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 Ho la sensazione che prima o poi, grazie alla confusione generale e ai cambiamenti geopolitici in atto, esploderanno i Balcani. È notizia passata quasi inosservata che ad aprile la Cina ha fornito alla Serbia sei aerei Y-20. Naturalmente tutte e due le parti hanno tenuto a precisare che questa fornitura non ha niente a che vedere con la guerra russo-ucraina, una smentita obbligata ma che lascia molto perplessi.

Penso che la prima a saltare sarà la Bosnia Erzegovina, uno Stato diviso fra musulmani bosniaci, croati e serbi tenuti insieme con lo sputo e non saranno certo le deboli forze Ue a poter fronteggiare eventuali convulsioni. Una Bosnia multietnica che teneva insieme popolazioni che si odiano da sempre, cioè croati, fascisti (quelli delle foibe per in intenderci) e serbi, tendenzialmente socialisti, era concepibile solo all’interno di una Jugoslavia a sua volta multietnica e questo fu il capolavoro del Maresciallo Tito e prima di lui dell’Impero austroungarico. Poi ci fu la feroce guerra slava che aveva alla base non solo motivi etnici ma antiche rese dei conti (vedi il bel libro Maledetta Sarajevo, di Francesco Battistini e del mio vecchio amico Marzio Mian che erano sul campo). Quella guerra i serbi bosniaci l’avevano vinta non solo perché appoggiati dalla madrepatria serba (anche i croati bosniaci avevano l’appoggio della Croazia, mentre i più deboli erano i musulmani che ricevevano solo qualche saltuario aiuto dall’Iran) ma perché sul terreno, a detta di chi se ne intende, sono i migliori combattenti del mondo, superati oggi solo dagli Isis che non solo non temono la morte ma la agognano per entrare nel paradiso delle Huri (più che un paradiso a me sembra un inferno, ma lasciamo perdere). Ma intervennero gli Stati Uniti e trasformarono i vincitori in vinti. Nacque quindi questa entità posticcia, la Bosnia Erzegovina a guida musulmana, che oltretutto non era mai stata uno Stato ma solo una regione all’interno della Jugoslavia.

La pace in Bosnia fu ratificata da un accordo firmato a Dayton (14 dicembre 1995) da vari capi di Stato, Alija Izetbegović, Franjo Tudjman, Bill Clinton, Jacques Chirac, John Major, Helmut Kohl, Viktor Stepanovič Černomyrdin e Slobodan Milošević.

Ma agli americani non bastava aver umiliato i serbi bosniaci, aggredirono senza ombra di legittimità (l’ONU si era opposta) la Serbia per la questione del Kosovo. Il Kosovo è una regione storicamente e giuridicamente serba da sempre, anzi è considerata “la culla della Nazione serba”. Ma nel tempo nel Kosovo erano diventati in maggioranza gli albanesi che chiedevano l’indipendenza utilizzando anche metodi terroristi come è in ogni guerra partigiana, mentre la Serbia, oltre all’esercito regolare, utilizzava feroci squadre paramilitari (le famose “tigri di Arkan”). Era una questione interna allo Stato serbo che doveva essere decisa dalle forze in campo, ma gli Stati Uniti decisero che la Serbia era “brutta, sporca e cattiva” e bombardarono per 72 giorni una grande e colta capitale europea come Belgrado sostenendo quindi quella corrente islamica dei Balcani (la Serbia è ortodossa) che darà poi origine alle isterie ‘Fallaci style’. Nel 2003 a una trasmissione di Floris, presente D’Alema che era allora Presidente del consiglio, dissi: “Mi perdoni Presidente ma la guerra alla Serbia oltre che illegittima è stata cogliona perché ha favorito la corrente islamica dei Balcani”. D’Alema non replicò ma io al programma di Floris non ho più messo piede.

