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“Europeismo” e “atlantismo” sono due termini che nell’uso comune sono considerati se non proprio coincidenti comunque strettissimamente legati fra di loro. Non si può essere europeisti senza essere anche atlantisti. Le cose non stanno così, tantomeno oggi.

Essere “europeisti” significa lavorare per un’Europa più unita dal punto di vista politico di quanto non lo sia attualmente, smussandone gli estremismi alla Orban, e sufficientemente armata (leggi l’Atomica per ora in dotazione ai soli francesi) per non dover dipendere da pelose protezioni altrui (leggi Stati Uniti o domani magari, a seconda di come evolvano gli equilibri geopolitici internazionali, Cina), economicamente autosufficiente nei limiti in cui questo è possibile in un mondo divenuto globale.

“Atlantismo” significa invece una dipendenza politica, militare, economica agli Stati Uniti e ai loro interessi. L’“atlantismo” ha avuto un significato fino al 1989 quando ci fu il collasso dell’Unione Sovietica. Gli americani erano infatti gli unici ad avere il deterrente militare necessario per scoraggiare l’“orso russo” da pericolose avventure in Europa Ovest (per la verità questo è ciò che si faceva credere alla gente, perché a Jalta nel 1945, quelli che usiamo chiamare “i grandi della Terra”, Roosevelt, Churchill, Stalin, avevano già deciso quelle che erano le rispettive zone di influenza e ci volle il coraggio di Tito per creare il gruppo dei “Paesi non allineati” che non intendevano dipendere né dall’Urss né dal cosiddetto Occidente, ma seguire i propri interessi che non avevano niente a che vedere con quelli dei due blocchi).

Dopo il collasso dell’Urss (che nel frattempo aveva provveduto a soffocare nel sangue le rivolte che si erano create nel blocco sovietico, quella di Imre Nagy del 1956, quella di Dubček nel 1968) la protezione degli Stati Uniti, che nel frattempo avevano utilizzato la vittoria militare nella seconda guerra mondiale per mettere l’Europa in stato di minorità, militare, politica, economica e alla fine anche culturale, non era più necessaria. Invece l’Europa si fece trascinare nella politica avventuristica americana, quella teorizzata dal primo Bush che ispirato dall’ideologo Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo) riteneva che il mondo fosse fatalmente destinato a “la Terra Promessa della Democrazia, della diffusione di una cultura generale del consumo, del capitalismo su base tecnologica”. Gli europei si fecero perciò trascinare in guerre ideologiche che erano totalmente in contrasto con i loro interessi. L’esempio più evidente e clamoroso è stato la guerra alla Serbia del 1999. In Serbia si era creato un contrasto fra lo Stato serbo e la regione del Kosovo, da sempre politicamente e giuridicamente serba (anzi il Kosovo era considerato, per ragioni storiche, la patria della “nazione serba”) e gli abitanti dello stesso Kosovo che per ragioni di natalità erano diventati la maggioranza. C’erano quindi due ragioni a confronto: quella della Serbia a conservare l’integrità del proprio territorio e quella degli indipendentisti albanesi, peraltro finanziati e armati dagli americani. E’ una situazione esattamente speculare a quella che c’è oggi fra Ucraina, Russia e Donbass. Le ragioni di uno Stato a conservare la propria integrità territoriale, cioè quella della Serbia, e l’indipendentismo kosovaro, così come oggi esiste il contrasto fra l’Ucraina e l’indipendentismo filo russo del Donbass. All’epoca gli americani decisero che la Serbia aveva torto e gli indipendentisti albanesi ragione e bombardarono per settantadue giorni una grande capitale europea come Belgrado. Alla luce di questo precedente è difficile condannare oggi Putin perché bombarda Kiev che, sia detto con il dovuto rispetto, in epoca moderna è un po’ meno importante di Belgrado (Kusturica e Bregovic). I serbi uscivano da un’altra tragica esperienza, quella della dissoluzione della Jugoslavia. In particolare in Bosnia dove il maresciallo Tito era riuscito a tenere miracolosamente in piedi tre etnie che si odiano da sempre: croati, serbi e musulmani. I serbi avevano vinto quella guerra un po’ perché, almeno a sentire chi se ne intende di queste cose, sono sul terreno (sul terreno non in una guerra di droni) i migliori combattenti del mondo (oggi forse lo sono gli Isis a cui non importa niente morire) un po’ perché appoggiati dalla madre patria serba, ma nella stessa situazione si trovavano i croati bosniaci appoggiati dalla Croazia. Nella posizione più debole si trovavano i musulmani che vivevano in Bosnia che non avevano un retroterra e avevano solo qualche appoggio dal lontano Iran. La guerra slava aveva avuto un precedente. Alla dissoluzione della Jugoslavia i croati e gli sloveni chiesero, in base al sacrosanto principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975, l’indipendenza appoggiati dalla Germania e dal Vaticano. E la ottennero. Ma una Bosnia multietnica, quella che aveva creato Tito, aveva senso all’interno di una Jugoslavia multietnica. Allora i serbi di Bosnia chiesero a loro volta l’indipendenza o l’annessione alla madre patria serba. Ma quello che era stato accordato a Croazia e Slovenia fu negato ai serbi i quali scesero in guerra e la vinsero. Ma intervennero gli americani che decisero che i serbi avevano torto e trasformarono i vincitori in vinti creando uno stato fantoccio qual è la Bosnia di oggi. Per cui io prevedo che questo stato posticcio che è oggi la Bosnia salterà. Così come non escludo che l’esercito di Belgrado aggredisca militarmente il Kosovo dove ai 50.000 serbi rimasti in quella regione (erano 360.000, la più grande “pulizia etnica” dei Balcani) è proibito anche di esser serbi e devono circolare con documenti kosovari. E non sarà loro difficile, ai serbi, sol che lo vogliano, spazzar via il contingente Nato (KFOR) costituito in maggioranza da italiani, noti combattenti.

