0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Impegnati e implicati come siamo nella vicenda russoucraina, per parlar della quale bisogna premettere obbligatoriamente che c’è “un aggressore e un aggredito”, anche se quando gli attaccanti erano gli occidentali su questo sottile dettaglio si sorvolava, e ora anche sui pericolosi dispetti della Lituania alla Russia per cui Vilnius impedisce il passaggio di merci verso l’enclave russa di Kaliningrad che non ha continuità territoriale con la madre patria, concentrati solo sull’Ucraina, quest’ambiguo Paese di cui, in corso d’opera, si è scoperto che era zeppo di armi americane molto prima dell’invasione russa, come se l’Ucraina fosse il centro dell’universo e il resto del mondo, che pur a nostro dispetto esiste, non contasse nulla, i giornali italiani (a eccezione del Fatto che ne ha dato notizia nel bel servizio di Roberta Zunini) hanno quasi ignorato un importante fatto avvenuto in America latina che potrebbe cambiare il destino di quel subcontinente. Il fatto è questo. A presidente della Colombia è stato eletto Gustavo Petro, ex guerrigliero da anni convertitosi alla democrazia. Un uomo di sinistra che ha chiarito subito le cose: ampliamento dei programmi sociali, la fine dell’esplorazione di petrolio e gas in mare e sulla terraferma, molti investimenti in ambito agricolo e, per arrivare a tutto questo, una forte tassazione dei soggetti più ricchi. Ma forse, più importante della vittoria di Petro, è la sconfitta del suo avversario, l’imprenditore Rodolfo Hernandez che rappresenta le 4000 famiglie più ricche del Paese che ne detengono la gran parte del patrimonio e sono spesso intrecciate con il narcotraffico. Insomma la Colombia di oggi si trova nella stessa situazione del Venezuela pre Chavez e pre Maduro (di cui bisogna obbligatoriamente dire che è un “dittatore” anche se non lo è affatto visto che il suo principale avversario politico, il “giovane e bell’ingegnere” Juan Guaidò che, tra le altre cose, sostenuto dagli Stati Uniti, ha tentato un colpo di Stato, è felicemente a piede libero). In quel Venezuela poche migliaia di famiglie governavano, economicamente e politicamente, il Paese e tutti gli altri erano in povertà.

La Colombia è un Paese determinante in America latina. Per ragioni geografiche e geopolitiche occupando col suo milione e 142 mila km2  una posizione strategica, centrale fra il Nord e il Sud del subcontinente sudamericano. Per ragioni storiche e politiche perché in Colombia è nato il “socialismo bolivariano”, che è la forma che il socialismo prende in America latina, così chiamato dal nome del suo fondatore Simon Bolivar che, nonostante il colonialismo, non aveva un atteggiamento ostile nei confronti degli europei o quantomeno di noi italiani, visto che dette a quella terra il nome di Colombia in onore di Cristoforo Colombo (e così i cultori della cancel culture sono serviti). Vedremo se Gustavo Petro riuscirà a realizzare i suoi programmi, in tutto o in parte, e soprattutto se non verrà fatto fuori al più presto, manu militari, perché il “socialismo bolivariano” è visto come fumo negli occhi dalla grande Potenza, che tutto veglia e tutto sorveglia in qualsiasi area del mondo, vale a dire gli Stati Uniti.

Intanto in Francia c’è stata una forte affermazione della sinistra di Melénchon. Insomma il socialismo sembra dar segni di risveglio non solo in America latina ma anche in qualche paese d’Europa. Ma non in Italia dove dopo i latrocini del trio Craxi, Martelli, De Michelis e di decine di loro accoliti, un Partito Socialista propriamente detto non esiste più o rispunta fuori, qua e là, in diversa forma, con percentuali da albumina. A inserire qualche elemento sociale nella nostra legislazione ci han provato i Cinquestelle, ma non è certamente un caso che, anche per loro gravi errori, oggi siano ridotti sul pavé con grande giubilo dei partiti turbocapitalisti vale a dire, salvo qualche piccola eccezione, tutti gli altri.

