Negli Stati Uniti il capo esecutivo della Sanità, Vivek Murthy, ha proposto che sull’etichette del vino e più in generale degli alcolici sia messo l’avviso che sono cancerogeni. Se così fosse io dovrei essere morto di tumore più o meno all’età di venticinque anni.
Se questa proposta dovesse essere accolta anche in Italia per il nostro Paese sarebbe un disastro, economico e sociale. Economico perché sulla vite vivono 255 mila aziende agricole. Sociale perché pur essendo il consumo del vino in ribasso – i giovani gli preferiscono la birra e le ragazze tanto per darsi un tono gli spumanti, Champagne compreso, che vini non sono ma risciacquature in bocca – è pur sempre una parte importante della nostra cultura e contribuisce a lenire molte malinconie della vecchiaia.
“Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
Quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino
Li troverai là col tempo che fa estate e inverno
A stratracannare, a stramaledir le donne, il tempo ed il governo
Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere
Per dimenticare d'esser stati presi per il sedere” (La città vecchia, De André).
E voi potete immaginare un inglese e soprattutto uno scozzese che rinunci allo Scotch? Oggi un commentatore di calcio come Nicolò Carosio, che di schemi non capiva nulla ma sapeva dare l’emozione di una partita, che alla fine di una match vinto con la Scozia disse “E ora andiamo a berci un buon whiskaccio!” sarebbe arrestato per induzione all’alcolismo.
Com’erano belli i tempi della swinging London quando si poteva bere solo nei pub ed è noto che ogni proibizionismo genera il desiderio, la voglia matta, di infrangerlo. Per noi ragazzi, non mi ricordo sotto quale età, il whiskey era proibito in assoluto e allora cosa facevamo? Negli ostelli nascondevamo la bottiglia sotto il letto. Adesso in Gran Bretagna il governo vorrebbe inasprire le misure anti-alcoliche riducendo gli orari dei pub.
In Italia, di recente, sono state aumentate le multe e le sanzioni per chi venga trovato alla guida in stato di ebbrezza. Se il tasso alcolemico è compreso tra 0,8 e 1,5 grammi per litro, si è puniti con la doppia sanzione, detentiva e pecuniaria (arresto fino a 6 mesi e ammenda da 800 a 3.200 euro), con sospensione della patente da 6 mesi a un anno. Se il tasso alcolemico è superiore a 1,5 grammi per litro, c’è l’arresto da 6 mesi a un anno e ammenda da 1.500 a 6.000 euro e sospensione della patente da uno a due anni. Qui ciò che si vuole tutelare non è tanto la salute del cittadino ma prevenire gli incidenti. Ma anche qui è tutto soggettivo e discutibile. C’è chi l’alcool lo tiene benissimo e chi non lo tiene affatto. Personalmente a cena non mi sono mai negato le più abbondanti libagioni, e non ho mai avuto incidenti. Alla mia fidanzata, mingherlina, proibirei di guidare anche se a cena ha bevuto solo acqua. Le proibirei invece di curiosar fuori proprio nel momento in cui si è al bivio decisivo.
A Milano il sindaco Sala, come se non avesse altro cui pensare, ha ribadito il divieto di fumare all’aperto se non a distanza di almeno dieci metri da un altro umano. A Milano, città di un pigia pigia infernale, trovare un umano a meno di dieci metri è più difficile che trovare un taxi che è la cosa di cui il sindaco dovrebbe davvero occuparsi. E nel casino normativo generale non so se vale ancora la norma, sempre stabilita da Sala, che in un parco è proibito fumare se c’è una donna incinta. E come fai a sapere se è incinta? Le vai a tastare il ventre? Ottimo pretesto per un aggancio, solo che prima si usavano i cani ed era meno intrusivo.
E in casa propria si può ancora fumare? La cosa è dubbia perché viste le sottili pareti dei nostri edifici il vicino potrebbe sentirsene disturbato. Verrà un tempo, ne sono sicuro, in cui più o meno alle cinque del mattino, l’ora degli arresti e delle perquisizioni, entreranno in casa tua due pulotti non per cercar armi ma pacchetti di sigarette.
