Il Tribunale internazionale dell’Aia ha incriminato l’Afghanistan, attraverso il suo leader politico e religioso Hibatullah Akhundzada per “persecuzione delle donne, un crimine contro l’umanità”.
Un’incriminazione curiosa, bizzarra, paradossale dal punto di vista giuridico. Infatti all’Afghanistan non è riconosciuto un seggio all’Onu. Ma se l’Afghanistan non è rappresentato all’Onu, non ha un seggio all’Onu, in nome di che cosa dovrebbe subire delle sanzioni da un’Organizzazione che non lo riconosce come Stato?
Il crimine per cui è accusato lo Stato afghano, che peraltro per l’Onu non esiste, è “persecuzione delle donne, un crimine contro l’umanità”. E’ quindi una condanna non per questo o quel misfatto ma a una condizione esistenziale, a un costume. Ora la Cpi si è dimenticata che gli Accordi di Helsinki del 1975, firmati da tutti i più importanti Stati del mondo, stabiliscono il principio dell’”autodeterminazione dei popoli”, cioè un popolo può evoluire, o non evoluire, a seconda di quella che è la sua storia, le sue tradizioni, i suoi usi.
Il totalitarismo occidentale dovrebbe capire una buona volta che non tutti i Paesi del mondo devono essere costretti ad adottare il suo modello. Questa presunzione ha causato nell’ultimo quarto di secolo una serie di guerre: alla Serbia (1999), all’Afghanistan (2001), all’Iraq (2003-2007), alla Somalia per interposta Etiopia (2007), alla Libia (2011), tutte guerre a guida americana che sono venute regolarmente in culo all’Europa.
Esemplare è la guerra all’Afghanistan talebano. All’inizio si poteva anche pensare che i Talebani fossero alle spalle degli attentati dell’11 Settembre perché Bin Laden, che era ritenuto il mandante, stava in Afghanistan. Peraltro i Talebani il Califfo saudita se l’erano trovato in casa, non l’avevano chiamato loro. Dal Sudan lo aveva chiamato il tagiko Massud perché lo aiutasse a combattere un altro “signore della guerra”, Gulbuddin Hekmatyar. Il Mullah Omar definiva Bin Laden “un piccolo uomo”. Gli americani invece lo avevano tenuto in gran conto perché all’epoca dell’invasione russa li aveva aiutati in funzione anti-Urss. Ma poi si è accertato senza ombra di dubbio che la dirigenza talebana era completamente all’oscuro di quell’attentato e che nessun guerriero talebano vi aveva partecipato, c’erano arabi-sauditi, yemeniti, marocchini, tunisini ma non afghani, tantomeno talebani, così come non c’erano afghani, tantomeno talebani, nelle cellule, vere o presunte, di al-Qaeda scoperte dopo l’attentato.
La guerra all’Afghanistan, il cui sottosuolo è poverissimo di quelle materie prime che tanto fan gola all’Occidente (adesso la situazione è un po’ cambiata con la scoperta in quel sottosuolo di ricchi giacimenti di litio che è essenziale per le batterie) è stata quindi una guerra puramente ideologica. Non ci piacevano i costumi di quella gente e poiché non ci piacevano i costumi di quella gente abbiamo occupato quel Paese per vent’anni portando sul terreno uno schieramento di armati quale non si era mai visto in epoca moderna e tecnologie avanzatissime, droni compresi. Dall’altra parte c’era solo gente armata di kalashnikov e di Ied, cioè ordigni improvvisati di cui fan parte oltre alle mine anticarro quelle antiuomo di cui il Mullah Omar aveva proibito l’uso perché colpiscono in genere civili inermi, mine antiuomo, sia detto di passata, di fabbricazione italiana. Quella guerra abbiamo finito per perderla nel più umiliante dei modi. Insomma il più potente esercito del mondo era stato sconfitto da degli straccioni.
Sui Talebani sono state scritte tante e tali menzogne, o peggio, mezze verità, che posso qui enuclearne solo alcune.
