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La vecchiaia cambia le abitudini, si sa. Andavo a letto tardissimo e mi alzavo a mezzogiorno. Adesso vado a letto sempre tardi, anche se un po’ meno, ma spesso mi alzo un pochino prima dell’alba. Mi siedo nel soggiorno e davanti alla finestra, sul grande viale della Liberazione che congiunge il nuovo quartiere-Manhattan con la Milano anni Cinquanta o fascista, vedo lunghe file di macchine i cui fari splendono nel buio del mattino che sta iniziando. Al volante c’è, in genere, una sola persona, uomini e, in misura minore, donne. I tram non sono zeppi come quando ero bambino, ma in ogni modo ci sono parecchi passeggeri, alcuni in piedi attaccati al corrimano. Il grosso viaggia sottoterra, in metropolitana. Altri stanno arrivando in treno dall’immenso hinterland e da quella che si chiama la ‘città metropolitana’. E’ tutta gente che va a lavoro.

Mi colpisce come, in soli due secoli e mezzo, ci siamo fatti ridurre a “schiavi salariati”. Nei ‘secoli bui’ l’uomo, contadino o artigiano che fosse, disponeva del suo tempo. Per essere più precisi: il suo tempo, i suoi tempi dipendevano dalle esigenze della vita, non erano dettati da un imprenditore e dalle regole stabilite dalla società. Noi oggi, senza nemmeno tanto accorgercene, siamo diventati delle merci in movimento, i cui tempi sono contingentati, regolati fino al più piccolo gesto. Non siamo più nemmeno uomini ma oggetti.

E’ stato un lungo processo. Fra il XVII e il XVIII secolo si compie in Europa un capovolgimento di portata copernicana: si passa da un’epoca in cui l’economia è ancora subordinata alle esigenze della comunità umana a un’altra in cui le leggi economiche prendono liberamente il sopravvento ed è l’uomo a doversi piegare a esse. Le leggi economiche vengono considerate, né più né meno, come leggi di natura, ineluttabili, alle quali è inutile cercare di opporsi, che bisogna anzi assecondare per evitare guai peggiori di quelli che si vorrebbero evitare. Si impone, come afferma Dijksterhuis “la meccanizzazione della concezione dell’universo”. Si comincia, grazie anche al prepotente affermarsi del denaro (“la tecnica che unisce tutte le tecniche”, Simmel) a valutare l’esistente in termini matematici, contabili, quantitativi. La terra, prima inalienabile, e l’uomo, le sue energie, diventano merce. Prima della Rivoluzione industriale che porterà a compimento il primato assoluto dell’economia, l’uomo non era considerato una merce. Il signore, il maestro artigiano, il padrone della bottega non considerano i propri dipendenti una merce né essi si sentono tali. I rapporti sono talmente intrecciati, complessi e personali che il valore economico delle reciproche prestazioni ne rimane inglobato e non può essere enucleato. Il feudatario può considerare il servo casato addirittura una sua proprietà, ma sempre come persona, non come cosa, oggetto, merce. L’attività del dipendente è incorporata nella sua persona. E il lavoro non è una merce perché è impossibile staccarlo da chi lo fa e oggettivarlo.

Agli inizi dell’era industriale i tempi del lavoro, cioè dell’energia umana diventata merce, cominciano a essere conteggiati, contabilizzati, controllati fino al secondo, anche perché l’operaio deve adattarsi al ritmo della macchina. Si arriva al cronometraggio e all’analisi dei tempi. Nascono mestieri mostruosi: il cronometrista e l’aiutocronometrista che verificano i tempi di lavoro dei compagni. In seguito si inventeranno macchine non meno mostruose come il cronociclografo, un incrocio fra un orologio registratore ad altissima precisione e il cinema, che permette di studiare i tempi e i movimenti, anche minimi, del lavoratore mentre compie ogni singola operazione. La velocità del lavoro diventa un dogma (“il tempo è denaro”) bisogna abbattere i “tempi morti”. E’ il taylorismo.

Il braccialetto brevettato da Amazon non è che l’ultima estremizzazione del dogma della velocità. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, vuole monitorare i suoi lavoratori e le loro mani in ogni singolo movimento con un braccialetto da far indossare ai suoi dipendenti, in grado di emettere ultrasuoni o vibrare in caso di errore per rendere più veloce la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini. Del resto, braccialetto o no, esiste già un “passo Amazon” con obbiettivi di smistamento da due pacchi al minuto, tempi contingentati per andare in bagno e una catena di montaggio controllata dal primo all’ultimo minuto. Amazon non è che l’emblema di uno dei più devastanti totem della modernità: la velocità appunto. Tutto deve essere veloce, andare veloce, sempre più veloce, ancora più veloce. I vecchi se ne accorgono più facilmente perché non riescono a tenere il passo, sono inesorabilmente superati. Ma anche generazioni più giovani, sempre più giovani, arrancano.