Il lettore dirà che sto scrivendo follie. Ma erano considerate follie anche quelle che scrivevo quando affermavo che il più potente esercito del mondo sarebbe stato sconfitto in Afghanistan dagli straccioni talebani (“le sbobbe sul Mullah Omar” le chiamava il mio direttore di allora Antonio Padellaro). Abbiamo poi visto come è andata a finire. Facendo un passo indietro ricordo che una nota editorialista, che oggi lavora al Fatto, figlia di grande Autorità, appoggiò senza riserve l’aggressione americana alla Serbia. Poi si è pentita. Il discorso di questa signora era particolarmente ridicolo perché negava ai serbi il diritto di considerare il Kosovo la loro patria storica ed emotiva, mentre per anni ci aveva rotto i coglioni e continua a romperceli affermando che Israele ha diritto di stare dove sta per ragioni altrettanto storiche, o pseudostoriche, ed emotive.

L’aggressione di Putin all’Ucraina (paese di cui abbiamo scoperto in corso d’opera che era zeppo di armi americane, forse anche chimiche) è stata particolarmente stupida. Ha rafforzato una Nato che non esisteva più. Il presidente francese Emmanuel Macron aveva definito la Nato uno “spettro” e lo stesso Trump l’aveva dichiarata “inutile”. Qualche anno prima la preveggente Angela Merkel (quanto ci manca) aveva affermato testualmente: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Con la sua azione Putin ha riportato all’onor del mondo la Nato, che era in stato di rianimazione, quasi come un ammalato di Covid all’ultimo stadio, per cui oggi anche paesi da sempre neutrali, come la Svezia e la Finlandia, vogliono entrare in questa organizzazione.

Talleyrand diceva: “Preferisco i delinquenti ai cretini perché i primi ogni tanto si riposano”. Putin è riuscito a essere nello stesso tempo un delinquente e un cretino.

Penso che se al posto di Joe Biden, che fa fatica a stare in piedi, ci fosse stato il malfamato Donald Trump, la guerra ucraina non ci sarebbe mai stata o sarebbe durata pochi giorni. Perché il malfamato che è un imprenditore guarda ai quattrini (per questo ha ritirato il contingente yankee dall’Afghanistan e non ha fatto guerra alcuna) e non ha fumose ambizioni pseudo geopolitiche. Ciò che gli interessa è che i suoi cittadini abbiano una vita economicamente migliore, non di conquistare alla democrazia, col permesso di Fukuyama, il mondo intero.

Caro Max, in effetti con le “sbobbe sul Mullah Omar” in passato hai un po’ ecceduto, ma a te si perdona tutto. (M.Trav.)

Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2022

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Il prossimo novembre compirò settantanove anni. Sono nato dunque alla fine del 1943 e ho attraversato tutta la storia dell’Italia repubblicana.

I primi anni del Dopoguerra, fino al boom economico compreso, sono stati, com’è ovvio, i migliori. Uscivamo da una crisi materiale e morale devastante, dopo aver perso una guerra. Ma “krìsis” vuol dire anche opportunità e gli italiani, cui non è mai mancato lo spirito di iniziativa, la colsero. È quella che è stata chiamata “la ricostruzione”. L’imprenditoria italiana si mise a volare, grazie anche agli aiuti americani. Però non fu solo lo slancio della ricostruzione a rendere “belli” gli anni Cinquanta. Essere rimasti vivi dopo i bombardamenti Alleati e i rastrellamenti tedeschi bastava a renderci felici. La mia generazione, diciamo dei ragazzi degli anni Sessanta, ha avuto un rapporto molto diverso con gli americani di quella che ci aveva immediatamente preceduto. Per i nostri fratelli di dieci anni più vecchi gli americani erano un mito non tanto perché li avessero “liberati”, ma perché i soldati Usa davano loro caramelle e cioccolato e, a volte, delle ambitissime Am-lire che in quei giorni convulsi avevano sostituito la valuta nazionale. A noi invece gli americani erano indifferenti, non li amavamo ma nemmeno li odiavamo. Eravamo intrisi, almeno noi giovani borghesi, dell’esistenzialismo francese, di Camus, di Sartre, di Merleau-Ponty. Anche se l’esistenzialismo pendeva verso il comunismo sovietico, prima della clamorosa denuncia di Albert Camus dei lager che peraltro era stata preceduta, ma inascoltata da André Gide negli anni Trenta. Erano i famosi “compagni di strada”. L’esistenzialismo avrà un revival a metà degli anni Settanta col movimento hippy, con la libertà personale (“i capelloni”), sessuale e il femminismo non portato ancora agli estremismi del metoo.

Eravamo poveri negli anni del dopoguerra, nei Cinquanta, ma è nella povertà che si è solidali. I ricchi possono fare beneficienza, ma questa non è solidarietà è solo per salvarsi la coscienza.

Poi all’inizio degli anni Sessanta arrivò il “boom economico”. Lo affrontammo con una certa naïveté priva di volgarità. Era bello dopo aver stretto per anni la cinghia (la fame no, la fame vera io non l’ho mai vista in Italia) potersi permettere certi beni che avevamo considerato un lusso, come l’automobile. La Fiat aveva fatto il proprio lavoro e l’Italia cominciava a essere un paese moderno almeno dal punto di vista autostradale (“da casello a casello”, “c’ho giù la Giulia”, chi avendo la mia età non ricorda queste frasi o La voglia matta con un Ugo Tognazzi quarantenne, abbonato naturalmente al Touring Club, che perde la testa per l’implume Catherine Spaak?). Quest’incanto si chiude, volendogli dare una data, nel 1967. Quando i figli di una borghesia ipocrita proclamarono di voler rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Questi ragazzi andavano in giro urlando slogan raccapriccianti: “uccidere un fascista non è un reato”. Qualche ragazzo “fascista”, o presunto tale, è rimasto su una sedia a rotelle. Qualcun altro ci ha lasciato la vita. La Democrazia Cristiana, com’era suo costume, lasciò fare sperando, come sempre, che il fenomeno si sarebbe esaurito da solo. Da noi invece, a differenza che in Francia o in Germania, è durato 10 anni, facendo il maggior numero di danni possibile (assassinio di Walter Tobagi e di Casalegno). Del resto la DC aveva capito perfettamente che quei giovani pseudorivoluzionari erano politicamente innocui. L’aspirazione vera dei loro leader era conquistare le prime pagine del Corriere e possibilmente la direzione. Come poi è puntualmente avvenuto. I soli rispettabili, a parer mio, di quella generazione sono stati i primi “brigatisti rossi” (Curcio and company) che credevano a quello che facevano e che mettevano a rischio la pelle altrui a prezzo però anche della propria. Ma cavalcavano una ideologia morente, il marxismo-leninismo, che si sarebbe spenta pochi anni dopo col collasso dell’URSS.