- Si è detto da parte di Francesco Merlo, non mi ricordo più su quale autorevole rete tv, che i Talebani avevano avuto l’appoggio determinante del Pakistan, Paese atomico, alleato degli Usa. Insomma la guerra non l’avrebbero vinta i Talebani ma il Pakistan. Ebbene la più grande offensiva anti-talebana, ma sarebbe meglio dire anti-afghana, perché ci andarono di mezzo soprattutto i civili, è stata quella compiuta dall’esercito pachistano nella valle di Swat nel 2008. Quanti siano stati i morti non si sa ma i profughi furono due milioni. Il Corriere titolerà: “Milioni di profughi in fuga”, dando a intendere che erano in fuga dai Talebani Invece fuggivano dall’esercito del Pakistan.
- Si è detto fino alla nausea che nell’Afghanistan di Omar alle donne era proibito studiare. Ebbene è scritto in un editto promulgato all’epoca in cui governava Omar: “Nel caso che sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali devono coprirsi concordemente alle norme della sharia islamica”. Quindi non è affatto vero che in linea di principio le donne non potessero studiare. Difficoltà vennero perché i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, pretendevano che gli edifici dove studiavano i maschi e quelli delle femmine fossero separati, ma impegnati nella guerra contro gli occidentali e l'Isis non ebbero il tempo di costruirli, sia detto di passata: i Talebani sono stati gli unici a combattere seriamente l'Isis, in questo aiutati da un Putin più lucido che li riconobbe come "gruppo armato, non terrorista" perché si rendeva conto che se Isis avessa sfondato in Afghanistan si sarebbe introdotto nei territori della Confederazione.
- Si è detto che anche oggi le donne non hanno accesso al lavoro. Ebbene, di recente dopo un attentato dell’Isis che aveva ucciso due poliziotte afghane, si è scoperto che solo nell’apparato giudiziario lavorano duecento donne spesso in posizioni apicali.
Ma c’è da aggiungere la cosa più importante. Il Mullah Omar stroncò il traffico dell’oppio che dopo la sua decisione di proibire la coltivazione del papavero, da cui lo stupefacente si ricava, crollò quasi a zero. Una decisione difficilissima, direi epocale se si pensa alla Colombia, anche perché sugli agricoltori e sui camionisti che erano la sua base, chiamiamola elettorale, la decisione impattava in modo pesante. In ogni caso poté prendere questa decisione perché la sua autorevolezza in quell’Afghanistan era indiscussa. Aveva combattuto da semplice mujaheddin, perdendoci un occhio e subendo altre quattro gravi ferite, gli occupanti sovietici, aveva combattuto i cosiddetti “signori della guerra” (Massud, Hekmatyar, Ismail Khan, Dostum) che impegnati a combattersi per prendere il potere dopo la sconfitta dei russi, avevano fatto dell’Afghanistan terra di abusi, di soprusi, di ogni sorta di violenze, soprattutto sulle donne, cacciando dalle case i legittimi proprietari. Dirà il giovane Omar all’inizio della sua ascesa: “Come potevamo stare fermi mentre si compivano ogni sorta di abusi ai danni della povera gente e si violentavano le ragazze?”. Ebbene di questa decisione del Mullah Omar, che ha avuto ovviamente un impatto internazionale, sui giornali italiani non ho mai letto una riga tranne un pudico accenno dell’ambasciatore Sergio Romano sul Corriere.
La replica talebana è stata estremamente diplomatica, dopo aver affermato che le pretese della Cpi erano del tutto fuori dal mondo del diritto, hanno parlato di “doppio standard” intendendo dire: perché puntate solo su di noi per la questione femminile e non, poniamo, sull’Arabia Saudita, dove la condizione della donna è ben peggiore?
E adesso cosa vuole fare il Tribunale internazionale dell’Aia? Un’altra guerra di vent’anni ai Talebani? Lo si vuol capire, una volta per tutte, che una resistenza che è durata vent’anni non può esserci stata senza l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, anche femminile?
29 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano
Per una svista della Redazione uno "sfondone" è stato attribuito a Francesco Merlo invece che a Gianni Riotta. Ce ne scusiamo con entrambi e con i lettori. m.f
Caro Leonardo Bonanno, anche se non ho una rubrica di posta come Feltri sul Giornale o Cazzullo sul Corriere, rispondo direttamente alla tua lettera pubblicata dal Fatto del 4 gennaio in cui denunci le deplorevoli condizioni in cui sono tenuti i nostri allevamenti.