Il Fatto Quotidiano,  25 giugno 2022

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

“Avverto la Grecia di evitare sogni, atti e dichiarazioni che provochino rimpianti”. Di chi sono queste minacciose parole pronunciate in tono mafioso? Di Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco. La materia del contendere sono le isole del Mar Egeo. Che cosa abbia da pretendere Erdogan dalla Grecia è difficile capire. Secondo il trattato di Losanna del 1923 le isole del Mar Egeo appartengono alla Grecia, la Turchia ha sovranità solo su due piccole isole, poco più che degli scogli, Imbro e Tenedo. Ma è evidente che Erdogan, approfittando della situazione che lo vede protagonista sullo scacchiere internazionale, vuole impadronirsi se non proprio delle isole greche dei diritti di sfruttamento del sottosuolo marino e dei diritti di pesca. Del resto la Grecia, pur appartenendo all’Unione Europea dal 1981, è sempre stata considerata la Cenerentola d’Europa. La Turchia gode invece dell’appoggio incondizionato degli Stati Uniti per la sua posizione strategica: piatta com’è, è una portaerei naturale e non a caso gli Usa vi mantengono a Incirlik la loro più importante base aerea piazzata tra Oriente e Occidente. Si potrebbe anche dire che tutte le guerre balcaniche, compresa quella alla Serbia ortodossa del 1999, sono state fatte per costituire una sorta di corridoio di islamismo non radicale (Albania + Bosnia + Kosovo) a favore della Turchia. Un calcolo comunque infame ma che, come quasi sempre per le iniziative americane, si è rivelato anche sbagliato. Perché la Turchia degli anni Novanta non era la Turchia di oggi, quella di Erdogan.

Sono stato parecchie volte in Turchia negli anni Settanta. Era un paese molto civile e accogliente come lo era, lo dico per incidens, la Cipro turca, a capitale Famagosta, molto più bella e affascinante, rispetto a quella greca. Si respirava ancora l’aria della Turchia laica fondata da Kemal Ataturk.

Ma la Turchia di Erdogan è tutt’altra cosa. Faceva notare il lettore del Fatto (20/06) Anilo Castellarin: “Putin viene etichettato giustamente come un criminale di guerra, un assassino, un nuovo Hitler, un pazzo, un bandito e tanti altri epiteti probabilmente tutti meritati. Mentre con Erdogan i media e gli uomini delle Istituzioni occidentali usano aggettivi diversi. Erdogan è chiamato benevolmente “sultano”, … Eppure il capo turco non è diverso da Putin. Sta massacrando la popolazione curda. Fa incarcerare gli avversari politici. Chiude i media che gli sono contro. Fa bombardare città in Stati sovrani come l’Iraq e la Siria, uccidendo civili”. Il lettore sottolinea anche come gli “sbandierati valori occidentali” siano accantonati ‘momentaneamente’ da Joe Biden e da tutti i Biden dell’Occidente. E’ la ‘real politik’, bellezza. Del resto lo stesso Biden non ha in programma un incontro col principe saudita Salman che, oltre che essere un noto difensore dei diritti delle donne (un vero “principe rinascimentale” a detta di Matteo Renzi), è il responsabile dell’assassinio del giornalista Khashoggi?

Con la ‘real politik’ si può andare molto lontano. “Real politik” potrebbe essere considerata anche quella di Adolf Hitler, finché non perde la partita. Ma lasciando perdere i criminali di ieri e tornando a quelli di oggi adesso il guerrafondaio Erdogan si permette di mettere il veto all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia, due autentiche liberal democrazie e fra i Paesi più pacifici del mondo. Quale pretesto è addotto dal “sultano”? Che i due Paesi scandinavi ospitano dei curdi. Erdogan non si accontenterebbe dell’estradizione dei guerriglieri del Pkk, ma vorrebbe anche quella dei curdi della diaspora, che col Pkk hanno poco o nulla a che fare, che si sono rifugiati in Svezia e in Finlandia per sfuggire alle sue violenze. Se i Paesi occidentali avessero davvero a cuore i “valori occidentali” si opporrebbero alla strafottenza criminale di Erdogan, invece la subiscono. Per “real politik”, naturalmente. Ma allora verrebbe da chiedersi, come fa il lettore Anilo Castellarin, che cosa siano mai questi “valori occidentali” e se, al di là delle magniloquenti dichiarazioni, siano mai esistiti.

Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2022

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Nel docufilm, Il fronte interno, realizzato da Paola Piacenza, Domenico Quirico, importante inviato de La Stampa, afferma tra l’altro: “I poveri nel Medioevo erano visibili e mostrati orgogliosamente come i prediletti da Dio. Erano i ricchi a dover fare fatica, poverini, a passare dalla cruna dell’ago. Oggi invece i poveri si nascondono e sono nascosti, ignorati e censurati. Colpevolizzati, perché non sono stati capaci di obbedire alla prima delle regole sociali, quella che impone di raggiungere il successo”.

Anche se la cosa può apparire sorprendente aggiungerei che i poveri nel Medioevo europeo non esistevano. I mendichi erano l’un percento della popolazione europea ed era mendico chi voleva esserlo, un po’ come i nostri clochard che desiderano restar tali. Secondo la mentalità medievale, come ricorda anche Quirico, avevano, per misteriosi motivi, un rapporto privilegiato con Dio, lo stesso valeva per i pazzi. Insomma i nostri progenitori sapevano metabolizzare, in modo sapiente, anche le diversità più estreme senza dover ricorrere alla legge Basaglia.

Sarà il protestantesimo a introdurre in quella società statica un dinamismo che porterà all’avvento del mondo moderno. Il che è abbastanza strano perché secondo la teoria della predestinazione di Calvino gli uomini sono baciati in fronte o dannati da Dio dalla nascita, teoria che sembrerebbe aprire le porte a una società fatalista, statica, immobile. Che bisogno ho di darmi da fare se sono beato o dannato fin dall’inizio? Che speranze di riscatto ha il povero se, sempre secondo la teoria di Calvino, è un reietto, colpevole di esserlo, che va disprezzato, se non addirittura odiato come “un nemico di Dio che porta su di sé i segni della dannazione eterna” (Max Weber)? L’escamotage per uscire da questa situazione, come chiarisce Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è il seguente. Come faccio a sapere se sono o no un prediletto da Dio? Elementare Watson. È la ricchezza, conquistata con il lavoro, che mi dà questa certezza. Scrive Weber: “ La valutazione religiosa del lavoro professionale laico, indefesso, continuo, sistematico, come il più alto mezzo ascetico, e al tempo stesso come della più alta, sicura e visibile conferma e prova dell’uomo rigenerato e della sincerità della sua fede, doveva essere la leva più potente che si potesse pensare per l’espansione di quella concezione della vita che noi abbiamo definito come spirito del capitalismo” (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). All’ascesi si arriva attraverso il duro lavoro e, con esso, alla conquista della ricchezza. Siamo lontanissimi dalla teologia cristiana per la quale non solo il dannato non è il povero ma il ricco (“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco varchi le soglie del paradiso” – traduzioni più accurate chiariranno che non di un cammello si tratta ma comunque di qualcosa di sufficientemente grosso) e il lavoro, lungi dall’essere un’ascesi, è, almeno secondo San Paolo, “uno spiacevole sudore della fronte”.

Saranno quindi i paesi di cultura protestante a dare la spinta decisiva al capitalismo. Il mondo cattolico farà per lungo tempo resistenza a questa etica e quindi al capitalismo, ma alla fine ne verrà travolto.

Senza andare tanto lontano, ancora negli anni Cinquanta in Italia, Paese profondamente intriso di cultura cattolica, quando eravamo tutti poveri tranne una sottile striscia di borghesia ricca che aveva però il buon senso e anche la prudenza di non farsi vedere e soprattutto di non ostentare, non si dubitava che si potesse essere poveri e felici. In seguito si può essere poveri a condizione però che si sia anche belli. Qualcuno ricorderà il film Poveri ma belli. Adesso anche quel ma, congiunzione avversativa che già di per sé la dice lunga su tutta una mentalità, è stato abbattuto. Semplicemente: chi è povero non può essere felice, senza se e senza ma.

“I ricchi sono diversi dagli altri” diceva, sconsolato, Fitzgerald. Ed Hemingway gli rispondeva sarcasticamente: “Sì, perché hanno più denaro”.

Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2022