Quell’aggressione alla Serbia, come abbiamo detto, era illegale e illegittima (come illegale e illegittima è l’aggressione della Russia di Putin all’Ucraina) ma fu sostenuta da molti intellettuali occidentali e anche italiani per cui ora viene difficile condannare Putin per l’aggressione all’Ucraina dopo aver plaudito l’aggressione americana alla Serbia (6.500 morti in meno di tre settimane).

In Kosovo i serbi erano 360 mila, oggi ne sono rimasti circa 60 mila, la più grande pulizia etnica dei Balcani sotto l’egida della Nato dopo quella del presidente croato Tudjman che cacciò in un sol giorno 800 mila serbi dalle krajne. Ma davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra c’è finito Slobodan Milošević, poi morto per un infarto assai sospetto (aveva le carte per difendersi) e non Tudjman che è morto tranquillamente nel suo letto.

Dubito molto che la Serbia non sia presa dalla tentazione di riprendersi il Kosovo ora che in campo è rientrata la Russia sua storica alleata (sono entrambi popoli slavi, Jugoslavia vuol dire “slavi del sud”). Nel 1999 la Russia era troppo debole per opporsi agli Stati Uniti, ora l’alleanza fra Serbia e Russia potrebbe venir utile all’una e all’altra.

Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2022

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Il progresso. Il mito del progresso, vediamo dove ci ha portato questo intangibile mito e vediamolo in un ambito molto attuale: la guerra.

Farò quindi qui, necessariamente a volo d’uccello, una storia della guerra, storia lunga che inizia praticamente con la comparsa dell’Homo Sapiens (per chi volesse saperne di più c’è il mio Elogio della guerra). Per i primitivi la guerra è un fatto comunitario, che coinvolge tutto il gruppo e la si fa solo per necessità quando per ragioni varie (scarsità di cibo, aumento della propria popolazione o di quella del vicino, alterazioni dell’habitat, variazioni climatiche) il territorio non è più sufficiente e allora l’alternativa diventa: aggredire o morire. Nasce così il nomadismo, presente ancora oggi nel Sahel (i Tuareg sono un popolo nomade) e in vaste zone dell’Africa subsahariana. In questo periodo le armi sono molto semplici: giavellotto per l’offesa, scudo per la difesa.

Un primo cambiamento radicale si ha con l’Impero romano dove c’è una divaricazione fra popolo e specialisti della guerra, pagati per farla, e alla fine della carriera, se ci arrivano, i veterani vengono ricompensati con terre dal bassissimo rendimento. Le armi sono ancora piuttosto rudimentali, anche se qualche variazione c’è, l’utilizzo dei cavalli e conseguentemente della staffa. E le cose si fanno più chiare, la società viene divisa in oratores, laboratores e bellatores. Nascono i professionisti della guerra, i bellatores appunto nobili che hanno il dovere di difendere il territorio, in compenso non pagano le tasse reali. A Varennes en Argonne un contadino chiede a uno scudiero perché mai i nobili godano di questi privilegi e lo scudiero risponde: “perché in caso di guerra sono loro che devono esporre il loro corpo e la cavalcatura”.

Il periodo della cavalleria medievale segna l’apogeo della virtù guerriera ma, paradossalmente, è il periodo in cui ci sono meno morti, anche perché, a parte eccezioni (la notte di San Bartolomeo) non sono guerre ideologiche. Durante la rivoluzione francese Saint-Just, il giovane delfino di Robespierre, dirà: “Le guerre della libertà devono essere fatte con collera” e Carnot rincara la dose :“ la guerra è violenta di per sé. Bisogna condurla a oltranza o restarsene a casa. Il nostro scopo è lo sterminio, lo sterminio fino alle estreme conseguenze”. Le guerre cavalleresche causavano poche migliaia di morti (nella battaglia di Anghiari, di cui ci è rimasto uno stupendo abbozzo di Leonardo Da Vinci, ci fu, secondo alcuni storici un solo morto, secondo altri otto).