La cosa più grave, secondo me, non è che mucche, polli, maiali vivano nello sporco e nello sterco, in fondo non sono animali domestici come quel saprofita del cane così simile all’uomo nell’approfittare dell’altrui o del più dignitoso gatto, che tanto piace a Feltri, che al massimo ti può dare una graffiata se gli rompi troppo i coglioni.
La cosa più grave è che questi animali vivono “stabulati”, 24 ore al giorno sotto i riflettori. A causa di questo trattamento sviluppano malattie tipiche dell’uomo, disturbi cardiovascolari, diabete, depressione, nevrosi. La carne che noi mangiamo è quindi di animali malati che, facendo un percorso inverso, trasmettono le loro malattie anche all’uomo.
Perché si “stabulano” gli animali? Perché crescano il più in fretta possibile per essere pronti sulla nostra tavola, a peso d’oro. Mi ha confessato un allevatore che solo un quarto del peso di questi animali è di carne, il resto è acqua. Non si tratta quindi di un problema etico, ma economico. L’uomo è un animale onnivoro, è ovviamente antropocentrico, e a dispetto dei vegetariani e dei vegani, ha diritto di sfamarsi come gli pare (il leone si stupirebbe molto se gli si dicesse che non è etico divorare l’antilope) ma è folle che lo faccia a suo danno.
E qui si innesta un discorso che riguarda tutta l’agricoltura. In Svizzera per tenere gli agricoltori sui campi sono previste cospicue sovvenzioni a loro favore. Così gli animali, le mucche in particolare, circolano liberi e poiché il terreno, montuoso, lo consente, le puoi vedere d’estate all’alpeggio. Una sovvenzione del genere era stata prevista anche in Italia. Ma che cosa hanno fatto i nostri contadini? Al posto delle vecchie cascine, così coerenti col paesaggio, hanno costruito orrende casette in cemento e anche in vetrocemento e hanno abbandonato i campi. In sintesi: hanno preso le sovvenzioni ma non hanno rispettato la legge per cui erano state istituite.
Noi non possiamo essere svizzeri né tantomeno la Svizzera, anzi la disprezziamo perché obiettivamente è molto noiosa, c’è un imbarazzante mancanza di polvere in Svizzera, alle cinque del pomeriggio a Lugano non c’è in giro nessuno, che cosa facciano gli svizzeri di sera è un mistero. Fatto sta che quando abitavo part-time da quelle parti la sera mi rifugiavo in un bar di serbi perché lì qualcosa, almeno una rissa, sarebbe successo. Ma qualche insegnamento dalla Svizzera, non solo nel campo dell’agricoltura, dovremmo pur prenderlo.
La Svizzera è un Paese colto che ha quattro Reti tv, quella della svizzera ticinese, quella della svizzera francese, quella della svizzera tedesca e quella della svizzera romanza. Nelle librerie di Lugano puoi trovare testi in italiano, in inglese, in tedesco spesso irreperibili in Italia. I migliori reportage dopo l’11 Settembre in cui tutto l’Occidente lacrimava accusando n’importe quoi del misfatto a cominciare dai Talebani, che non c’entravano niente, li ho visti fare dalle reti svizzere.
La Svizzera, in linea di massima, è un Paese interclassista che ha sempre accolto i déraciné di tutto il mondo, a cominciare dagli anarchici (“Addio Lugano bella gli anarchici van via”), di qui sono passati Trotkzij e Lenin. Naturalmente oggi ci vanno anche gli italiani, e non solo gli italiani, che non vogliono pagare le esorbitanti tasse esistenti nei loro Paesi. Ma siccome in Svizzera le leggi sono leggi, in genere si preferiscono le Cayman o qualche altro paradiso fiscale.
Tristan Tzara ha dato un potente supporto al surrealismo cercando di combinarlo, fra gli anni Trenta e Quaranta, col comunismo, impresa però fallita.
La Svizzera è pacifista e neutrale. Ma non è imbelle. Ogni mese si fanno esercitazioni adattando gli scantinati a bunker, in previsione del peggio, cioè di una guerra nucleare (“Il formidabile esercito svizzero”, Langendorf).
