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Il progresso. Il mito del progresso, vediamo dove ci ha portato questo intangibile mito e vediamolo in un ambito molto attuale: la guerra.

Farò quindi qui, necessariamente a volo d’uccello, una storia della guerra, storia lunga che inizia praticamente con la comparsa dell’Homo Sapiens (per chi volesse saperne di più c’è il mio Elogio della guerra). Per i primitivi la guerra è un fatto comunitario, che coinvolge tutto il gruppo e la si fa solo per necessità quando per ragioni varie (scarsità di cibo, aumento della propria popolazione o di quella del vicino, alterazioni dell’habitat, variazioni climatiche) il territorio non è più sufficiente e allora l’alternativa diventa: aggredire o morire. Nasce così il nomadismo, presente ancora oggi nel Sahel (i Tuareg sono un popolo nomade) e in vaste zone dell’Africa subsahariana. In questo periodo le armi sono molto semplici: giavellotto per l’offesa, scudo per la difesa.

Un primo cambiamento radicale si ha con l’Impero romano dove c’è una divaricazione fra popolo e specialisti della guerra, pagati per farla, e alla fine della carriera, se ci arrivano, i veterani vengono ricompensati con terre dal bassissimo rendimento. Le armi sono ancora piuttosto rudimentali, anche se qualche variazione c’è, l’utilizzo dei cavalli e conseguentemente della staffa. E le cose si fanno più chiare, la società viene divisa in oratores, laboratores e bellatores. Nascono i professionisti della guerra, i bellatores appunto nobili che hanno il dovere di difendere il territorio, in compenso non pagano le tasse reali. A Varennes en Argonne un contadino chiede a uno scudiero perché mai i nobili godano di questi privilegi e lo scudiero risponde: “perché in caso di guerra sono loro che devono esporre il loro corpo e la cavalcatura”.

Il periodo della cavalleria medievale segna l’apogeo della virtù guerriera ma, paradossalmente, è il periodo in cui ci sono meno morti, anche perché, a parte eccezioni (la notte di San Bartolomeo) non sono guerre ideologiche. Durante la rivoluzione francese Saint-Just, il giovane delfino di Robespierre, dirà: “Le guerre della libertà devono essere fatte con collera” e Carnot rincara la dose :“ la guerra è violenta di per sé. Bisogna condurla a oltranza o restarsene a casa. Il nostro scopo è lo sterminio, lo sterminio fino alle estreme conseguenze”. Le guerre cavalleresche causavano poche migliaia di morti (nella battaglia di Anghiari, di cui ci è rimasto uno stupendo abbozzo di Leonardo Da Vinci, ci fu, secondo alcuni storici un solo morto, secondo altri otto).

Nei primi anni del Quattrocento ci fu una innovazione decisiva che proietterà le sue ombre, sempre più fosche, fino ad arrivare ai tempi nostri: il fucile. I cavalieri si opposero a quest’arma, sembrando loro sleale che il combattimento potesse avvenire a distanza, ma naturalmente persero la partita (Il mestiere delle armi, Ermanno Olmi).

Un ulteriore passo in avanti, si fa per dire, ci fu con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche.  Napoleone, grazie alla coscrizione obbligatoria, portò sul campo di battaglia quattro milioni di uomini, inoltre non rispettava la ‘guerre en dentelles’ impostata dagli austriaci, per cui prima bisognava conquistare una piazza forte poi un’altra poi un’altra ancora per arrivare infine al punto cruciale. Il teppista corso non amava le buone maniere e puntava dritto allo scopo. Va ricordato che la democrazia fu portata negli altri paesi europei sulla punta delle baionette di Napoleone Bonaparte.

E arriviamo alla prima guerra mondiale, la penosa guerra di trincea, stramaledetta dai fanti contadini (I Malavoglia, Verga). Però non esisteva ancora l’aviazione, c’erano sì gli aerei usati per la ricognizione che si battevano a volte fra di loro creando alcune leggende di piloti invincibili, o quasi, quelli che avevano abbattuto più aerei nemici, come ‘Il Barone Rosso’ Manfred Albrecht von Richthofen o il nostro Francesco Baracca.

Un ulteriore salto ci fu nella seconda guerra mondiale. Gli aerei si trasformano in bombardieri. L’ordigno viene lanciato dall’alto, siamo ben lontani dalla lotta corpo a corpo delle guerre primitive o medievali, c’è, è vero, la contraerea perché ogni arma d’offesa crea un’arma di difesa, ma poteva ben poco come sa chi ha vissuto a Milano fra il 1942 e il 1945.

Nelle guerre dei giorni nostri l’uomo conta pochissimo (tranne nella guerra talebana in Afghanistan) dominano le tecnologie, arrivando fino ai droni senza pilota, manovrati, nel caso degli Stati Uniti, da Nellis nel Nevada. E il combattente che non combatte perde ogni legittimità, perché la speciale liceità di uccidere, esclusa nei tempi di pace, c’è se esiste la altrettale possibilità di essere uccisi, se uno solo può colpire e l’altro solo subire si esce dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio.

