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Papa Francesco, che non per nulla si è dato il nome del Santo protettore dei poveri dei miserabili, degli “umiliati e offesi”, parlando dalle carceri di Rebibbia nell’ambito delle cerimonie per l’apertura del Giubileo, riferendosi ai detenuti ha detto: “E’ molto importante essere qui. Perché dobbiamo pensare che tanti di questi non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori”. Questa affermazione Bergoglio non l’ha fatta nelle dichiarazioni ufficiali ma parlando, come spesso gli succede, in modo libero (“C’è già troppa frociaggine”) ai presenti, soprattutto giornalisti. Che cosa intendeva dire, di fatto, Bergoglio? Che i ladri di regime quasi sempre, in un modo o nell’altro, se la scampano, i poveracci no. Quasi tutti i media italiani non hanno ripreso questa “vóce del sén fuggita” (Orazio, Metastasio). Mentre nei bar non si parlava d’altro, questa possente affermazione è stata ignorata o trattata in modo del tutto superficiale, credo non a caso, dai media, con la lodevole eccezione del Corriere della Sera, una volta tanto benemerito.

Ma vediamo di chiarirci le idee con alcuni dati relativi all’Italia, anche se il discorso del Papa è valido, se così possiamo esprimerci, Urbi et Orbi. Ma in Italia siamo e in Italia, “purtroppo o per fortuna”, viviamo. In Italia i carcerati per reati finanziari ed economici, cioè i reati tipici di ‘lorsignori’, sono solo lo 0,9% dei carcerati totali, mentre in Germania è il 10%. Il rapporto è quindi di uno a dieci. Si sostiene che i cosiddetti “reati da strada” provocano un maggior allarme sociale. E certamente se un manigoldo deruba una vecchietta che è appena andata a ritirare la pensione, e la mette così sul lastrico, il fatto è grave e va punito. Ma, come ha ricordato Piercamillo Davigo, una bancarotta fraudolenta mette sul lastrico, d’un sol colpo, non una vecchietta ma cento.

La scarsa presenza di “colletti bianchi” in carcere si spiega anche col fatto che a costoro la galera, in attesa di un giudizio definitivo che vista la lentezza della giustizia italiana probabilmente non arriverà mai, ghigliottinata dalla prescrizione, viene risparmiata in favore degli “arresti domiciliari”. Si ritiene infatti che ai delinquenti di diritto comune, che fanno anda e rianda dalle prigioni, il carcere non sia particolarmente pesante, ci sono abituati, mentre per chi fin lì ha vissuto nel lusso e nell’agio la punizione sarebbe troppo severa. E’ uno dei tanti esempi di quel ‘razzismo sociale’ così diffuso nel nostro Paese. Vai in carcere stronzo che forse imparerai qualcosa perché il carcere è anche teso alla rieducazione del condannato e quei pochi lorsignori che l’hanno sperimentato, penso, tanto per fare un esempio, a Sergio Cusani, noto brasseur socialista negli anni del Craxi imperante, condannato a quattro anni di galera, scontati per intero, che ne è uscito migliore e dedito al volontariato.

Daniela Santanchè, ministro del Turismo, finanziario, sotto processo per bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e truffa aggravata ai danni dello Stato è ancora al suo posto. Naturalmente per la Santanchè, come per tutti, vale il principio della presunzione di innocenza fino a condanna definitiva, ma è la stessa Santanchè che ha affermato per i reati da strada: “in galera subito e buttare via le chiavi”, cioè senza nemmeno un processo.

Può anche accadere che un grande imprenditore o un importante uomo politico finisca per essere condannato, ma sconta la pena ai servizi sociali. E’ il caso di Silvio Berlusconi (ci spiace citarlo ancora una volta, ora che è morto, ma è il principale responsabile di quelle leggi ad personam e ad personas che praticamente hanno messo al sicuro, in questi anni, i colletti bianchi) condannato a quattro anni per una colossale evasione, di cui grazie a un indulto finì per scontarne uno solo andando a raccontare, una volta alla settimana, le sue barzellette alla Fondazione Sacra Famiglia, ricovero di anziani, i veri condannati.

Nella vicina Francia Nicolas Sarkozy, ex Presidente, condannato a tre anni per corruzione e traffico di influenze, ne deve scontare almeno uno con il braccialetto elettronico, cosa particolarmente umiliante. Sembra di capire che in Francia le regole valgono per tutti, senza distinzione di censo.

Detto quanto ho detto, e non rinnegando nulla, io penso però si debba avere per tutti, anche per gli avanzi di galera, misericordia, quella che i latini chiamano pietas, perché in loro e in tutti la condanna c’è già: la condanna di vivere in questo Universo inesplicabile.

“Se t'inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori
Lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano
Quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano
Se tu penserai e giudicherai da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni più le spese
Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo” (La città vecchia, De André)

 

31 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano

 

 

 

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La nostra è l’era dello scientismo cioè della Scienza tecnologicamente applicata. La Scienza attraverso la teoria della relatività di Einstein e dei suoi successori è riuscita a darci una rappresentazione abbastanza credibile dell’universo in cui siamo costretti a vivere. Ha risolto, o creduto di risolvere, l’eterno problema del rapporto spazio-tempo sostenendo che Spazio e Tempo sono in realtà lo stesso fenomeno che ritorna eternamente su se stesso. “Ogni verità è curva” scrive Nietzsche nella sua teoria dell’”eterno ritorno dell’identico”. Teoria inquietante perché se tutto ciò che è stato sarà e tutto ciò che sarà è stato che ci facciamo noi qui sulla Terra? Teoria che angosciava lo stesso Nietzsche che, precedendo di un mezzo secolo Einstein e i suoi, avrebbe potuto risolvere con un mezzo secolo di anticipo la diatriba. Teoria che però annulla lo stesso pensiero nicciano. Perché la domanda, che ci stiamo a fare noi in questa eterna curvatura dell’universo, riguarda anche lui. Tanto che nella sua opera Nietzsche a volte affronta questo problema, o piuttosto dramma, ma altrettante se ne ritrae angosciato. Una ricaduta o un riflesso o una premonizione della teoria di Einstein della relatività si ha nell’antropologia col culto, soprattutto nelle società più antiche, degli antenati. Gli antenati, in queste culture, più vicine all’origine del tutto, sono ciò che noi siamo stati e che necessariamente ritorneremo a essere. Di qui, antropologicamente, il rispetto per i vecchi perché nella loro esperienza è racchiusa l’esperienza primigenia. Oggi, nella nostra società che ha perso ogni tipo di bussola, il vecchio è un relitto perché la sua esperienza è continuamente superata da quella delle generazioni che avanzano (“E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”).

Della teoria della relatività io che sono, come quasi tutti, un ignorante in materia (“Del suo discorso astratto ci ho capito poco o niente” Sancio Panza nella canzone di Guccini, Sancio che aggiunge “Credo solo in quel che vedo e la realtà per me rimane il solo metro che possiedo, com'è vero... che ora ho fame!”) credo di aver compreso una sola cosa: che anche la relatività è relativa. Tanto che lo stesso Einstein dovette fare continui aggiornamenti della sua teoria parlando di una “relatività speciale”. Del resto tutto cambia a seconda del punto di osservazione di chi la osserva. E’, dal punto di vista artistico, l’intuizione di Duchamp che mettendo una bicicletta su un piedistallo afferma: “Questa è un’opera d’arte per la sola intenzione dell’artista” che darà inizio alla cosiddetta “arte concettuale” e si spalancheranno le porte agli imitatori deficienti che a una Biennale di Venezia, ma è solo un esempio, metteranno sul palcoscenico, pretendendo che sia arte, dei mongoloidi.

Dunque la Scienza è riuscita a decodificare, almeno parzialmente, lo spazio-tempo in cui viviamo. Ma non ha saputo rispondere alle eterne domande di Catalano: “chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando?”. Qualora anche la Scienza, attraverso il suo trafficare col Dna, ci dicesse da dove nasce la vita dell’uomo resterebbe da spiegare da dove ha origine questo incomprensibile Universo. In realtà, in un certo senso, la Scienza, e proprio in Einstein, ce lo dice: viviamo in un eterno presente che non ha origine né fine incurvandosi perennemente su se stesso. Ma che cosa ci sia stato prima e che cosa ci sarà dopo questo eterno presente la Scienza, coerentemente, non ce lo dice. Se siamo in un ”eterno presente” non c’è né un prima né un dopo. Quindi per la Scienza le domande di Catalano, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo sono infantili e inutili. La Scienza ti dà una descrizione dell’arredo dell’Universo, ma non il suo perché.

Peraltro la Scienza moderna, nonostante la psicoanalisi, non è riuscita a governare, e forse nemmeno a capire, alcune espressioni tipiche dell’essere umano, l’istinto e l’intuizione tanto che Freud, alla fine della sua vita, fu costretto a confessare che non aveva mai guarito nessuno (si curasse lui per primo). E da quella vecchia isterica e vendicativa che era non riuscì mai non dico ad ammettere che il concetto di “inconscio” lo aveva derivato da Nietzsche e nemmeno da Dostoevskij (“Dostoevskij? Ecco uno psicologo con cui potrei intendermi” scrive Nietzsche, isolato a Sils Maria mentre l’altro a qualche migliaia di chilometri di distanza scriveva racconti detti d’appendice). Perché fra le aporie dei tempi moderni c’è che si pubblicano centinaia, migliaia di testi scientifici, nelle cui contraddizioni si annega qualsiasi possibile verità, ma poi come mi ha detto Roberto Vacca (“Il medioevo prossimo venturo”, 1990) gli scienziati, i filosofi, i pensatori si scambiano le notizie più interessanti nei convegni in cui si incontrano di persona.

Come abbiamo detto gli scienziati ci spiegano l’arredo dell’Universo, ma non sanno dare ragione ad alcuni fenomeni apparentemente inesplicabili. Come mai una contadina toscana si mette improvvisamente a parlar russo senza mai aver conosciuto questa lingua? Come mai, come è stato dimostrato, tre persone si mettono a fare, nello stesso luogo, certi discorsi che facevano cento anni prima? Io credo che ciò sia perché noi crediamo di vivere in un mondo a tre dimensioni, ma le dimensioni potrebbero essere molte di più come ha intuito il pastore inglese Edwin Abbott in Flatlandia.

Io credo che ci siano intorno a noi forze che non riusciamo a intercettare. Non crediamo nemmeno che esistano. In questo senso il disprezzatissimo esoterismo qualche sforzo lo ha fatto (Guénon “Il Re del Mondo”) Mircea Eliade, il più grande storico delle religioni, romeno, di quella Romania, di quel popolo romeno di cui oggi si suol dire sia un popolo di serie B incapace di determinarsi da solo annullandone, come è avvenuto di recente, le elezioni (E Cioran? E Ionescu? E il più grande centro di studi neroniani che sta a Bucarest?).

Questa inesausta ricerca della Verità oltreché faticosa è del tutto inutile. Dice Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E quanto più si va innanzi questa verità ci appare sempre più lontana. Eraclito, VI secolo a.C., aveva capito tutto. La Scienza nulla.

 

28 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano

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Sul Corriere della Sera (16.12) Sergio Harari, noto e apprezzato pneumologo, scrive: “Cosa diremmo se in
una regione sperduta dell’Africa si sviluppasse una terribile malattia infettiva contro cui ci fosse un vaccino
efficace ma la popolazione non lo volesse fare per una qualche stupida superstizione?”.
Io sarei un po’ più cauto del positivista Harari nel demonizzare la medicina dell’Africa nera, considerandola
una “stupida superstizione” quando era Africa nera, con le sue tradizioni e le sue credenze, non ancora
destabilizzata e distrutta, economicamente ma anche socialmente e culturalmente, dall’intrusione del
nostro modello.


Viaggiando per l’Africa, una trentina di anni fa, ho avuto modo di osservare alcuni fenomeni interessanti.
Quando un uomo di un clan tribale si ammala fino al punto di non essere più in grado di reggersi in piedi lo
stendono a terra e intorno a lui comincia una danza tribale forsennata finché anche coloro che vi
partecipano, sani, esauriscono ogni energia. Il senso di questa pratica è lo “scambio di energie” (cosa da cui
avrebbero molto da imparare, in tanti sensi, anche gli uomini d’oggi). Nel senso che quei danzanti, sani,
trasferiscono le loro energie in eccesso al malato. E il malato, ho avuto modo di constatarlo, guarisce. Non
si tratta di una macumba che ha origini religiose, mischiando elementi pagani con altri cristiani, ma di
risolvere un caso concreto. Certo queste pratiche sono possibili solo in quel contesto, da noi sarebbero
inefficaci oltreché ridicole, non le si può pensare, poniamo, in Piazza Duomo o a Trastevere. Così come le
pratiche della medicina orientale che guardano all’uomo nella sua interezza, fisica e psicologica, non
possono essere applicate nella medicina occidentale che è estremamente specializzata (se hai male al dito
mignolo sa tutto di come curarlo ma ignora la persona nella sua interezza) cosa di cui dovette rendersi
conto, amaramente, anche Tiziano Terzani che aveva cercato di immergersi nella cultura e nelle tradizioni
orientali ma al momento del dunque, quando fu colpito da un tumore, andò a curarsi al Memorial Sloan-
Kettering Cancer Center di New York, senza risultato.


Nella mia Africa, per parafrasare Karen Blixen, si vedevano neri che avevano una profonda cicatrice sulla
fronte. Gliela avevano fatta i medici, o, se preferite, gli stregoni del luogo. Erano vittime di feroci mal di
testa e anche qui il concetto era lo stesso delle danze tribali: il ferro incandescente assorbiva il male
dell’ammalato. Sarebbe stato interessante fare una ricerca per vedere se quegli ammalati avevano un
tumore al cervello o la malattia era psicosomatica. Ma il nostro scientismo, che io sappia, si è rifiutato di
fare questo tipo di ricerca.


E’ indubbio che la medicina occidentale, che tradizionalmente si fa risalire ad Ippocrate, abbia compiuto
enormi progressi anche, se non soprattutto, nel campo dei vaccini eliminando, come dice Harari, il vaiolo e
la poliomielite (terrore della mia infanzia), io aggiungerei la difterite. Ma se si elimina una malattia infettiva,
sia animale che umana, ne appare subito un’altra come è stato per il Covid-19, perché la Natura non tollera
che siano cambiati gli equilibri da essa stessa posti in milioni di anni. E lo stesso Covid ci dice che bisogna
andarci piano nel santificare non tanto la medicina ma i suoi interpreti. Sulla natura di questa patologia e
sui vaccini adatti a prevenirla abbiamo assistito allo spettacolo, piuttosto miserabile, di virologi,
epidemiologi, infettivologi fra cui non ce n’era uno che non avesse un’interpretazione diversa da quella di
un collega spaesando e terrorizzando così la già disorientata popolazione, paura, timore, disagio cui si
aggiungevano gli spettrali bollettini serali.


I progressi della medicina hanno avuto però effetti paradossi, una sorta di ‘eterogenesi dei fini’. Si sono
tenute in vita persone le cui esistenze avevano perso ogni senso anche per chi stava attraversando quella
drammatica esperienza. In Italia non c’è il diritto all’eutanasia, cioè il diritto alla buona morte come si
espresse il filosofo inglese Francesco Bacone, c’è in Svizzera, come, in Italia, c’è il diritto che un medico ti
aiuti a morire. E’ una vexata quaestio mai risolta. Ma il problema non è nemmen questo. Non si dovrebbe
mettere un individuo difronte alla drammatica scelta di vivere un’esistenza che non ha più senso,
nemmeno per lui, e la morte. Una persona dovrebbe poter morire in santa pace, senza l’aiuto di medici non
sempre disinteressati, ma orientati secondo la propria ideologia (è il contrasto fra medici di osservanza                                                                                                                  cattolica e gli altri) diversamente da come accadeva nei cosiddetti “secoli bui”. Nel Medioevo il morente era
il padrone assoluto della propria morte, la guidava, la conduceva, dando disposizioni che avevano un valore
sacro (oggi non si può nemmeno più testare a proprio piacimento, diseredando il figlio fellone a favore di
quello meno fellone, è la parabola del “figliol prodigo”).


Adesso si è affacciata in Congo una variante della malaria il vero dramma sanitario di quel popolo che
invece per il Covid ebbe, solo, 193 vittime, senza prevenzione né tantomeno vaccini. Si saranno curati con
la macumba?

 

22 dicembre 2024, il Fatto Quotidiano