Ci sono poi tutti i divieti, impliciti ed espliciti, della cancel culture. Della proibizione di chiamare il diverso diverso. Anni fa frequentavo un bar in cui andava uno zoppetto che gli avventori chiamavano “Mennea”. Lì per lì mi parve una cosa crudele, ma posto che le cose erano state messe in chiaro lo “zoppetto” si integrò benissimo nel gruppo: nessuno pretendeva che facesse i 200 metri in 19’’72.
Ci sono poi tutti i limiti del linguaggio. Un negro non può più essere chiamato “negro”, come i negri si son sempre chiamati fra di loro, ma “nero”. Di recente è successo un putiferio in uno stadio di calcio perché l’assistente di un arbitro dovendo indicare chi aveva commesso l’infrazione in una panchina dove sedevano tutti giocatori bianchi tranne uno nero, disse “è stato il nero” ma senza nessun intento denigratorio, era solo una questione pratica. Io ho viaggiato molto in Africa e mi sono trovato sempre in grande armonia con i negri, anche nel Sudafrica governato dai bianchi. Ma detesto i calciatori negri che ne approfittano per fare le vittime. Hanno tirato fuori a porta vuota e non puoi fare nemmeno un “buuu”. Adesso negli stadi esiste anche la “discriminazione territoriale”. Tu, se tifi Verona, non puoi gridare “forza Vesuvio!” e gli altri rispondere “Giulietta era una zoccola”. Sono modi, del tutto innocenti, di scaricare l’aggressività che è in noi ed evitare così quelli che Ceronetti ha chiamato “i delitti delle villette a schiera”.
La cancel culture, termine orrendo, ha investito anche la letteratura e in particolare i fumetti (perché prima di mettere le mani su Dante, un razzista ecclesiale, ci si pensa un po’). Per esempio è ancora lecito un fumetto titolato “Biancaneve e i sette nani”? Non è forse una discriminazione nei confronti dei nani per una colpa che non è loro: essere nani? A proposito dei nani mi ricordo una storia divertente. In Australia esisteva uno sport che consisteva nel “lancio dei nani”. Cioè si imbragava un nano e vinceva chi lo lanciava più lontano. Naturalmente intervennero Amnesty International e tutte le “anime belle” affermando che era un’indecenza. Ma i primi a opporsi furono proprio i nani, perché perdevano la loro unica fonte di guadagno.
Adesso gli infiniti verboten da cui è attraversata la nostra società hanno anche invaso il sacro recinto della satira. A una giornalista americana del Washington Post, Ann Telnaes, il giornale ha censurato una vignetta su Jeff Bezos, editore del prestigioso quotidiano, prostrato ai piedi di Trump con sacchi di dollari in mano. Osho, un modesto vignettista italiano, ha avvalorato la censura del Washington perché la vignetta “era un attacco preciso e non ironico ad alcuni tycoon americani”. Ah beh, adesso non si può più nemmeno ironizzare sui tycoon che più dell’ironia meriterebbero la galera.
Nostalgia dei tempi in cui Giorgio Forattini vignettava Giulio Andreotti perennemente gobbo (in realtà Andreotti, alto 1.83, non era gobbo ma curvo) e il “divo Giulio” non solo non se ne dispiaceva ma si faceva mandare da Forattini le vignette che esponeva poi in casa sua. Altri vignettisti. Altri politici. Altri tempi.