Nei primi anni del Quattrocento ci fu una innovazione decisiva che proietterà le sue ombre, sempre più fosche, fino ad arrivare ai tempi nostri: il fucile. I cavalieri si opposero a quest’arma, sembrando loro sleale che il combattimento potesse avvenire a distanza, ma naturalmente persero la partita (Il mestiere delle armi, Ermanno Olmi).

Un ulteriore passo in avanti, si fa per dire, ci fu con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche.  Napoleone, grazie alla coscrizione obbligatoria, portò sul campo di battaglia quattro milioni di uomini, inoltre non rispettava la ‘guerre en dentelles’ impostata dagli austriaci, per cui prima bisognava conquistare una piazza forte poi un’altra poi un’altra ancora per arrivare infine al punto cruciale. Il teppista corso non amava le buone maniere e puntava dritto allo scopo. Va ricordato che la democrazia fu portata negli altri paesi europei sulla punta delle baionette di Napoleone Bonaparte.

E arriviamo alla prima guerra mondiale, la penosa guerra di trincea, stramaledetta dai fanti contadini (I Malavoglia, Verga). Però non esisteva ancora l’aviazione, c’erano sì gli aerei usati per la ricognizione che si battevano a volte fra di loro creando alcune leggende di piloti invincibili, o quasi, quelli che avevano abbattuto più aerei nemici, come ‘Il Barone Rosso’ Manfred Albrecht von Richthofen o il nostro Francesco Baracca.

Un ulteriore salto ci fu nella seconda guerra mondiale. Gli aerei si trasformano in bombardieri. L’ordigno viene lanciato dall’alto, siamo ben lontani dalla lotta corpo a corpo delle guerre primitive o medievali, c’è, è vero, la contraerea perché ogni arma d’offesa crea un’arma di difesa, ma poteva ben poco come sa chi ha vissuto a Milano fra il 1942 e il 1945.

Nelle guerre dei giorni nostri l’uomo conta pochissimo (tranne nella guerra talebana in Afghanistan) dominano le tecnologie, arrivando fino ai droni senza pilota, manovrati, nel caso degli Stati Uniti, da Nellis nel Nevada. E il combattente che non combatte perde ogni legittimità, perché la speciale liceità di uccidere, esclusa nei tempi di pace, c’è se esiste la altrettale possibilità di essere uccisi, se uno solo può colpire e l’altro solo subire si esce dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio.

La tecnologia ha completamente sopraffatto l’uomo , come sui campi di calcio, dove l’arbitro, una volta padrone assoluto del campo (Boscov “Rigore c’è quando l’arbitro fischia”) è diventato un impiegato agli ordini del VAR o della VAR o come cavolo la si vuol chiamare.

Così di tappa in tappa, di tecnologia in tecnologia, siamo arrivati all’Atomica che può distruggere il mondo intero in pochi giorni. E lo chiamano progresso…

Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2022

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Non mi piace Zelensky, come, credo, a molti italiani che però non osano aprir bocca perché in questo frangente è sufficiente leggere Dostoevskij per essere sbattuti nel girone dei “filo putiniani”. Non amare Zelensky non significa essere pro Putin. Diceva Talleyrand: “Preferisco i delinquenti ai cretini, perché i primi ogni tanto si riposano”. Putin è riuscito ad essere l’uno e l’altro. Delinquente per l’aggressione all’Ucraina, che peraltro segue molte aggressioni occidentali condotte con pari violenza (Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia – dai 650 ai 750 mila morti solo in Iraq) cui va aggiunta l’aggressione della stessa Ucraina, a partire dal 2014, ai russi del Donbass con una ferocia non dissimile, anche se su un raggio più limitato e con mezzi meno potenti, da quella che mostra Putin, da parte non solo dei nazisti di Azovstal’ ma del regolare esercito ucraino. Delinquente per gli assassinii degli oppositori, metodo di cui il presidente russo fa un uso sistematico. Cretino perché è riuscito a ricompattare la Nato che di fatto non esisteva quasi più, Macron l’aveva definita “uno spettro” e lo stesso Trump “inutile”.

