdotto che dal Turkmenistan, attraversando tutto l’Afghanistan, conduceva al Pakistan, cioè al mare. Gli americani erano convinti che la gestione di quel condotto sarebbe stata dell’Unocal, un’impresa statunitense in cui erano presenti Dick Cheney e Condoleezza Rice. Invece Omar decise di affidare l’impresa alla Bridas argentina, diretta dall’italiano Alberto Bulgheroni. Ignoranti come sempre dei costumi dei tanti Paesi cui impongono la loro presenza gli americani arrivavano a Kabul e dopo due ore erano già ripartiti convinti di aver concluso l’affare. Invece Bulgheroni sapeva che agli afgani piacciono lunghe, e spesso estenuanti, trattative attorno a una tazza di tè. Ma non fu solo per questo che Omar decise per la Bridas. Capiva bene che la Unocal non era solo la Unocal ma il cappello che gli americani intendevano mettere sull’Afghanistan. Cominciarono allora le indignate lagnanze, in specie del segretario di Stato Albright, per il mancato rispetto, fino ad allora ignorato, dei “diritti civili” da parte dei Talebani. Era il preludio della guerra. Che è stata una guerra puramente ideologica: non ci piacevano i costumi di quella gente e poiché non ci piacevano i loro costumi abbiamo occupato quel Paese per vent’anni causando 400mila morti civili per concluderla poi con la più vergognosa delle sconfitte. Gli occidentali avevano schierato il più potente, armato e numeroso esercito del mondo e sono stati sconfitti da gente che combatteva quasi a mani nude, kalashnikov e mitra. I Talebani non avevano nemmeno i missili Stinger contro bombardieri, caccia e droni. Bisognerebbe convincersi, una volta per tutte, che non si fa una resistenza di vent’anni se non si ha l’appoggio della maggioranza della popolazione.

E veniamo all’Afghanistan di oggi che dall’agosto 2021 è governato dai Talebani. Non c’è notizia, in Occidente, che non sia data per metterli in cattiva luce. Ha suscitato scandalo che i Talebani abbiano abolito la festa di S. Valentino, “è una festa occidentale, consumistica, estranea ai nostri costumi”. Ha fatto scandalo, con qualche ragione in più, che i Talebani stiano rastrellando gli anticoncezionali dalle farmacie. E questo per chi si è battuto per legittimare l’aborto è un obbrobrio. È che da quelle parti si ha una concezione diversa della famiglia e del rapporto fra i sessi. La donna deve pensare al focolare e a far figli, in compenso l’uomo ha l’obbligo di mantenere l’intera famiglia. E questo dovrebbe farci riflettere. In Italia a furia di LGBTQ il tasso di natalità è precipitato all’1,2 percento. In Afghanistan che pur dopo vent’anni di occupazione sconta una situazione economica pessima il tasso di natalità è al 4,75 percento.

A gennaio un attentato ha ucciso due donne che si stavano recando al lavoro. Data così, nuda e cruda, com’è stato fatto dai media occidentali sembrava che i Talebani si fossero accaniti, come al solito, sulle donne. Invece era un attentato Isis. Interessante quanto ha affermato il portavoce della Corte Suprema Ahmad Fahim Qaweem: “Sfortunatamente abbiamo perso due giudici donne nell’attacco di oggi”. E ha aggiunto “più di 200 giudici donne lavorano per la Corte Suprema”. Mi pare quindi azzardato affermare che in Afghanistan  le donne non abbiano accesso a un lavoro, anche apicale, anche delicato. E sarebbe curioso che queste donne arrivino a tali ruoli senza aver studiato, mentre gli occidentali sostengono che non hanno accesso ai licei e alle università.

Il 22 giugno 2022 c’è stato un terremoto in Afghanistan nella regione di Khost: più di 1500 vittime. Sarebbero state molte di meno, perché in quella zona non si costruiscono case in pietra e tantomeno palazzi, se una contemporanea alluvione non avesse spazzato via casupole e uomini. Niente a che vedere per numero di vittime col recente terremoto in Turchia e in Siria per il quale si sono mobilitati molti paesi e organizzazioni di volontariato, anche se il generoso e dovuto soccorso a quelle popolazioni va anche a favore del tagliagole Erdogan e del dittatore siriano Assad. Per gli afgani nessun aiuto. Invece di sprecare lacrime ipocrite sulla situazione afgana sarebbe meglio che le banche americane e inglesi restituissero i 9 miliardi di dollari che ai tempi di Karzai e di Ghani la Banca nazionale afgana aveva depositato sui loro conti. Come sarebbe bene che all’Afghanistan venga dato un seggio all’Onu. Perché uno Stato sia tale occorre che abbia tre presupposti: una popolazione, un territorio, un governo. E l’Afghanistan li ha.

Io sono stato sempre demonizzato per il mio appoggio ai Talebani. Devo sempre chiarire  che non ho nulla a che spartire con la loro ideologia, che mi è lontanissima. Dei Talebani apprezzo quei valori che chiamo “pre-ideologici, pre-politici, pre-religiosi”: coraggio, lealtà, onestà, difesa dei più deboli, che il Mullah Omar ha incarnato nel modo più pieno.

Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2023

Il lettore si chiederà, forse, perché mentre c'è una guerra in corso fra Russia e Ucraina io mi occupo delle guerre afgane. Il motivo è smeplice anche se indiretto: gli afgani hanno respinto tre occupazioni (inglesi, russi, occidentali) senza avere l'aiuto di nessuno, anzi, da quando sono entrati in gioco i Talebani, avendo contro il mondo intero o quasi. Zelensky non fa che chiedere armi e aiuti economici ai Paesi europei (oltre ovviamente agli Stati Uniti) benchè l'Unione Europea dal punto di vista dei trattati internazionali non abbia nessun obbligo nei confronti dell'Ucraina che non fa parte né della Ue né della Nato.

m.f