La tecnologia ha completamente sopraffatto l’uomo , come sui campi di calcio, dove l’arbitro, una volta padrone assoluto del campo (Boscov “Rigore c’è quando l’arbitro fischia”) è diventato un impiegato agli ordini del VAR o della VAR o come cavolo la si vuol chiamare.

Così di tappa in tappa, di tecnologia in tecnologia, siamo arrivati all’Atomica che può distruggere il mondo intero in pochi giorni. E lo chiamano progresso…

Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2022

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Non mi piace Zelensky, come, credo, a molti italiani che però non osano aprir bocca perché in questo frangente è sufficiente leggere Dostoevskij per essere sbattuti nel girone dei “filo putiniani”. Non amare Zelensky non significa essere pro Putin. Diceva Talleyrand: “Preferisco i delinquenti ai cretini, perché i primi ogni tanto si riposano”. Putin è riuscito ad essere l’uno e l’altro. Delinquente per l’aggressione all’Ucraina, che peraltro segue molte aggressioni occidentali condotte con pari violenza (Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia – dai 650 ai 750 mila morti solo in Iraq) cui va aggiunta l’aggressione della stessa Ucraina, a partire dal 2014, ai russi del Donbass con una ferocia non dissimile, anche se su un raggio più limitato e con mezzi meno potenti, da quella che mostra Putin, da parte non solo dei nazisti di Azovstal’ ma del regolare esercito ucraino. Delinquente per gli assassinii degli oppositori, metodo di cui il presidente russo fa un uso sistematico. Cretino perché è riuscito a ricompattare la Nato che di fatto non esisteva quasi più, Macron l’aveva definita “uno spettro” e lo stesso Trump “inutile”.

Io potrei essere considerato fazioso perché sono russo per parte di madre, Zinaide Tobiasz, ebrea come si evince dal nome,  e più invecchio più mi sento russo e meno italiano per quel “mondo di mezzo” che partendo da Roma ha invaso quasi l’intero Paese, ma, come si vede, a Putin non sconto nulla. Da qui sino alla fine dell’articolo parlerò quindi da russo.

Non mi piace Zelensky perché irride e umilia i nostri soldati definendoli “vigliacchi”. È certo che i ragazzi mandati con la forza al fronte da Putin siano totalmente demotivati. Però si deve ricordare che durante la seconda guerra mondiale abbiamo lasciato sul campo 20 milioni di morti per sconfiggere il nazismo (fra le vittime c’era l’intera mia famiglia materna, la sorella di mia madre, Anja, la madre di mia madre, tutti gli zii, i cugini, i nipoti). Che parte abbiano avuto gli ucraini  in quella tragica epopea che fu il secondo conflitto mondiale non so.

La guerra non l’hanno vinta solo gli americani ma anche gli inglesi, soprattutto gli inglesi, e i russi, contadini e kulaki, che difesero la propria terra con le unghie e con i denti, a maggior gloria di Stalin che li aveva sterminati a milioni.

Zelensky vuole “armi, armi e ancora armi” e ricatta i Paesi europei. È lui a stabilire l’agenda politica dell’Unione Europea. Per la verità l’Ue non ha nessun obbligo nei confronti dell’Ucraina che non fa parte né dell’Unione Europea né della Nato. L’errore degli americani è stato quello di stringere una corda al collo della Russia circondandola di paesi Nato o filo Nato. Ed è pericoloso mettere il nemico con le spalle al muro. Questo vale in tutti gli ambiti della vita. Per esempio nel pugilato, dove il più forte non si accontenta di un k.o. tecnico ma vuole il k.o. tout court e l’avversario, spinto dalla disperazione, scaglia il cosiddetto “colpo della domenica” e manda al tappeto quello che sembrava il sicuro vincitore.

Zelensky ha disposto per decreto legge che non si può fare alcuna pace con la Russia di Putin (Putin sembra, dico sembra, un po’ più possibilista). Evidentemente pensa, come pensano quasi tutti gli occidentali, che Putin sarà disarcionato dall’opposizione interna. Ma si sbaglia e si sbagliano. La Russia profonda, quella delle campagne, che noi chiamiamo “moscoia”, che conta all’incirca 40 milioni di abitanti, sta con Putin perché ha ridato dignità a un grande Paese che con Gorbaciov si era ridotto a fare il servo degli Stati Uniti (“Distruggi un Impero e andrai a San Remo”).

Nonostante l’omologazione portata dalla tecnologia e dall’adeguamento ai costumi e, possibilmente, ai consumi occidentali, il popolo russo esiste ancora con le sue grandi contraddizioni, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma una cosa il popolo russo (parlo del popolo non delle ‘élite’) non ha: il cinismo roman andreottiano.