Io potrei essere considerato fazioso perché sono russo per parte di madre, Zinaide Tobiasz, ebrea come si evince dal nome,  e più invecchio più mi sento russo e meno italiano per quel “mondo di mezzo” che partendo da Roma ha invaso quasi l’intero Paese, ma, come si vede, a Putin non sconto nulla. Da qui sino alla fine dell’articolo parlerò quindi da russo.

Non mi piace Zelensky perché irride e umilia i nostri soldati definendoli “vigliacchi”. È certo che i ragazzi mandati con la forza al fronte da Putin siano totalmente demotivati. Però si deve ricordare che durante la seconda guerra mondiale abbiamo lasciato sul campo 20 milioni di morti per sconfiggere il nazismo (fra le vittime c’era l’intera mia famiglia materna, la sorella di mia madre, Anja, la madre di mia madre, tutti gli zii, i cugini, i nipoti). Che parte abbiano avuto gli ucraini  in quella tragica epopea che fu il secondo conflitto mondiale non so.

La guerra non l’hanno vinta solo gli americani ma anche gli inglesi, soprattutto gli inglesi, e i russi, contadini e kulaki, che difesero la propria terra con le unghie e con i denti, a maggior gloria di Stalin che li aveva sterminati a milioni.

Zelensky vuole “armi, armi e ancora armi” e ricatta i Paesi europei. È lui a stabilire l’agenda politica dell’Unione Europea. Per la verità l’Ue non ha nessun obbligo nei confronti dell’Ucraina che non fa parte né dell’Unione Europea né della Nato. L’errore degli americani è stato quello di stringere una corda al collo della Russia circondandola di paesi Nato o filo Nato. Ed è pericoloso mettere il nemico con le spalle al muro. Questo vale in tutti gli ambiti della vita. Per esempio nel pugilato, dove il più forte non si accontenta di un k.o. tecnico ma vuole il k.o. tout court e l’avversario, spinto dalla disperazione, scaglia il cosiddetto “colpo della domenica” e manda al tappeto quello che sembrava il sicuro vincitore.

Zelensky ha disposto per decreto legge che non si può fare alcuna pace con la Russia di Putin (Putin sembra, dico sembra, un po’ più possibilista). Evidentemente pensa, come pensano quasi tutti gli occidentali, che Putin sarà disarcionato dall’opposizione interna. Ma si sbaglia e si sbagliano. La Russia profonda, quella delle campagne, che noi chiamiamo “moscoia”, che conta all’incirca 40 milioni di abitanti, sta con Putin perché ha ridato dignità a un grande Paese che con Gorbaciov si era ridotto a fare il servo degli Stati Uniti (“Distruggi un Impero e andrai a San Remo”).

Nonostante l’omologazione portata dalla tecnologia e dall’adeguamento ai costumi e, possibilmente, ai consumi occidentali, il popolo russo esiste ancora con le sue grandi contraddizioni, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma una cosa il popolo russo (parlo del popolo non delle ‘élite’) non ha: il cinismo roman andreottiano.

Dal punto di vista culturale l’Ucraina ha dato poco all’Europa. C’è Gogol’ (Le anime morte), ma Gogol’ ha potuto essere tale solo all’interno della grande letteratura russa fondata, per così dire, da Puskin, purtroppo intraducibile in italiano come mi diceva mia madre, è come tradurre Dante in un’altra lingua, che diede l’abbrivio a Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Cechov (Il gabbiano, tra i molti altri).

Negli ultimi tempi gli Stati Uniti hanno dato segni di insofferenza per il protagonismo di Zelensky e soprattutto per alcune gravi iniziative prese in terra ucraina e anche russa senza preavvertire gli americani che pur hanno fornito all’Ucraina quasi 10 miliardi di aiuti in termini di armi.

Se perde il sostegno degli Stati Uniti in questa guerra, che poi in realtà è una guerra tra America e Russia, Zelensky è finito. Tornerà ad essere insignificante. Come l’Ucraina.

 

Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022