11 gennaio 2025, il Fatto Quotidiano
Di recente è stata scoperta una tribù amazzonica, i Massaco, mai avvicinata prima dall’uomo bianco. Anni fa un gruppo di esploratori che sapeva della loro esistenza l’aveva individuata ma nonostante quello fosse lo scopo principale della loro spedizione, molto responsabilmente, si rifiutarono di venire a contatto fisico con i Massaco o con la tribù vicina dei Kawahiva perché sapevano bene che sarebbe stato mortale perché né i Massaco né i Kawahiva hanno anticorpi sufficienti per resistere ai virus dell’uomo bianco. Li studiarono quindi a debita distanza, “da remoto” come si direbbe oggi e constatarono che questi gruppi piccolissimi, un centinaio di individui in tutto, erano cresciuti di popolazione, i Massaco sono più o meno raddoppiati, i Kawahiva sono passati da 20 ai 35-40 individui, dati del Funai, Fondazione nazionale dell’Indio, organizzazione ufficiale del governo brasiliano responsabile della protezione dei popoli indigeni, ripresi dalla giornalista del Corriere Alessandra Muglia (24.12). Tutto ciò dimostra che se gli Indios sono lasciati vivere in pace nel loro ambiente riescono a figliare, a prosperare, sia pur a loro modo, a crescere. C’è da aggiungere che dal 2019 al 2023 a governare il Brasile è stato Jair Bolsonaro che secondo Greenpeace ha aumentato la deforestazione amazzonica del 75,6 per cento, privilegiando i garimpeiros, i cercatori d’oro, che non hanno nessun interesse a preservare l’ambiente ma piuttosto quello di deforestare tagliando gli alberi alla radice. Un fatto gravissimo con conseguenze immaginabili, e disastrose, perché l’Amazzonia è il principale polmone d’ossigeno del pianeta. Cosa di cui gli occidentali non si sono mai sul serio interessati, come in genere non si interessano di tutto ciò che accade in Sudamerica, una popolazione di 440 milioni circa ma preferendo occuparsi di generiche politiche ecologiche dirette a ridurre l’anidride carbonica, politiche che non hanno nessuna possibilità di avere un qualche effetto finché continuiamo a produrre e a consumare nella quantità in cui consumiamo e produciamo. Retorica pura.
Le cose in Brasile sono migliorate da quando al governo è ritornato Ignacio Lula da Silva, un vero socialista in un mondo dove di socialismo è rimasto pochissimo: a Lula bisogna aggiungere il venezuelano Nicolàs Maduro, erede di Chàvez e del chavismo, insomma del “socialismo bolivariano”, non a caso condannato da tutti i regimi occidentali come “despota” e insidiato ripetutamente da tentativi di colpi di Stato di marca yankee. Vi ricordate del colpo di Stato di origine anch’esso americano del “giovane e bell’ingegnere”, così chiamato dalla stampa occidentale, Juan Guaidò? Il governo Maduro non represse il golpe con la forza, i pochi morti che ci furono in quell’occasione, 137, non furono a causa della polizia venezuelana ma degli scontri degli opposti seguaci, ma Guaidò ne aveva così pochi che dovette scappare negli Stati Uniti passando dalla Colombia di Ivan Màrquez che, pur essendo di destra, lo cacciò a pedate nel sedere.
Lula ha istituito un “ministero per gli indigeni”, diretto da indigeni, e si è impegnato a difendere la Foresta Amazzonica. E non per nulla nemmeno Lula gode di buona stampa in Occidente. Lo si accusa, nientemeno, di esser stato un sindacalista, insomma un proletario. Gli occidentali preferirebbero che fosse sostituito, con un’opportuna “manina”, con un simil Javier Milei, l’attuale presidente dell’Argentina, campione dell’iper-liberismo a cui a quanto pare si ispira anche Giorgia Meloni. Al G20 di Rio del novembre del 2024 la Giorgia nazionale cioè sostanzialmente anch’essa una iper-nazionalista, anzi una iper-americanista, dedicò al padrone di casa una rapida stretta di mano per poi volare subito dopo da Milei.
Le vessazioni compiute sugli indigeni sono tali e tante che è impossibile elencarle tutte. Ne diamo qui un resumè. In Canada, nel 2017, le donne indigene si sono ribellate all’egemonia non solo economica ma culturale di quello che chiamiamo qui, sbrigativamente, Occidente. In Canada, Rebecca Jamieson, che ha cercato di dar forza al Politecnico indigeno ha affermato: “L’obbiettivo era controbilanciare lo strapotere dell’educazione ‘occidentale’, l’assimilazione, il divieto di usare le nostre tradizioni e le nostre lingue”.
In Australia gli indigeni vivono in un regime di apartheid, sono stati indotti con le “buone maniere”, cioè quelle usate dagli americani nei confronti dei pellerossa, a far uso e abuso di superalcolici (ricordiamo, di passata, che negli Stati Uniti ci sono ancora ‘riserve’ pellerossa, un apartheid non lontana da quella che è esistita fino a non molti anni fa in Sudafrica prima che Nelson Mandela, forse l’unico Nobel per la Pace meritato, facesse il miracolo di comporre i dissidi quasi millenari non solo fra immigrati bianchi e residenti neri ma fra gli stessi neri divisi fra Xhosa, Zulu, Ndebele e altre infinite etnie). Risultato di questa politica del governo australiano nei confronti degli aborigeni: aumento vertiginoso dei suicidi. Sempre in Australia è stato abbattuto un albero, sacro per gli aborigeni, e soprattutto per le donne perché sotto le sue fronde andavano a partorire, per farvi passare un’autostrada costata 157 milioni di dollari. Da notare che gli aborigeni abitano l’Australia da più di cinquantamila anni, ma la loro esistenza non è riconosciuta dalla Costituzione.
Gli Inuit che abitano prevalentemente le coste della Groenlandia e del Canada hanno protestato, naturalmente senza risultato, per lo sfruttamento delle loro miniere da parte delle multinazionali di tutto il mondo. Si legga in proposito la fondamentale opera di Marcel Mauss, Teoria generale della magia, dove lo scambio tribale, cioè di gruppo (quello individuale detto gimwali è proibito o comunque mal visto perché incrina l’unità della comunità) non ha alcun contenuto economico ma solo sentimentale e amichevole, è privo di calcolo. Già Esiodo, VIII-VII secolo avanti Cristo, ne Le opere e i giorni “aveva notato un cambiamento essenziale, alla tribù, al clan, dove la solidarietà è implicita perché l’individuo progredisce o perisce con esso, si sostituisce il vicino di cui il poeta ha un giustificato orrore. Perché il vicino lo si aiuta pensando che a sua volta, quando saremo in una qualche difficoltà, aiuterà noi. C’è quindi un calcolo, che se non è ancora propriamente economico, in qualche modo gli assomiglia” (Il rito del dono, lezione per il virus).
Ma il dato più inquietante non sono nemmeno le rapine e le violenze su gruppi di indigeni. Il dato più inquietante è lo stravolgimento della loro personalità. Henervik è un pescatore di salmoni in Canada. Vive della sua abilità, la sua vita ha un senso. Ma in Canada arrivano delle grandi multinazionali, soprattutto americane. Addio pesca di salmoni. In un’area circondata da ghiacci Henervik finisce a lavorare in un supermercato. Dove? Beffa delle beffe: nel reparto surgelati.
7 Gennaio 2025, il Fatto Quotidiano
Ogni individuo ha diritto di vestire come più gli pare e piace afferma, almeno da un bel po’ di tempo, la cultura occidentale in polemica col velo islamico. Ma in questo diritto non siamo i primi, non siamo i campioni. Negli anni Trenta (per la precisione 1927) Gide al ritorno da un viaggio in Congo pubblicò una serie di fotografie che mostravano donne africane tutte a seno nudo e maschi con un minuscolo perizoma. Dice: per forza all’equatore fa caldo. Ma ai trenta gradi e più del luglio di Milano nessuna donna potrebbe mostrarsi a seno nudo non dico in Duomo o Piazza Duomo che sono luoghi di culto con loro regole precipue: in chiesa portano quasi sempre il velo mentre i maschi, con una curiosa inversione dei ruoli, vanno a capo scoperto e col cappello in mano, a riprova che i capelli nell’uno e nell’altro caso hanno la loro importanza. Fellini per mostrare nel pieno centro di Roma, nella fontana di Trevi, il seno nudo di Anita Ekberg ha dovuto costruirci sopra un film. Sempre negli anni Trenta quelli del viaggio di Gide in Congo una Hedy Lamarr a seno nudo, peraltro pudicamente velato dall’acqua del fiume, fece scandalo. Del resto non sono poi molti anni da quando le nostre contadine portavano un fazzoletto in testa a coprire i capelli e in qualche caso, specie nella Sicilia profonda, lo portano ancora.
Per questo non credo sia sbagliato l’interesse che l’Islam ha per i capelli femminili. Sbagliato è imporre alle donne un copricapo ma l’interesse è più che comprensibile. I capelli sono, insieme agli occhi e alla bocca, una delle parti più affascinanti della donna, indicativi del suo carattere oltreché del suo stato sociale. Tramite i capelli una donna esprime la sua identità. Nell’immediato dopoguerra alcuni cosiddetti partigiani portavano in giro per le strade delle donne che erano state con i fascisti o con i nazisti, rapate a zero, volendo con ciò annullarne l’identità, la “maschera” come dicevano i greci, umiliandole a sangue più che se l’avessero messe nude (i “cosiddetti” facevano anche questo ma era addirittura meno importante).
I capelli femminili esprimono, molto più dei tratti somatici, l’indole della donna tramite il modo con cui li muovono sia pur di volta in volta mutanti: la bizzosità (“da ogni ricciu te caccia ‘nu capricciu…” Modugno), l’alterigia, la dolcezza, la leggerezza, la testardaggine, la durezza, l’aggressività, la sfrontatezza, la pignoleria. Le donne, soprattutto le ragazze più giovani quando sono in una qualche difficoltà, si arrotolano di continuo, nevroticamente, un dito intorno ai capelli. Insomma per le donne i capelli sono molto importanti e vi dedicano una cura maggiore rispetto a tutte le altre parti del corpo basta vedere quanto vi spendono dal coiffeur, al massimo delle loro disponibilità economiche. I capelli hanno anche un alto valore emotivo e sentimentale, quando ci si lascia si conserva una ciocca dei capelli di lei. I capelli esprimono anche il passaggio della donna dall’adolescenza all’età adulta con l’abbandono delle treccine: “Lisa dagli occhi blu, senza le trecce la stessa non sei più”.
In definitiva è meglio vedere o non vedere? Quando ero a Teheran sono entrato nella redazione di un settimanale Donna di giorno, piuttosto aggressivo nei riguardi del regime khomeinista (si sa che le donne sono molto più coraggiose degli uomini): aveva un’ampia sezione dedicata alla moda cosa che metteva in sospetto i “pasdara” più duri e puri. La direttrice, la graziosa Talebeh, portava naturalmente, come tutte, il velo. Ma dal velo le spuntava un vezzoso ricciolo biondo che le dava un fascino tutto femminile. Giocava insomma l’eterno gioco del “ti vedo e non ti vedo” che sembra scomparso nella donna occidentale per la continua esibizione nei film, nella pubblicità e in ogni altro possibile luogo del nudo femminile. Da qui anche la caduta a picco dello strip-tease, ancora in voga una quarantina di anni fa.
Dell’ipocrisia occidentale, perché di questo stiamo parlando, perché sopravvalutando l’importanza dei capelli femminili in realtà la sminuisce, fa parte anche il linguaggio. Raramente voi vi imbatterete su un giornale nel termine “cazzo…”, seguito da eufemistici puntini, e come si sa, l’eufemismo è molto più volgare del termine che vuole sostituire. Ma non troverete mai e poi mai “fica”, persino i laici latini la sostituivano con “pudenda” cioè le cose di cui ci si deve vergognare. Perché mai ci si dovrebbe vergognare dei genitali femminili (in questo caso uso anch’io un eufemismo) quando da essi è generato il mondo?
I capelli femminili si legano poi molto intimamente ad un’altra peluria molto più nascosta anche se maggiormente concentrata. E la domanda inesausta del maschio, specialista in temi irrisolvibili se non a caro prezzo, è: ma le due corrispondono o la Tipa s’è tinta in entrambe? Meglio, prudentemente, non svelare.
4 Gennaio 2025, il Fatto Quotidiano