Ma la velocità non è solo un problema individuale e sociale, è una questione che investe tutto il mondo occidentale e i Paesi che hanno adottato o stanno adottando il suo modello di sviluppo.

Dove ci porteranno il dogma, il mito, la pratica della velocità? Nel 1989 andai al Cern di Ginevra a intervistare Carlo Rubbia per l’Europeo. Che titolo abbia dato il settimanale a quell’intervista non me lo ricordo, riprendeva però quello che il direttore di Pagina, Aldo Canale, aveva dato alcuni anni prima a una mia inchiesta sulla pericolosità della Scienza tecnologicamente applicata: “Scienza amara”. Rubbia all’inizio era molto infastidito. Scienziato, positivista, illuminista gli sembrava inconcepibile, addirittura irriguardoso, che si ponessero dei dubbi sulla Scienza. Mi bollò come “apocalittico” e, dopo cinque minuti, voleva già liquidarmi. Finché io, a mia volta spazientito, gli dissi: “Professor Rubbia lei è un fisico e le pongo una domanda per la quale vorrei una risposta da fisico: non è che andando a questa velocità noi stiamo accorciando il nostro futuro?”. “Ah, ma lei è un filosofo” disse Rubbia che così cadde completamente nella mia considerazione. Però cambiò il suo atteggiamento. Disse: “Capisco la sua angoscia. Noi siamo su un treno che va a mille chilometri l’ora e che per sua coerenza interna deve aumentare continuamente la sua velocità. Ai comandi non c’è nessuno o se c’è si illude di averli sottocontrollo. E non sappiamo nemmeno se abbiamo superato ‘il punto di non ritorno’. Se cioè sia ormai troppo tardi per invertire la rotta e scongiurare l’inevitabile scontro con la montagna”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2018

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Travaglio ha ragione. Ma io non ho torto. Ha ragione Travaglio quando afferma che di fronte alla slealtà, alla malafede, ai raggiri, alle truffe, alle violenze sostanziali bisogna restare fermi sui propri princìpi senza abbassarsi a quei livelli, costi quello che costi. Perché quando si scalfisce un principio anche per una sola volta e per cosa di poco conto, si sa da dove si comincia ma non dove si va a finire. Ma io non ho torto perché un principio, anche il più giusto dei princìpi, se portato alle sue estreme conseguenze è un errore (“l’errore è una verità impazzita”, Chesterton). E’ l’errore che hanno fatto i Cinque Stelle, nella comprensibile ansia di un rinnovamento etico in un’Italia marcia fino al midollo, insistendo con eccessiva ossessività sull’’onestà’, che avrebbero fatto meglio a chiamare ‘legalità’ perché l’onestà è un fatto interiore e anche un delinquente può essere onesto se rispetta il proprio codice morale (è il concetto che io riassumo nel binomio emblematico Vallanzasca/Berlusconi, il primo è un criminale, ma interiormente pulito, il secondo oltre a essere un criminale è, interiormente, moralmente marcio, un “delinquente naturale” come lo ha definito la Cassazione, cioè una persona che delinque anche quando non ne ha alcun bisogno).

Questo aver portato il principio dell’onestà/legalità alle sue estreme conseguenze espone i Cinque Stelle a facilissimi boomerang. L’altro ieri tutti i principali giornali italiani titolavano, in testa alla propria prima pagina, sul fatto che alcuni Cinque Stelle, violando il proprio codice interno, non avevano restituito la diaria. Il Giornale: “Disonestà, disonestà. Crolla il mito dei ‘puri’. Fine del sogno a 5 Stelle”; La Repubblica: “Rimborsi, lo scandalo scuote M5S”; Corriere della Sera: “M5S, un buco da 1,4 milioni”; La Stampa: “I grillini ammettono: rimborsi gonfiati”; Il Messaggero: “Rimborsi M5S, manca un milione”; Il Foglio: “Gioioso j’accuse contro gli impresentabili del moralismo”. Il sottotesto di quest’orgia di j’accuse è la sua ‘gioiosa’ implicazione: vedete sono come noi, sono marci come noi, che meraviglia.