Seguirono poi gli anni Ottanta. Gli anni della “Milano da bere”. A parte il fatto che se la bevevano solo i socialisti, è in quegli anni che ha inizio la corruzione sistematica. Non c’era appalto senza tangente politica. I più arroganti in questa spoliazione, materiale e morale, della società furono i socialisti. Il socialismo è la traduzione laica del pensiero cristiano chinato sugli umiliati e offesi. Ed è ben vero che negli anni Ottanta costoro non potevano più essere identificati con la classe operaia che stava disfacendosi a favore del terziario e dell’economia finanziaria, ma non potevano nemmeno essere identificati con i visagist, i coiffeur, gli stilisti, le dame di corte (“la congrega dei nani e delle ballerine” come la chiamò il compagno Rino Formica). La corruzione riguardava tutti i partiti ma i socialisti, a differenza della più prudente DC e del maggiormente controllato PCI, la agirono con particolare violenza e volgarità arrivando a “torre le donne altrui” per piazzarle in questo o quel programma televisivo. Fu anche per questo che quando arrivò la stagione di Mani pulite, nei primi anni Novanta, i socialisti furono il principale bersaglio di una collera popolare che arrivò ai limiti, sempre inaccettabili, del linciaggio.

Mani pulite veniva da lontano. Era una delle conseguenze del collasso dell’Unione Sovietica del 1989. Scomparso per il momento l’“orso russo”, l’incubo di sempre, come vediamo ancor oggi, del mondo occidentale, non era più necessario appoggiare quello che in Italia era il suo contrapposto storico, la DC. Il “turatevi il naso” di Montanelli non valeva più. Quei voti si dispersero in varie direzioni, ma si concentrarono soprattutto sulla Lega di Umberto Bossi, un movimento anti-partitocratico di nuovo conio che sulle prime era stato preso poco sul serio, ma che adesso al Nord prendeva il 40% dei voti. Dopo una quindicina d’anni di “compromesso storico” che significava che il Partito comunista era stato associato al potere, nasceva ora in Italia una vera forza di opposizione. Ciò liberò le mani ai Magistrati che prima se osavano indagare sulla corruzione della classe dirigente venivano spediti a un semiconfino, cioè in Procure marginali. E ci fu quindi la sequela di arresti di uomini politici e di imprenditori i quali, gli imprenditori intendo, erano spesso i primi ad autodenunciarsi perché il taglieggiamento pesava, oltre che sui cittadini, anche sulle loro spalle. Del resto è proprio negli anni precedenti Mani pulite che, in virtù del voto di scambio, abbiamo accumulato quell’enorme debito pubblico che ancora oggi ci pesa addosso rendendo difficili i nostri rapporti con l’Ue.

Mani pulite è stato un possibile momento di svolta della vita italiana. Dopo anni di impunità anche la classe dirigente, politica e imprenditoriale, veniva richiamata al rispetto di quelle leggi che tutti i cittadini sono chiamati ad osservare. Mani pulite non fu solo una rivolta popolare contro il prepotere dei partiti, ebbe anche un’origine economica perché il Paese non poteva più sopportare il peso di quel finanziamento illecito di cui i rivoli, diciamo pure i fiumi, finivano molto spesso nelle tasche personali dei corruttori. Sulle prime la stampa nazionale appoggiò con entusiasmo, finanche il sospetto, l’opera dei Magistrati, soprattutto quelli milanesi, perché aveva la coda di paglia essendo stata compartecipe dell’ancien regime lucrandone i relativi vantaggi. In un famoso discorso alla Camera del 21 dicembre 1994, sfiduciando e facendo cadere il governo Berlusconi con cui si era provvisoriamente alleato, Umberto Bossi concludeva il suo intervento con queste parole: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. Si illudeva. A cadere sarebbe stato lui con tutto l’impianto di Mani pulite.

Volendo sintetizzare molto i protagonisti di Mani pulite furono quattro: Antonio Di Pietro, come punta di lancia di quelle inchieste, Umberto Bossi, il direttore de L’Indipendente Vittorio Feltri che col suo giornale, in modo spesso sgangherato ed eccessivamente violento, appoggiò quelle inchieste, e Gianfranco Funari che rappresentava la voce popolare di quel momento.

La reazione a questo “sgarro” alla partitocrazia non si fece attendere. Bossi fu inglobato, Feltri comprato, Di Pietro infamato in tutti i modi, Gianfranco Funari emarginato.