La Svizzera è un Paese ordinato. Se, poniamo, a Lugano cambiano un senso unico, ti avvisano una settimana prima dandoti anche i percorsi alternativi. Naturalmente tutto ciò vale finché gli svizzeri vivono in Svizzera, come passano il confine diventano immediatamente italiani. Avevo una fidanzata italiana che lavorava alla radio della Rsi. Finché stava in Svizzera era svizzerissima, ma bastava che passassimo il Tresa, un fiumiciattolo dalla larghezza di non più di duecento metri, perché si mettesse a buttare cartacce dappertutto. E del resto in Italia vediamo spesso schizzare auto con targa svizzera superando tutti i limiti di velocità.
Ma forse io mi illudo, forse tutto il mondo è paese, forse, nel clima della globalizzazione, quella svizzera in cui ho passato uno dei periodi migliori della mia vita, non esiste più.
Ma torniamo al tema dell’allevamento da cui siamo partiti. La mucca è un animale meraviglioso, bruca erba, la trasforma in latte, caga come dio comanda e trasforma quello che ha mangiato in concime. Un ciclo perfetto. Che si è voluto denigrare sostenendo che la mucca, scoreggiando, produce metano.
Ma noi, per le solite e per niente imperscrutabili ragioni economiche, siamo riusciti a nutrire questo animale erbivoro con carne. Ed è nato il fenomeno, che forse anche lei Leonardo ricorderà, della “mucca pazza”. E a volte, sempre più spesso, mi chiedo se a essere pazzi non siano le mucche ma noi umani che ormai non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre qualcosa di ben più insidioso delle scorregge della mucca.
25 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano
Il cavallo può tornare ad essere un mezzo di trasporto come è stato per secoli, prima della comparsa delle auto? La domanda non sembri peregrina o provocatoria viste le crisi che coinvolgono il settore ferroviario (lasciando perdere le fantasiose congetture su presunti sabotaggi) e quello dell’auto per motivi più solidi, economici, code estenuanti e ingorghi vari.
Un cavallo, non da tiro ovviamente, può percorrere, con un paio di opportune fermate nelle stazioni di posta, più di 150 km al giorno. Non si può nemmeno ricorrere ai purosangue che sarebbero sprecati, anche se oggi di corse non se ne fanno quasi più, ma perché più sensibili, e quindi più fragili di un normale cavallo da passeggio.
Esemplare è la storia di Hadol du Vivier. Nei primi anni Settanta frequentavo il Turf parigino e si parlava molto di questo trottatore Hadol che nella sua età non ancora matura, tre anni (i cavalli vengono mandati in pista a due anni ma raggiungono la pienezza a cinque) aveva vinto 23 corse sulle 24 cui aveva partecipato e quella persa era stata perché era una corsa ad handicap, e l’handicap riguardava proprio Hadol che partiva cinquanta metri dietro gli altri. Il nastro l’aveva colpito proprio sul petto (nelle corse dove non c’è un handicap i cavalli partono dietro le ali della macchina) e Hadol, spaventato, si era messo di galoppo. Il suo storico driver Jean-Renè Gougeon aveva deciso di lasciar perdere e di far fare al cavallo quello che in gergo si chiama un “trottone di salute” ma si accorse, con sorpresa, che Hadol si mangiava non solo l’handicap ma anche quello che aveva perso in partenza. Arriverà secondo.
Formidabile fu la prestazione di Hadol nel Gran Premio d’Europa, a San Siro, riservato ai quattro anni (1977). E qui assistemmo a una scena che al trotto non si vede mai. Partito inizialmente in mezzo al gruppo Hadol aveva progressivamente staccato gli avversari di una ottantina di metri. Perché non si vede mai? Perché nel trotto, come nel ciclismo, chi succhia le ruote fa molta meno fatica.
