Dall'inizio del prossimo anno, per diktat delle grandi produzioni e della grande distribuzione, la pellicola verrà sostituita dal digitale. Addio al proiettore. Ma addio anche al vecchio cinemino monosala che con le unghie e con i denti era riuscito, nonostante tutto, a resistere (a Milano ne sono rimasti tre). Si tratta infatti di esercizi a conduzione familiare o parrocchiale che non possono permettersi di pagare i 50 mila euro che costa il passaggio al digitale. Il risparmio per le produzioni è notevole, dagli 800 ai 1000 euro per la stampa delle copie. Business is business. Ma, come sempre, non si calcolano le perdite 'invisibili', quelle culturali e sociali. Secondo una recente ricerca della Fice, Federazione dei cinema d'essai, circa il 30% dei film 'di qualità' ' passa per i loro monosala. E in alcune piccole comunità raggiunge il 70, l'80 e a volte il 100%. Ma c'è anche un altro aspetto, sottolineato da Lionello Cerri, presidente dell'Associazione degli esercenti: «In certi centri il 'cinemino' è l'unico luogo di aggregazione». Quando ero ragazzo, a Milano c'erano i cinema di prima e seconda visione, tutti in centro, e almeno cento cine di terza dislocati nei vari quartieri, soprattutto in periferia, che a tre mesi dall'uscita davano, nell'arco della settimana, un western, un poliziesco, un giallo, un kolossal ma anche un film di qualità. La mia generazione ha visto a poche lire tutti i più importanti film dell'epoca, da Bergman a Truffaut a Fellini a Losey, in questi cine (pieni di fumo perchè allora non esisteva, e non solo in questo campo, il proibizionismo) e senza bisogno di andare allo snobistico d'essai (che dai noi era l'Orchidea, in via Terraggio). Era anche un modo per conoscere pubblici diversi, le cui reazioni facevano parte, in un certo senso, del film, e quartieri diversi, perchè finito il film si andava a mangiare in qualche pizzeria li' accanto.
A Milano quasi in ogni bar c'era un biliardo, mentre in un locale del retro si giocava a poker, a ramino pokerato, a tresette 'ciapano' ' e a qualsiasi altro gioco d'azzardo senza che al poliziotto di quartiere o al 'ghisa' venisse in testa di ficcarci il naso (la ludopatia non era stata ancora inventata e anche senza essere degli aficionados, come io sono stato, basta leggere Piero Chiara o Fenoglio per sapere che, soprattutto in provincia, c'è chi ha perso al tavolo del gioco intere fortune senza essere per questo considerato un malato, faceva parte della libertà). Anche il biliardo era un luogo di aggregazione, in questo caso generazionale, perchè vi giocavano, insieme, i giovani e gli anziani e spesso i secondi erano più bravi dei primi (adesso il rapporto fra giovani e anziani si è ridotto al fatto che qualche ragazzo di buona volontà ti viene a trovare quando sei un malato terminale). Ho chiesto a un mio amico barista perchè, a parte le sale specializzate dove giocano i professionisti (quelli che potete vedere, di notte, in Tv) a Milano non ci sia più un bar con un biliardo. «Perchè occupa troppo spazio». Meglio le slot, in fila, appoggiate al muro. Business is business. Ma a furia di pensare solo al 'Dio Quattrino', l'unica deità veramente condivisa, ci siamo distrutti non solo la cultura, la socialità, il senso comunitario di un Paese, ma edificando come dementi, sempre in nome del business, abbiamo distrutto un territorio meraviglioso, che mai più tornerà tale, e posto le premesse per le catastrofi di cui tutti parlano in questi giorni.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 22 novembre 2013
Ha sbagliato la grillina Emanuela Corda a pretendere che nel giorno in cui si commemoravano i 19 italiani, fra militari e civili, morti a Nassirya, che anche l'attentatore fosse considerato una vittima. Quel kamikaze non era una vittima, era consapevole, a differenza dei nostri, di andare incontro alla morte. Né è il principale responsabile di quella che un po' enfaticamente chiamiamo una strage (di ben altra entità sono gli eccidi consumati dall'Occidente in ogni parte del mondo, a cominciare proprio dall'Iraq, da quando è caduta l'Urss, e nello stesso Iraq i nostri militari hanno sparato, per un errore certamente, su un'autoambulanza, scambiandola per un pericoloso veicolo nemico, facendo, nella confusione, qualche decina di morti). Il primo responsabile è il governo italiano di allora a guida Berlusconi (ma poteva essere qualsiasi altro governo, anche se bisogna dare atto a Romano Prodi di aver messo fine nel 2006 a questa tragica farsa) che credendo alle proprie balle, e cioè che noi eravamo in Iraq in 'missione di pace', indusse in errore i comandanti militari che piazzarono la base del contingente quasi nel centro di Nassirya, “un bersaglio comodissimo” come ha detto di recente uno degli insorti iracheni che parteciparono a quell'atto di guerriglia.
Nel periodo in cui eravamo in Iraq un nostro elicottero intervenne in aiuto al contingente portoghese che si stava battendo contro gli insorti. Il mitragliere dell'elicottero punto' l'arma contro i guerriglieri, ma uno di questi fu più svelto, sparo' e l'uccise. La Procura militare di Roma apri' un'inchiesta contro quello che considerava un assassino. Che senso ha? Cosa doveva fare il guerrigliero? Dire all' 'amico italiano' “uccidimi pure, perché tu sei il bene e io il male, tu sei dalla parte della Ragione e io del Torto?”. Le ipocrite 'missioni di pace', che in realtà, a parte in Libano dove le forze internazionali si interpongono fra due nemici, sono invasioni, occupazioni, guerre, hanno ingenerato il losco equivoco per cui gli occidentali sono legittimati a uccidere, i loro nemici no. E invece in guerra lo straordinario diritto di uccidere, assolutamente proibito in tempo di pace, si giustifica solo con la possibilità di essere, altrettanto legittimamente, uccisi. Se uno solo puo' legittimamente colpire e l'altro solo subire si esce dalla logica della guerra. Anzi da ogni logica, caro Pigi Battista.
I familiari dei 19 morti di Nassirya piangono, è sacrosanto, i loro cari. L'intervento occidentale in Iraq, di cui noi italiani siamo stati complici per tre anni, ha causato, direttamente o indirettamente, dai 650 ai 760 mila morti secondo un semplice calcolo fatto da una rivista medica inglese confrontando i decessi dell'era di Saddam con quelli del dopo Saddam e altri se ne aggiungono ogni giorno, a centinaia, per la feroce guerra civile che si è scatenata fra sunniti e sciiti dopo l'intervento occidentale che, togliendo di mezzo il rais di Bagdad, ha spezzato l'equilibrio su cui si reggeva quel Paese e di cui non si parla più a meno che le vittime non siano cristiane (perché Saddam era un criminale, “l'impresario del crimine” lo chiamava Khomeini, che Allah lo abbia sempre in gloria, ma era un laico, si invento' leader dell'islamismo solo dopo la prima guerra del Golfo).
Forse che queste centinaia di migliaia di morti non hanno a loro volta padri, madri, spose, figli, fratelli che hanno un altrettale diritto di piangere? E allora smettiamola, caro Pigi Battista, col doppiopesismo e il dolore a senso unico. Proprio in nome di cio' che tu invochi: la logica.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2013
I poliziotti rubavano ai ladri. E' quanto emerge da una complessa indagine della magistratura milanese a carico di tre agenti della Polfer di Lambrate, ora arrestati, nella cui disponibilità sono stati trovati 140 chili di hashish, 4 di cocaina oltre a 50 mila euro. In sostanza i poliziotti sottraevano la refurtiva ai trafficanti e se la tenevano. E' vero che in Italia siamo ormai abituati a tutto (anni fa si scopri' che il comandante della Guardia di Finanza, Del Giudice, preposto alla vigilanza sulla frontiera italo-svizzera, era anche il capo dei contrabbandieri) ma la notizia fa ugualmente una certa impressione. Il questore di Milano Luigi Savina si è affrettato a dichiarare: ”Il comportamento di alcuni non puo' inficiare il lavoro di migliaia di agenti che ogni giorno svolgono il loro dovere con sacrificio e dedizione”. Sono d'accordo, io ammiro i magistrati e i poliziotti che continuano a fare il loro mestiere con coscienza e passione, rischiando spesso la vita (soprattutto i secondi, ma anche i primi) pur sapendo benissimo che, nella maggioranza dei casi, è del tutto inutile (Un paio di anni fa avendo assistito per tre giovedi' notte a fila a furibonde risse fra immigrati 'chicanos' in piazza Duomo, a Milano, con la polizia che stava a guardare a pochi metri, mi avvicinai al tenente che comandava il reparto e gli chiesi:”Perché non intervenite?”. “Se intervengo mi becco una coltellata e quelli, dopo qualche giorno, tornano comunque fuori. Percio' finché se la fanno fra di loro ci limitiamo a controllare che la rissa non debordi”). Scontate pero' le doverose parole del questore di Milano è indubitabile che la corruzione abbia investito ampi settori delle forze dell'ordine. Proprio nel giorno in cui Savina rilasciava queste dichiarazioni, a Napoli altri tre poliziotti venivano arrestati per millantato credito e abuso di ufficio. E se sono corrotti i poliziotti, vocati per mestiere al 'law and order' vuol dire che la corruzione è ormai penetrata a fondo nel tessuto sociale. Basta leggere il giornale di quello stesso 8 novembre in cui sono stati arrestati i tre agenti felloni della Polfer: a Nola è stata scoperta una maxi-truffa ai danni delle assicurazioni automobilistiche in cui sono coinvolte quattrocento persone, fra cui 52 medici (non dei quaraquaquà ma, come recita il provvedimento della Procura, “noti professionisti operanti nelle strutture pubbliche e private”) e 12 avvocati. A parte i politici, nazionali, regionali, provinciali, comunali, di cui ci sono noti da tempo i fatti e soprattutto i misfatti, non c'è ambito, professione, mestiere, attività, in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori un marcio che sgomenta quegli italiani che, con grande sforzo su sé stessi, sono riusciti a rimanere onesti in un contesto che cade moralmente a pezzi. Tre anni fa cosi' concludevo l'introduzione a un mio libro, 'Senz'anima', che racconta, attraverso i miei articoli, molti dei quali apparsi sul Gazzettino, le vicende italiane dal 1980 al 2010: “Un'Italia inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un'Italia senz'anima”.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 15 novembre 2013