Per sapere quello che è successo dopo non è necessario avere settantanove anni. Delegittimata la Magistratura la corruzione della classe dirigente è scesa giù per li rami coinvolgendo anche i cittadini e la stessa Magistratura all’interno della quale, salvo lodevoli e isolate eccezioni, si svolgono lotte di potere non diverse da quelle che riguardano i partiti.

Il 25 settembre ci saranno le elezioni. Al nuovo Presidente del Consiglio, probabilmente Giorgia Meloni, spetterà il difficile compito di ridare agli italiani una fiducia nelle Istituzioni che, come dimostra la montante astensione, hanno da tempo abbondantemente perduto.

Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2022

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Curzio Malaparte è stato un avventuriero. Nella vita e nel giornalismo. A sedici anni, quando frequentava ancora il Liceo Cicognini di Prato, dove era passato anche Gabriele D’Annunzio, andò a combattere come volontario nelle Ardenne, prima in una pattuglia di anarchici e poi nel Regio Esercito dove verrà decorato con una medaglia di bronzo al valore militare. Sarà nelle Ardenne che si intossicherà di quell’iprite, l’arma chimica dei tempi, che molti anni dopo gli provocherà quel cancro (“lo stramaledetto” come lo chiamava lui) ai polmoni che sarà causa della sua morte a 59 anni.

Malaparte agli inizi della sua carriera giornalistica sarà fascista (“Sorge il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo” Don Camaleo, 1928). Del resto non c’erano allora molte alternative per un giovane di belle speranze e grandi ambizioni. Ma abbandona presto l’atmosfera provinciale di “strapaese” e assume nei confronti del fascismo una posizione ambivalente, per un verso ne fa parte, per un altro non risparmia critiche feroci, alla sua maniera sbarazzina e sempre molto personale, al regime, contando anche sulla stima personale di Mussolini. Nel 1929, a soli 31 anni, diventa direttore de La Stampa di Torino. È il più giovane direttore italiano di un grande giornale. Vi fa collaborare la creme degli intellettuali dell’epoca, da Mino Maccari, che è il suo vice, a Corrado Alvaro. Compie un viaggio in Unione Sovietica dove incontra, fra gli altri, Stalin. Ma è affascinato soprattutto da Trockij (Malaparte conserverà sempre il mito soreliano dell’azione) più che da Lenin che considera solo un buon burocrate (Lenin bonhomme). Trockij lo definirà, con un misto di ammirazione e di sospetto, “l’enfant terrible” della cultura italiana. Mentre Piero Gobetti lo chiama “la migliore penna del fascismo”. Ma soprattutto sulla Stampa condurrà una feroce polemica contro il “sistema Bedaux” che è qualcosa di peggio del fordismo. Agnelli sopporta, ma decide che è venuto il momento di liberarsi di Malaparte, troppo ingovernabile. Il pretesto è risibile. La Stampa aveva pubblicato fra i nomi degli intervenuti al tradizionale omaggio di Capodanno al Re anche quello del conte della Trinità, morto da vari mesi. Agnelli chiese il licenziamento immediato di Maccari, il redattore capo. Malaparte difese Maccari e fu cacciato. L’addio alla Stampa fu in perfetto stile malapartiano. Curzio radunò tutta la redazione, fece portare due fiaschi di vino, mise Maccari, che era piccolo di statura, in piedi sulla scrivania e concluse il suo discorsetto così: “Me ne vado dalla Stampa senza rimpianto. Del resto, credetemi, è meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da Agnelli”.

Accusato di attività sovversive fu condannato a cinque anni di confino nell’isola di Lipari. Da lì, per rassicurare la madre, la bella e dolce lombarda Edda Perelli, così diversa dal padre tedesco, Erwin Suckert, che non crederà mai a questo suo figliolo così stravagante e irregolare anche quando era al massimo della sua gloria (“Io non capisco perché tutta questa gente sta a imitare Curtino. È un imbecille.”), mandava delle sue fotografie a torso nudo mentre sollevava un’enorme pietra. Era pietra pomice. Il confino a Lipari fu poi convertito in una sorta di “arresti domiciliari” al Forte dei Marmi. Sulla spiaggia del Forte incontrò Virginia Agnelli, vedova di Edoardo, e fra i due ebbe inizio una relazione. Susanna Agnelli, che era allora adolescente e che non aveva molti motivi per incoraggiare questa relazione della madre, mi ha detto: “Malaparte era un uomo estremamente affascinante e bellissimo”.  Del resto nella sua vita Malaparte ha affascinato moltissima gente, anche personaggi che gli erano politicamente e umanamente lontanissimi, come Togliatti e Secchia, e non certo per la sua bellezza ma per la sua straordinaria conversazione e la passione che metteva in qualsiasi cosa diceva e faceva. Altri invece lo hanno detestato con pari veemenza. Lui stesso, una volta, disse arrogantemente: “Non mi hanno mai perdonato di essere venti centimetri più alto della media degli scrittori italiani”. Si azzuffò insomma con mezza Italia, e con l’altra mezza fece l’amore.