Hadol du Vivier era una sorta di prototipo di Formula uno: petto ampio del normanno con una struttura, negli arti inferiori, da levriere americano. Allora la rivalità era fra trottatori americani e francesi, i primi prediligevano la velocità, i secondi la tenuta a distanza. Ma facciamocelo raccontare questo straordinario Hadol da Luigi Gianoli, grande scrittore che raccontava soprattutto, oltreché l’ippica, il tennis, nel suo libro Il Trottatore (1978): “Dal trotto d’una facilità e d’una semplicità estrema, rotondo, né troppo radente né troppo rilevato, rotolante come uno che dipani con sicurezza ma senza fretta un gomitolo di lana, Hadol vincendo l’Europa 1977 a San Siro ha spazzato via sei record europei… e senza una goccia di sudore”.
I punti deboli dei cavalli sono la trachea e l’apparato intestinale che è lungo undici metri. Prima del Grand Prix d’Amerique del ‘78 Gougeon aveva commesso una leggerezza imperdonabile. Aveva fatto correre Hadol anche se aveva qualche linea di febbre convinto che la forza del cavallo era tale da superare queste difficoltà. Ora l’Amerique si corre a gennaio a Parigi e Parigi a gennaio è il polo del freddo. Hadol aveva avuto anche dei problemi alla trachea che segneranno il suo destino. Nel gran premio successivo, mi pare il gran premio d’inverno a San Siro, c’era una nebbia fittissima, il clima meno adatto per un cavallo che aveva i problemi di Hadol. Era ugualmente favorito. Ma io, pur sapendo che non poteva vincere, puntai comunque una cifra cospicua su di lui. Arrivò in coda al gruppo staccatissimo e dietro di me sentii una vocetta odiosa che disse: “il favorito è arrivato ultimo”. Da allora Hadol du Vivier non fu più lo stesso. Quando veniva superato dagli avversari, lui che aveva un profilo nobile fiero, da gran signore, si stupiva che quegli avversari da sempre dominati gli passassero davanti. In una “sgambatura” sempre a San Siro che per i cavalli ha lo stesso valore del riscaldamento per i calciatori, sentii la solita voce odiosa che commentava: “le noble déchu”. Sì, il nobile decaduto ma Hadol, e io con lui, si prese una grande rivincita a Enghien: il clima è temperato, l’aria è limpida. Hadol non era più il favorito. Era dato 4 a uno. Nessuno gli credeva più. Puntai su di lui una cifra che ancora oggi considero enorme e Hadol, in dirittura d’arrivo, stampò sul traguardo, di una corta testa il nuovo idolo, di un anno più giovane, Ideal Du Gazeau (in Francia le generazioni vanno in ordine alfabetico) e fu, credo, la sua ultima corsa. Entrato in razza si suiciderà scagliandosi, volontariamente, contro un ramo robusto e affilato. Troppo sensibile, direi troppo umano, non tollerava di essere decaduto.
Allora Il cavallo può tornare ad essere un mezzo di trasporto? C’è il problema di nutrirlo, almeno che non provveda da sé, il cavallo è un erbivoro e comunque la biada costa sempre meno della benzina. C’è il problema di alloggiarlo ma il suo alloggio costerà sempre meno di un garage. Il cavallo non ingombra la strada a differenza delle auto. C’è il problema collaterale che quasi nessuno oggi sa andare a cavallo ed in effetti salire in groppa a un animale alto più di un metro e mezzo, con staffe o, come fanno tuttora i contadini in maremma senza staffe, non è cosa per tutti.
Si ripristinerebbero poi le stazioni di posta, alcune esistono ancora, e sono piazzate prima di uno scollinamento. In questo caso si ricorre a un cavallo di rinforzo il cui nome ora mi sfugge (l’ho preso da Prezzolini che ai suoi tempi montava). Le stazioni di posta che ancora esistono, per esempio nel Casentino, non hanno solo il compito di smistare la corrispondenza, ma sono anche dei “Sali e tabacchi” e sono pure dei piccoli, deliziosi, supermarket perché il viaggiatore se si è lontani da una città deve essere provvisto di tutto. Le consiglio al viaggiatore curioso e solitario come consiglio di vedere una corsa di cavalli davanti al mare. Le criniere al vento, la giovinezza degli animali, la loro grazia, ricordano un po’ le “jeunes fille en fleurs” di cui parla, in una pagina memorabile, Marcel Proust.
23 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano