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All’inizio della pandemia di Covid e delle misure che si stavano adottando per contrastarla, la Ministra svedese della Salute Lena Hallengren disse: “I conti si faranno alla fine e anche qualche anno dopo”. La Svezia non ha fatto lockdown o lo ha fatto per brevi periodi e in modo molto blando. La Svizzera non lo ha fatto del tutto. I decessi in Svezia per Covid sono stati, al momento, 20.225 su una popolazione di circa 10 milioni. In Italia sono stati 177.000 su una popolazione di 60 milioni. Quindi bisogna moltiplicare per sei il dato svedese che da una cifra di circa 120.000, inferiore di un terzo rispetto all’Italia. Si può obiettare che la Svezia ha pochissime grandi città, Stoccolma, Goteborg, Malmo, e larghissimi spazi e questo ovviamente aiuta. Ma questo discorso non vale per la Svizzera dove gli abitanti, a differenza della Svezia,  sono raggruppati in spazi limitati: i deceduti per Covid sono stati 14.000 su una popolazione di 8 milioni e mezzo di abitanti, quindi lo 0,16% della popolazione. In Italia i deceduti per Covid sono lo 0,29%.

C’è un altro dato di un certo interesse. Federico Rampini, della cui serietà non si può dubitare, ha scritto sul Corriere che in Africa i morti per Covid sono stati, in percentuale, molti meno che in Europa. Prendiamo la Nigeria: i deceduti per Covid sono stati 3.155 su una popolazione di circa 210 milioni di abitanti. E la profilassi in Nigeria, come in quasi tutti gli altri paesi africani, è stata pressoché inesistente. Mi si è obiettato che i nigeriani sono giovani e quindi meno fragili. Non è vero. Non so perché siano meno “fragili”, magari per un DNA e una struttura antropologica diversa, però l’età media dei nigeriani è di 51 anni, quella italiana è di 45 anni.

Non ho nulla da obiettare su alcune misure “minori” come le mascherine e la sanificazione, fastidiose ma certamente sopportabili. Il problema è il lockdown che è stato devastante soprattutto per quei “fragili” (come sento la parola “fragile” diretta a me metto mano alla pistola) che si voleva difendere dal contagio. Per due anni non abbiamo quasi più potuto muoverci di casa e quindi fare movimento che agli anziani è indispensabile. La scarsissima mobilità ha portato all’obesità che potremmo definire “la madre di tutte le malattie” o quasi: patologie cardiovascolari, diabete, disturbi del sonno, cancro e osteoartrosi. Inoltre agli anziani è stato impedito, per un certo periodo, la frequentazione dei figli e dei nipoti e si sono visti tagliare tutti i contatti sociali. Sono rimasti soli. E la solitudine, come si sa, uccide più del fumo.

 Inoltre la concentrazione della medicina sul Covid ha fatto si che le diagnosi per tumore siano scese del 53% e si sa quanto sia importante per questa malattia una diagnosi precoce.

Non sono né “negazionista” né “complottista”. La malattia c’è stata con effetti spesso letali e non credo proprio che Stati Uniti, Cina e i paesi europei si siano messi d’accordo per favorire le loro case farmaceutiche, che comunque su questa pandemia hanno fatto i miliardi.

C’è anche da dire che la medicina ha registrato una penosa sconfitta (constatazione che piacerebbe al Rousseau del Discorso sulle scienze e sulle arti). Lasciamo pur perdere, per carità di patria, l’incredibile superficialità dei vari epidemiologi e virologi che si contraddicevano l’un l’altro a ogni pie’ sospinto aumentando la confusione e anche la paura nella popolazione. Il fatto è che il Covid19 non veniva da Marte o era una malattia del tutto sconosciuta. Appartiene al ceppo influenzale, studiatissimo e conosciutissimo, e quindi si potevano approntare, molto prima di quanto è stato fatto, vaccini appropriati. A parte che un vaccino che ha durata di quattro mesi non è un vaccino se deve essere ripetuto periodicamente. Per la poliomielite, pressoché sconosciuta fino alla fine dell’Ottocento, ci sono voluti dieci anni per sconfiggerla definitivamente, prima col vaccino di Salk, che però non dava una copertura totale, poi con quello di Sabin.

Resto convinto, come ho già scritto su questo giornale, che la vera pandemia è stata una pandemia di panico, dovuta al fatto che nell’età del benessere e della ricerca della felicità, la morte, quella biologica intendo, non è più accettata.

Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2022

 

Avvertenza per i lettori del Fatto e di questo blog

Io, per le note condizioni, sono costretto a dettare i pezzi e perciò non ho un controllo 'visivo' sul testo e quindi, anche se poi li leggo e li rileggo con la mia assistente, qualche errore ci può sempre stare e questo mi dispiace molto perché io sono pur sempre un Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura.