Malaparte è un personaggio unico nella storia culturale e politica italiana del Novecento. Non c’è suo scritto, anche minore, che non abbia suscitato furibonde polemiche. Ma lo scandalo maggiore ci fu dopo la pubblicazione de La pelle, un best-seller internazionale, dove Malaparte, attraverso Napoli, descriveva con crudezza spietata l’Italia che aveva svenduto se stessa, a cominciare dalle sue ragazze (“la vergine”), agli Alleati americani. Il libro fu considerato un oltraggio alla dignità nazionale e quasi tutti i giornali italiani, soprattutto quelli conservatori e di destra, presero parte al linciaggio del blasfemo. Vi partecipò anche il Corriere lombardo, giornale diretto da mio padre, Benso Fini. E Malaparte fece avere a mio padre una copia de La pelle con una dedica molto malapartiana, che conservo gelosamente, che diceva così: “A Benso Fini che lascia pubblicare sul suo giornale, contro di me, certe prose vili e stupide che fanno disonore a chi le firma. Molto cordialmente Curzio Malaparte”. Del resto lo stesso libro porta in testa una dedica molto polemica che recita: “All’affettuosa memoria del Colonnello Henry H. Cumming, dell’Università della Virginia, e di tutti i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa”.

Riletti ad anni di distanza sia La pelle che Kaputt rivelano qualche limite. La ricerca ossessiva del coup de théatre. Del resto è noto che Malaparte inventava molto. Anche se, come tutti i grandi giornalisti, sapeva inventar bene. Ed Ettore Della Giovanna ha detto: “Rimane il fatto che lui l’ha scritto ed è diventato vero”. Malaparte sapeva cogliere l’insieme da un dettaglio. Mi ricordo un reportage dalla Svezia dove partendo da una banale questione di sali da bagno smaschera l’ipocrisia nordica che in materia sessuale pareva così libera e liberata. Lo stesso vale per certi reportage dal Cile che fotografano la realtà sudamericana di oggi.

È bene ricordare che Malaparte non è un romanziere. La pelle e Kaputt sono dei reportage solo un po’ più lunghi di quelli che scriveva abitualmente sui quotidiani. Quando tenta la via del romanzo, non sulla carta stampata ma nel cinema (Il Cristo proibito), la sua enfasi diventa insopportabile. Credo che il miglior Malaparte si trovi in altri saggi, meno celebrati, come La rivolta dei santi maledetti dove la responsabilità di Caporetto è addebitata non ai fanti contadini, stufi di farsi ammazzare in omaggio alla teoria omicida-suicida dell’“attacco frontale” del generale Cadorna, ma alla vigliaccheria dei borghesi delle retrovie che, in un fuggifuggi di suppellettili, imprecano contro i fanti che non si vogliono più immolare per loro. Ma questo momento centrale de La rivolta dei santi maledetti è preceduto da pagine in cui emerge la profonda conoscenza di Malaparte delle diverse culture europee. Altro libro importante è Tecnica del colpo di Stato del 1931 dove Malaparte intuisce, in largo anticipo sui tempi, che le rivoluzioni non si vincono spiegando grandi forze materiali ma impadronendosi dei gangli vitali di un sistema, oggi diremmo la Tv e l’informazione, come ci racconta la vicenda ucraina.

Inoltre Malaparte ha una cultura figurativa che non ho mai trovato nei giornalisti di ieri né tantomeno in quelli di oggi. Si veda la “Crocifissione” di Matthias Grünewald conservata nel Musée d'Unterlinden a Colmar dove Malaparte paragona quel Cristo “putrefatto” alla marcia Europa dei suoi tempi. E forse di oggi.

Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2022