“Era quasi verso sera/Se ero dietro, stavo andando/ Che si è aperta la portiera/ Ho cacciato giù, pardon, è caduto giù l'Armando” (L’Armando, Enzo Jannacci).
La data fatale non è il 17 maggio del 1972, giorno dell’omicidio del commissario Calabresi, ma il 12 dicembre del 1969 pomeriggio della strage alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, il primo attentato terroristico in grande stile avvenuto in quella terra di confine che era allora l’Italia. Da lì verrà tutto il resto.
Le indagini su piazza Fontana presero di mira gli anarchici, non perché ci fosse un depistaggio dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, ma perché era il bersaglio più comodo e più facile. Del resto alcuni giovani anarchici (Della Savia, Pulsinelli) erano già stati indagati per gli attentati di minor portata alla Fiera di Milano e alla Stazione centrale nell’aprile 1969. Verranno tutti assolti.
Nego nel modo più assoluto che Pino Pinelli, indagato insieme a Pietro Valpreda e ad altri anarchici per la strage di piazza Fontana, si sia buttato giù dal quarto piano della Questura di Milano gridando “E’ la fine dell’anarchia!”. Ero abbastanza dentro l’ambiente anarchico. Quando frequentavo il Berchet avevo conosciuto i ragazzi anarchici che nel 1962 avevano sequestrato il vice console spagnolo a Milano, peraltro senza torcergli un capello, come moneta di scambio contro la condanna a morte di Conill, un oppositore del regime franchista. Ho conosciuto Pino Pinelli. Era il classico anarchico idealista che non avrebbe fatto male a una mosca. Evidentemente in Questura, poiché bisognava trovare un responsabile a ogni costo, avevano picchiato Pinelli fino a spezzargli l’osso del collo. Poi, per mascherare il misfatto, l’avevano buttato giù dalla finestra (“è caduto giù l’Armando”). Il commissario Calabresi in quel momento non era nella stanza e fu assolto. E noi rispettiamo le sentenze della Magistratura italiana. Allora però bisogna anche accettare la sentenza definitiva del 1996 per la quale Ovidio Bompressi, come esecutore materiale, Leonardo Marino, come autista, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, come mandanti, furono condannati per l’omicidio del commissario Calabresi. All’inizio, subito dopo l’omicidio del commissario, le indagini non si indirizzarono come sarebbe stato ovvio e naturale sugli ambienti di Lotta Continua, che fra il 1970 e il 1972 aveva condotto sul proprio giornale una micidiale campagna contro la persona di Luigi Calabresi. In quegli anni non era lecito indagare sulla sinistra culturalmente egemone. Si preferì puntare, perdendo del tempo prezioso, sui neofascisti allora accusati e accusabili di tutto. Fu preso di mira, fra gli altri, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di imprenditori marchigiani, militante delle Squadre d’Azione Mussolini. Nardi risulterà poi completamente estraneo ai fatti.
Le indagini sull’omicidio del commissario Calabresi si arenarono e per lungo tempo entrarono in una sorta di limbo. Ma nel 1988 c’è il colpo di scena. Leonardo Marino confessa prima a un prete e poi ai carabinieri di essere uno degli autori dell’omicidio Calabresi. Sulle prime fa solo il nome di Bompressi ed è restio a tirare in ballo i mandanti. Poi li indica in Adriano Sofri, leader indiscusso di Lotta Continua, e nel suo braccio destro Giorgio Pietrostefani. Sofri viene arrestato. Devo dire che nel processo quelli di Lc si difesero molto male. Negarono anche l’evidenza quando non era necessario. Negarono anche gli “espropri proletari”. Uno fu compiuto con la mia macchina, una Simca coupé rossa. Me la chiese un mio amico di Lc, Illio Frigerio, col motivo che ne aveva bisogno per corteggiare una ragazza. Il giorno dopo mi restituì la macchina, intatta, ma mi confidò che era servita a un gruppo di suoi amici di Lc per uno di questi “espropri proletari”. In quanto a Pietrostefani sembrava quasi che non fosse mai stato in Lotta Continua mentre chiunque abbia frequentato anche solo un poco Lotta Continua di quegli anni sapeva che Pietrostefani era l’uomo d’ordine, il braccio forte del movimento. Qualsiasi problema si ponesse dicevano “chiedilo a Pietro”, “lo sa Pietro”.
Marino non era un “pentito” come tutti gli altri. Non si era pentito per ragioni giudiziarie, cioè per avere gli sconti della legislazione premiale, ma per un turbamento morale. Non era uno che stava in carcere e che aveva bisogno di fare delazioni. Era un uomo a piede libero, che vendeva frittelle a Bocca di Magra, e che nessuno stava cercando. Chi glielo faceva fare, con la certezza di beccarsi molti anni di galera (saranno 11, poi non scontati, in virtù della sua collaborazione ma soprattutto perché Sofri e gli altri portarono il processo talmente per le lunghe che per Marino scattò la prescrizione)?
Tutta l’intellighenzia di sinistra si scatenò contro Marino. Insinuò che il “pentito” aveva ricevuto 200 milioni per vuotare il sacco. Di questa accusa si fece portavoce, ma è solo uno dei tanti esempi, Claudio Martelli, che era amico personale di Adriano Sofri. Bene, se voi qualche anno fa (oggi non so) andavate a Bocca di Magra, trovavate Leonardo Marino a vendere, come sempre, le sue frittelle. Evidentemente dalla sua confessione non aveva ricavato un quattrino.
La campagna a favore dell’innocenza di Sofri fu imponente, quasi impressionante. Vi parteciparono in prima linea, ed era scontato, Giuliano Ferrara, Claudio Martelli, Luigi Manconi, Enrico Deaglio, Marco Boato, e poi tanti altri, uomini di cultura e artisti, che con Lc c’entravano pochissimo o niente, a dimostrazione del fascino che quest’uomo ha sempre esercitato non solo sui suoi coetanei.
Adriano Sofri poté godere della revisione del processo, caso quasi unico nella storia del diritto penale italiano recente (in tutto nell’ultimo quarantennio ce ne sono state una decina). Ma non c’è stato nulla da fare, il verdetto definitivo fu 22 anni a Sofri, Pietrostefani, Bompressi, 11 a Leonardo Marino.
Ciò non toglie che Adriano Sofri, che rimane comunque il leader carismatico di Lotta Continua, una delle tante lobbies che imperversano nel nostro Paese, sia diventato, sia quando era ancora in carcere, sia dopo, suppongo per meriti penali, editorialista del principale quotidiano di sinistra, La Repubblica, e di quello che per molti anni è stato il principale settimanale della destra, Panorama. Attualmente collabora con il Foglio, ma qualsiasi sia il pulpito continua a darci lezioni di morale.
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2022
Nell’orgia di retorica che ci ha investito dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina credo che la Palma d’Oro – ed era davvero difficile primeggiare in una competizione in cui si sono cimentati tutti o quasi - spetti di diritto a Walter Veltroni.
Mettendosi sulle spalle di Elie Wiesel (fa sempre comodo appoggiarsi a un ebreo anche se in questo caso gli ebrei non c’entrano nulla, né nel bene né nel male) l’onorevole Veltroni bolla l’indifferenza con cui gli occidentali, categoria cui mi onoro di non appartenere, stanno assistendo alla tragedia ucraina. A me non pare proprio. Ma quale indifferenza? L’Europa, totalmente sottomessa ai voleri di Joe Biden che sta conducendo, attraverso il burattino Zelensky, una sua personale guerra contro l’ex Unione Sovietica, sta riempiendo di sanzioni la Russia e di armi l’Ucraina.
Scrive l’indignato Veltroni, promosso per demeriti politici ad editorialista della Gazzetta dello Sport e del Corriere della Sera, autore di film inguardabili: “Ci sembrano normali, davvero normali, l’invasione di un Paese sovrano, i bombardamenti sui civili – tremila morti dice l’Onu – le fosse comuni, gli stupri di donne e bambini, la sistematica distruzione di case e acquedotti? Siamo talmente narcotizzati da non stupirci più?” (Corriere della Sera, 6/5/22).
Certo che non sono normali. Ma siamo “narcotizzati” dalle violenze occidentali perpetrate negli ultimi vent’anni. Come non era normale l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001, durata vent’anni, che ha causato 300 mila morti civili, cifra per difetto perché nessuno si è mai preso la briga di calcolarli in modo serio, e di 70 mila combattenti talebani che però non si sono mai abbandonati ai piagnistei di Zelensky né se la sono data da catilinari votati alla morte come quel comandante o sub comandante del dubbio battaglione Azov intervistato l’altro giorno da sky tg24. Al contrario, il capo dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, il Mullah Omar, legittimamente al potere, se è legittimo un potere che si conquista dopo una guerra combattuta contro i prepotenti, è stato regolarmente infamato e accusato di ogni genere di nefandezze insieme ai suoi talebani che continuano ad esserlo anche ora. Chi era allora l’aggredito? L’Emirato Islamico d’Afghanistan. Chi erano allora gli aggressori? Gli americani col codazzo dei loro servi occidentali e anche non occidentali (la nobilissima e democratica Turchia). Eppure per i bombardamenti a tappeto su Kabul, su Kandahar, su Mazar i Sharif, su Kunduz, “la sistematica distruzione di case e acquedotti”, la cancellazione a suon di bombe di ospedali come quello di medici senza frontiere a Kunduz, l’uso di gas tossici e armi chimiche, i proiettili all’uranio impoverito, l’onorevole Walter Veltroni, e tutti i Veltroni dell’Occidente, non si è mai indignato. Quando siamo noi gli aggressori vale tutto. Anche le torture abbondantemente utilizzate a Guantanámo. Del resto i Talebani erano dei “terroristi” e forse nemmeno propriamente degli esseri umani. Come oggi, per la Russia di Putin, gli ucraini sono solo dei “nazisti”. Per altro in vent’anni, prima che gli occupanti, fra cui c’erano anche gli italiani, fossero cacciati nel più ignominioso dei modi, nessuna voce, nemmeno quella del Papa che è pronto a chiagne per ogni cosa, si è mai levata a difesa degli afgani, tantomeno quella di Walter Veltroni.
Scrive ancora l’onorevole Veltroni: “Ma la comunità e il diritto internazionale non possono prescindere dall’integrità dell’Ucraina e dalla sua sovranità, dalla riconquista della possibilità per quel popolo di tornare a vivere e a decidere autonomamente il suo destino”. Evidentemente gli afgani non avevano il diritto di “decidere autonomamente del proprio destino”, se lo sono dovuti riprendere con la forza delle armi e del loro coraggio.
L’onorevole Veltroni si indigna perché con la sua aggressione la Russia ha violato l’integrità di uno Stato sovrano. Vero. Ma non era uno Stato sovrano l’Iraq di Saddam Hussein? Non era uno Stato sovrano la Libia del colonnello Muammar Gheddafi? Eppure l’Iraq e la Libia nel momento in cui sono stati aggrediti (2003 e 2011) erano Stati accreditati all’Onu. Evidentemente per l’onorevole Veltroni, e per tutti i Veltroni dell’Occidente, Stati sovrani sono solo i nostri o quelli dei nostri amici o quelli di chi ci fa comodo (come l’Egitto del molto commendevole Abdel Fattah Al Sisi o, perché ha il gas, l’Algeria dei generali tagliagole che nel 1991 con un colpo di Stato occuparono il potere o piuttosto se ne riappropriarono dopo decenni di una dittatura sanguinaria). Non era uno Stato sovrano la Serbia di Slobodan Milosevic? Eppure una grande capitale europea come Belgrado fu bombardata dagli americani per 72 giorni a favore dell’indipendentista Kosovo. Il che non legittima i bombardamenti di Putin su Kiev, ma gli offre un prezioso precedente per bombardarla a favore degli indipendentisti del Donbass (la situazione Serbia-Kosovo e Ucraina-Donbass è simmetrica).
Walter Veltroni scrive anche di “oceaniche manifestazioni” quando fu invaso e occupato l’Iraq nel 2003. Le ha viste solo lui, forse in sala di montaggio.
Veltroni scrive che l’indifferenza è una brutta cosa. Ma peggiore dell’indifferenza è la retorica di cui l’onorevole Walter Veltroni, e tutti i Veltroni dell’Occidente, utilizza a piene mani piegando e falsificando, a suo uso e consumo, i dati della realtà.
Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2022
Nella semifinale di Champions il Manchester City è riuscito a farsi buttar fuori da un mediocre Real Madrid. La responsabilità è dell’allenatore Guardiola. Pep Guardiola è considerato un fenomeno perché ha vinto due Champions. Ma le ha vinte con il Barcellona di Piqué, Busquets, Xavi, Iniesta e, come ciliegina sulla torta, Lionel Messi. Quel Barcellona poteva guidarlo anche Topolino. Purtroppo Guardiola non solo è considerato un fenomeno, ma lui stesso si ritiene tale e vuole sempre dimostrare che non è la sua squadra a vincere, ma lui a farla vincere.
Ricapitoliamo. A Manchester il City aveva vinto 4 a 3. Si presentava quindi nel ritorno al Bernabeu con un gol di vantaggio. Al 27’ del secondo tempo le squadre erano sullo 0 a 0 e quindi il Manchester qualificato. Bastava palleggiare, come il City sa fare, per una ventina di minuti, ed era fatta. Che cosa fa il genio Guardiola? Tira fuori Kevin De Bruyne, il capitano e l’anima della squadra. E’ vero che De Bruyne non era in una delle sue giornate migliori, anche se un passaggio filtrante l’aveva fatto e subito dopo aveva costretto Curtois al miracolo, ma De Bruyne è uno di quei giocatori che non si fanno uscire mai, come Robert Lewandowski nel Bayern o Benzema nel Real. Sulle prime la mossa di Guardiola sembra premiarlo, un minuto dopo il subentrato Gundogan, anch’egli un fuoriclasse, imbecca Mahrez, fino ad allora nullo, che segna. Partita finita? Sembrerebbe di sì perché il Real deve segnare due gol ed è costretto a scoprirsi e a giocare con quattro attaccanti. Ma Guardiola non vuole solo vincere, vuole stravincere. Butta in campo “l’oggetto misterioso” Grealish, costato chissà perché 50 milioni, che riesce a mangiarsi due gol solo davanti al portiere. Si sa come vanno le cose nel calcio. Scampato il pericolo l’inerzia della partita si volge a favore del Real che segna due gol proprio alla fine del secondo tempo regolamentare. Si va ai supplementari. C’è un rigore, sacrosanto, per il Madrid, tira e segna Benzema che non è mai entrato in partita ma che Ancelotti si è ben guardato dal togliere.
La finale del 28 maggio allo Stade de France sarà quindi Liverpool, allenato dal più saggio e assennato Klopp, Real Madrid, allenato dall’altrettanto assennato Ancelotti. Ci sarà lo stadio colmo, il solito, glorioso, inno della Champions e delle squadre, altre musiche perché gli stadi di calcio sembrano avvicinarsi sempre di più alle discoteche (irritantissima è la profusione di musica che si ha nelle riprese televisive, assordante fino a coprire la voce dello speaker quando comunica i nomi dei giocatori delle due formazioni).
Il 28 maggio sarà quindi il trionfo del calcio? Non bisogna farsi ingannare. Il calcio, anche se lo non sa o finge di non saperlo, se non è ancora morto è però moribondo. Per ingordigia di denaro. Tutti vogliono spartirsi la torta. In particolare, ma certo non solo, i network che lo trasmettono. Sky si è tenuta la Champions ma ha ceduto il Campionato italiano a DAZN, che si vede molto male, tenendosi però tre partite a sorpresa. Una partita di Champions, quella considerata più interessante, è andata invece ad Amazon. Risultato: fra tutt’e tre hanno perduto otto milioni di telespettatori, non solo, e non tanto, perché uno non vuole spendere per tre abbonamenti, ma perché il tifoso è disorientato. Ci vogliono gli algoritmi per sapere quando e dove si può seguire la squadra del cuore o una partita che ti interessa particolarmente.
Quest’anno il Campionato del mondo si terrà in novembre a Doha nel Qatar dove non hanno mai visto un pallone. Ma gli Emirati hanno i soldi e il calcio (e i suoi protagonisti, dirigenti, procuratori, giocatori) è da tempo che segue solo i soldi. I giocatori, soprattutto quelli super pagati, cambiano squadra quasi ogni anno a seconda degli ingaggi. I procuratori, che sono al centro di queste trame, guadagnano più dei giocatori. Le maglie tradizionali cambiano colore a seconda degli sponsor. La legge Bosman ha distrutto i vivai. E questo è uno dei motivi per cui nelle squadre italiane (ma il discorso vale per tutte le squadre europee) in A, in B e persino in C, si vedono quasi solo giocatori stranieri. Ma la cosa riguarda anche le proprietà. Quella dell’Inter è cinese, quella del Milan è un Fondo americano, quella della Roma è pur essa americana, il presidente del Paris Saint Germaine, che continua a spendere centinaia di milioni senza cavare un ragno dal buco, è Nasser Al-Khelaïfi, Qatar.
La vecchia Coppa dei Campioni si giocava a eliminazione diretta che dava anche qualche possibilità alle squadre minori, la Champions a gironi, quindi più partite, più soldi, più infortuni fra i giocatori sottoposti a uno stress continuo.
Per esigenze televisive, e quindi per una questione ancora di quattrini, le partite non si giocano più nel rituale santo giorno di domenica, e nemmeno allo stesso orario. Il venerdì c’è un anticipo di B, il sabato la B e due anticipi di A, la domenica ma ad orari diversi, da mezzogiorno alle 20.45, il grosso delle partite di A, il lunedì il posticipo di A e, se poi si è nel periodo delle competizioni europee, il martedì c’è la Champions, il mercoledì ancora Champions, il giovedì l’Europa League. Una overdose insostenibile. Per non farci mancar nulla si è inventata una Conference Cup che coinvolge le squadre che si sono piazzate settima e ottava nel campionato.
Dal 1987, con l’introduzione del “terzo straniero”, il calcio da stadio, cioè il vero calcio, ha perso circa il 40 per cento degli spettatori.
Questi qui credono che il calcio sia solo spettacolo e business. Ma il calcio è (era) qualcosa di molto più profondo. Per un secolo il calcio è stato una grande festa nazional-popolare, interclassista, che si faceva la domenica, in sostituzione di altre cadute in disuso. Attorno alla partita si coagulavano elementi rituali, mitici, simbolici, sentimentali, emotivi che, al di là del gioco e dello spettacolo, costituivano la vera ragione della passione per il calcio e della sua fortuna: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione, fra gli “anziani” e i giovani del vivaio e della Primavera. Il business ha emarginato tutti questi elementi a favore di uno spettacolo asettico, buono per tutte le bocche, in particolare per quelle del consumatore televisivo. Oggi ogni processo di identificazione è diventato impossibile. Nel frattempo la politica degli abbonamenti e dei prezzi ha tolto al calcio da stadio il suo connotato interclassista: la suburra va dietro le porte, gli altri, a seconda del loro status, nelle diverse tribune. La Festa, il rito domenicale, quello della vigilia, l’identificazione, il simbolismo, il ritrovarsi in modo comunitario, cioè i contenuti sentimentali e sociali del calcio, quanto in esso c’è di concretamente umano, sono stati sacrificati all’astrazione-denaro. Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe anche diventare, come tutto il resto, virtuale. Una play station insomma.
Secondo gli addetti ai lavori, inconsapevoli aspiranti suicidi, tutto questo è molto razionale , molto logico ed “economically correct”. Ad ogni buon conto il calcio va a ridursi a un qualunque spettacolo televisivo da fruirsi solipsisticamente a casa. Perdendo tutti i suoi connotati specifici susciterà un interesse sempre più generico, vago, intercambiabile che, come tale, prima o poi svanirà.
Così, a furia di spremerla, gli apprendisti stregoni avranno ucciso la “gallina dalle uova d’oro”, realizzando, è il caso di dirlo, l’ennesimo autogol.
Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2022