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“Là dove c'era l'erba ora c'è
Una città…

Ma come fai a non capire
È una fortuna, per voi che restate
A piedi nudi a giocare nei prati
Mentre là in centro io respiro il cemento…

Torna e non trova gli amici che aveva
Solo case su case
Catrame e cemento

Là dove c'era l'erba ora c'è
Una città…

Perché continuano
A costruire, le case
E non lasciano l'erba

Eh no
Se andiamo avanti così, chissà
Come si farà
Chissà
Chissà
Come si farà”

(Adriano Celentano Il ragazzo della via Gluck)

Questa famosa canzone di Celentano è del 1966 e non è interessante per il tema ambientale, che fra gli intellettuali più avvertiti era all’ordine del giorno già negli anni Trenta, ma che negli anni Ottanta si estenderà al sentire anche del la ‘gente comune’ con la formazione di gruppi ecologisti (Alexander Langer). Del resto nel 1972 il Club di Roma diretto dall'italiano Aurelio Peccei, ma i cui componenti erano scienziati del prestigioso MIT, pubblicherà un libro fondamentale “I limiti dello sviluppo”  in cui prevedevano che alcune essenziali fonti di energia, come il petrolio ma non solo, si sarebbero esaurite intorno al Duemila. Purtroppo si sbagliavano perché queste fonti resistono ancora adesso. Comunque quelli del club di Roma si rendevano conto che non può esistere uno Sviluppo illimitato, senza fine. Se ci avessero azzeccato saremmo stati costretti a limitare i nostri consumi e con essi la produzione. Un occasione si è presentata ai nostri giorni con il Covid e il lockdown. Costretti per mesi in casa, ridotti a una vita da trappisti, avremmo dovuto capire che di molti beni potevamo fare a meno.

Celentano aveva intuito, perché questa era stata la sua storia, che l’urbanizzazione distrugge la vita di una comunità.

E con l’urbanizzazione si torna al tema ambientale ed ecologico e quindi anche al recente disastro idrogeologico delle Marche. Scrive Fabio Canessa, uno di quegli intellettuali di provincia che sono l’autentico nerbo della cultura del nostro paese:” È significativo che il nubifragio marchigiano non abbia fatto danni nei vecchi borghi storici costruiti secoli fa e abbia invece distrutto, uccidendo 13 persone, i paesi più nuovi e cementificati, nei quali l’acqua non poteva essere assorbita dal terreno.” (Università di Aristan)

Senza una campagna attorno, “l’erba” come la chiama Celentano nella sua canzone, l’acqua scivolava con grande facilità come su un tappeto da biliardo.

Quelli del MIT, degli scienziati, non degli umanisti, concludevano così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.

“Se andiamo avanti così chissà come si farà, chissà come si fara.”

Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2022

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Alcuni lettori del Fatto e anche qualche mio fan, per così dire, personale mi chiedono come mai nel mezzo di una battaglia elettorale e di elezioni che si pretendono decisive per la democrazia e il suo stesso futuro io mi occupi invece di Afghanistan. Potrei rispondere, per dirla con Battiato, che “mi butta giù” dovermi occupare di personaggi come Carlo Calenda, Matteo Renzi, Matteo Salvini e persino di Silvio Berlusconi, un “delinquente naturale” come l’ha definito la nostra Magistratura condannandolo per una colossale evasione fiscale, una carriera malavitosa cui va aggiunta una ripugnante truffa ai danni di un’orfana minorenne di entrambi i genitori e altre imprese di questo tipo da cui s’è salvato godendo di nove prescrizioni. E che continua ad essere ancora oggi, a 85 anni, un perno della politica italiana.  Un fenomeno che non avrebbe diritto di cittadinanza in nessun altro Paese europeo. Ma sarebbe ingiusto perché in questa mischia furibonda sono coinvolte anche delle persone perbene e con tutti i titoli per governare il nostro Paese. 

Il motivo è un altro: non credo alla democrazia rappresentativa (Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau.

La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio. Scrive Albert  Soboul, uno dei maggiori storici degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione Francese: “l’assemblea votava le spese e procedeva alle nomine; decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti. Riscuoteva ‘au pied de la taille’ (cioè proporzionalmente) i canoni che alimentavano il bilancio comunale; poteva contrarre debiti ed iniziare processi; nominava, oltre i sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani di messi, gli assessori e i riscossori di taglia”(La società francese nella seconda metà del Settecento). Un’altra importante attribuzione l’assemblea l’aveva in materia di tasse reali, era infatti l’assemblea che ne fissava la ripartizione all’interno della comunità e la riscossione. Rigorose  e puntigliose erano anche le forme di partecipazione.  L’assemblea era convocata, almeno alla vigilia del giorno stabilito, dal sergente di giustizia o dal guardiano delle messi. Andava di porta in porta, di uscio in uscio. L’assemblea era anche annunciata alla predica della messa parrocchiale. In tutti i casi il tamburo e la campana chiamavano gli abitanti all’assemblea, che un sergente bandiva ancora, ad alta voce, all’uscita della messa o dei vespri. Sotto la presidenza del giudice locale, del sindaco o di un esperto che esponeva la questione all’ordine del giorno, l’assemblea deliberava, poi votava ad alta voce. L’assiduità era un dovere.

Certamente, se siamo in Francia, gli abitanti del villaggio non partecipavano alle decisioni che si prendevano a Versailles, ma le decisioni che si prendevamo a Versailles ci mettevano anni prima di arrivare al villaggio e nel frattempo i contadini decidevano per conto loro, per cui si può dire che l’assemblea del villaggio godeva di un’ampissima, e quasi totale, autonomia.

 Questo sistema, che era in uso non solo in Francia ma in buona parte dell’ Europa, e che aveva sempre funzionato benissimo, si incrinerà sotto la spinta degli interessi e anche della smania regolatrice della borghesia (smania che ci affligge ancor più oggi dove lo Stato è presente in quasi tutte le nostre attività).  Due anni prima della Rivoluzione francese un decreto Reale stabilisce che non è più l’assemblea del villaggio a decidere autonomamente ma elegge da 6 a 9 membri che prendono provvedimenti in suo nome. Era nata la tragedia della democrazia rappresentativa.

Il Fatto Quotidiano, 24 Settembre 2022