Non c’è chi non veda, spero, la differenza che esiste fra coloro che oggi fan la morale ai moralisti e questi ultimi. I Cinque Stelle (cinque, dieci? Vedremo) hanno violato un proprio codice interno, privato, fra i moralisti d’occasione ci sono partiti nelle cui file militano deputati, senatori, consiglieri regionali, consiglieri comunali che hanno violato il Codice penale.

Giuseppe Prezzolini nel suo Codice della vita italiana distingueva gli italiani fra “i furbi” e “i fessi”. I primi sono quelli che se fregano di ogni regola, i secondi le rispettano. Ma i fessi sono così fessi da provare ammirazione per i “furbi”. Scrive ancora Prezzolini nel capitolo che introduce il Codice della vita italiana che s’intitola appunto “Dei furbi e dei fessi”: “L’italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno”. Il ventennale successo di Silvio Berlusconi, come ricordava l’altro ieri Marco Travaglio, insegna.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2018

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Mino Maccari diceva nel dopoguerra: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”. Nelle manifestazioni antifasciste e antirazziste di sabato, a Macerata e in molte altre città italiane, di fascisti ‘propriamente detti’ se ne sono visti pochi, in compenso si sono visti molti fascisti mascherati da antifascisti. Non mi riferisco a quegli sparuti gruppetti che hanno inneggiato alle Foibe, ma all’intolleranza di chi marciava contro i ‘fascisti propriamente detti’ e il fascismo in quanto tale. Quante volte bisognerà ripetere che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E che quindi una democrazia liberale, sottolineo: liberale, deve accettare il diritto a esistere anche delle idee che le sono più avverse, purché, naturalmente, non cerchino di farsi valere con la violenza. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica, di khomeinismo in salsa democratica, dove si possono esprimere tutte le idee tranne quelle antidemocratiche. Una ‘fattoria degli animali’ di orwelliana memoria dove, sia pur a caleidoscopio rovesciato, tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni meno uguali degli altri.

Quando Silvio Berlusconi riportò all’onor del mondo l’anticomunismo militante e gli italiani, che erano stati, almeno per la metà, comunisti finché era esistita l’Unione Sovietica, divennero tutti, o quasi, anticomunisti, Indro Montanelli, che era stato subito bollato da ‘comunista’, nonostante una vita spesa come liberale e conservatore, perché si era rifiutato di dirigere un giornale il cui proprietario era diventato un uomo politico di destra, disse: “Mi sarebbe piaciuto vedere tanti anticomunisti quando il comunismo c’era davvero”.

Piacerebbe anche a noi che al posto degli antifascisti di comodo di oggi ce ne fossero stati altrettanti quando c’era il Regime. Ma non fu così. Gli ‘anni del consenso’ non sono un’invenzione di De Felice.

Per una volta siamo d’accordo con Matteo Renzi quando ha affermato: “Io sono per la severità della legge, la certezza della pena, ma mi rifiuto di fare dell’episodio di Macerata una polemica politica ed elettorale”. Gli italiani ricadono periodicamente, ma si potrebbe anche dire che vi sono perennemente immersi, in polemiche catacombali. Perché, a differenza di Germania e Giappone, non hanno fatto i conti con se stessi e la loro Storia. In virtù del Mito della Resistenza, che riguardò solo poche decine di migliaia di uomini e di donne coraggiosi, peraltro entrati in azione quando la sconfitta del nazifascismo era ormai certa, si sono autoconvinti di aver vinto una guerra che avevano invece perso e nel modo più ignominioso. Si sono autoconvinti di essersi rivendicati in libertà con le proprie mani, mentre furono gli americani, gli inglesi, i canadesi, i razzisti sudafricani, i marocchini a regalarci questa libertà, non senza farcela pagare un prezzo assai pesante.

Il Fascismo non è stata una “parentesi” della nostra Storia, come ebbe sciaguratamente a dichiarare Benedetto Croce (che peraltro poté viverla in tal modo perché il Regime lo tenne in una ovattata situazione di riguardo) di questa Storia, nel male e nel bene, fa parte a pieno titolo e sta nel nostro Dna. Certamente perciò, se conserviamo questa mentalità, il fascismo potrebbe ritornare, anche se non nelle forme storiche che abbiamo conosciuto e che sono state inutilmente contestate nelle manifestazioni di sabato.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2018


Risulterebbe che più di 9 milioni di donne italiane sono state molestate nella loro vita. Se fossi una di quelle non molestate mi preoccuperei. m.f.