Dal punto di vista culturale l’Ucraina ha dato poco all’Europa. C’è Gogol’ (Le anime morte), ma Gogol’ ha potuto essere tale solo all’interno della grande letteratura russa fondata, per così dire, da Puskin, purtroppo intraducibile in italiano come mi diceva mia madre, è come tradurre Dante in un’altra lingua, che diede l’abbrivio a Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev, Cechov (Il gabbiano, tra i molti altri).

Negli ultimi tempi gli Stati Uniti hanno dato segni di insofferenza per il protagonismo di Zelensky e soprattutto per alcune gravi iniziative prese in terra ucraina e anche russa senza preavvertire gli americani che pur hanno fornito all’Ucraina quasi 10 miliardi di aiuti in termini di armi.

Se perde il sostegno degli Stati Uniti in questa guerra, che poi in realtà è una guerra tra America e Russia, Zelensky è finito. Tornerà ad essere insignificante. Come l’Ucraina.

 

Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022

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“Vecchio è bello”. Questo slogan è stato molto in voga negli ultimi anni sui media. Poi è arrivato il Covid e si è visto che esser vecchi non è proprio così bello e gli anziani sono diventati “i fragili”. “Vecchio è bello”, questa ipocrisia è stata un’invenzione del marketing, vero padrone dell’economia, che si era accorto che l’Italia invecchiava e quindi bisognava stimolare i vecchi, scarsi consumatori, a consumare: a sgambettare impudicamente nelle discoteche e a scopare, anche se non ne avevano più nessuna voglia, con il viagra, eccetera. Il fenomeno è analogo a quello del boom degli anni Sessanta quando il marketing capì che i giovani adesso avevano dei soldi in tasca e quindi ci fu l’apologia della gioventù. In realtà quei soldi i giovani li avevano dai propri genitori, perché gli italiani sono dei forti risparmiatori, cioè degli sprovveduti perché il risparmio anno dopo anno viene demolito dall’inflazione o da altre magie finanziarie fino ad azzerarlo o quasi. Il risparmio è un credito erga omnes e quindi ad esso corrisponde un debito equivalente e, come scrive Vittorio Mathieu in Filosofia del denaro, “i debiti alla lunga non vengono pagati”. I ricchi, che su queste cose sono più avvertiti del cittadino comune, hanno più debiti che crediti. Comunque il denaro, se si vuole che non sia impallinato, deve essere spostato continuamente da un investimento a un altro, cosa che il piccolo risparmiatore non può fare costretto com’è a tenerselo per affrontare eventuali emergenze.

“Vecchio è bello”. I latini, che erano meno retorici di noi, chiamavano la vecchiaia atra senectus. Terenzio la considera una malattia e Seneca aggiunge etiam insanabilis, cioè inguaribile.

Tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce. È vero che si può morire a qualsiasi età, anche a vent’anni, e che la morte è certa. Ma una cosa è immaginarla in un futuro indefinito, altra è quando ti cammina a fianco. Una cosa è se si tratta di una certezza lontana, remota, altra è se sai che sei al finale di partita. E che non ci saranno supplementari. “Non puoi più nemmeno piantare un albero, perché sai che non lo vedrai crescere” mi diceva il mio caro amico Giorgio Bocca quando andava verso i novanta. Cominci anche a guardare con sospetto certi oggetti che sai che ti sopravvivranno. Quando ero sulla settantina una bella ragazza di trent’anni, che mi piaceva, mi disse: “Perché non possiamo metterci insieme?”. “Perché tu stai entrando nella vita e io ne sto uscendo. Il Tempo conta, non possiamo ignorarlo”.

Tutti i vecchi pensano alla morte, ci pensano sempre. E ne hanno paura. E meglio stanno fisicamente, in quel momento, e più ne hanno paura. E non potrebbe essere diversamente. Non si tratta di una paura fisica, ma metafisica. È l’orrore del Nulla, lo spaventoso Nulla. L’inesistenza. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto, pensato, è cancellato di colpo, immerso in un buio senza tempo e senza risveglio.

I vecchi finiscono per assomigliarsi tutti, con gli stessi problemi, la stessa stanchezza, le stesse angosce, le stesse ansie, le stesse paure e alla fine anche gli stessi tratti che la vecchiaia appiattisce. Siamo tutti – ora lo sai con molta più consapevolezza di quando ti sei affacciato alla vita – nella stessa barca. E, come nella Vergogna di Bergman, cadremo uno ad uno in mare mentre gli altri faranno finta di non vedere, quasi la cosa non li riguardasse.

Il mondo dei vecchi è un mondo di ombre, le ombre degli amici morti e del passato. Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso: il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Sei un sopravvissuto.

“Vecchio è bello”. Ma andate a dar via i ciapp.

Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2022