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“Un giorno in pretura“, un programma che andava su Rai 3 era nato nel 1988. Dava in diretta i processi di competenza pretorile, per reati cioè la cui pena massima non superi i quattro anni. Insomma reati quasi bagattellari.

Fine febbraio 1992. Io lavoravo all’Indipendente di Feltri, ma in quei giorni ero in vacanza nella casa di proprietà dei genitori della mia fidanzata. Una sera il padre di lei, che come tutti gli anziani passava ore davanti al piccolo schermo, mi venne a cercare e mi disse: “Vieni a vedere la tv, c’è una trasmissione interessante, curiosa”. Andai e vidi qualcosa che allora aveva dell’incredibile. Un noto politico democristiano alla sbarra, messo sotto il torchio da un tipo massiccio, atticciato, dall’aria contadina, il Pubblico ministero. Era Antonio Di Pietro. Fu una trovata geniale quella di Francesco Saverio Borrelli, che dirigeva la Procura di Milano e il gruppo di magistrati che sarebbe stato poi chiamato “il Pool di Mani Pulite”, che allora comprendeva solo Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro (Ilda Boccassini, Davigo, Greco si aggiunsero dopo) di affidare gli interrogatori in aula, tutti quelli che potemmo vedere in tv, proprio a Di Pietro. Agli indagati che cercavano di difendersi col solito, fumoso, politichese Di Pietro opponeva il suo buonsenso contadino e a quel politichese totalmente fuori dalla materia del contendere replicava col suo famoso: “che c’azzecca”? Vedemmo sfilare una serie di intoccabili con tutta la loro miseria. A me colpì molto l’interrogatorio di Claudio Martelli uscito dalla casa di Carlo Sama con 500 milioni in contanti nascosti in un giornale. Claudio era stato mio compagno di banco al liceo classico Carducci. Ma come, dicevo fra me, noi siamo stati educati nei migliori licei di Milano per diventare classe dirigente  e tu sgattaioli con 500 milioni in tasca come un malandrino qualunque. Ricordo lo sguardo di Martelli rivolto a Di Pietro. Era di ghiaccio. Se avesse potuto ucciderlo, almeno col pensiero, l’avrebbe fatto. Martelli aggravò la sua posizione affermando che pensava che quei 500 milioni non fossero della Montedison ma personali di Sama. Martelli ne uscirà con un “patteggiamento” restituendo quei 500 milioni. 

Mani Pulite ebbe all’inizio un grande consenso da parte della popolazione, stufa dell’arroganza impunita della classe dirigente, e anche della grande stampa che aveva la coda di paglia per aver taciuto e assecondato il regime. Ma ebbe anche un eco internazionale . Si plaudiva all’Italia che aveva il coraggio di ripulire in pubblico i propri panni sporchi.

Certamente ci furono degli eccessi in quei due anni. Ma non da parte della Magistratura. Ma da parte di una popolazione inferocita presa dalla sindrome ben descritta da Buzzati in: “Non aspettavano altro” (le monetine lanciate a Craxi davanti al Raphael, l’inseguimento del ministro degli Esteri Gianni De Michelis fra le calli di Venezia). Per accanimento forcaiolo si distinse proprio Feltri (diventerà “ipergarantista” quando passerà alla corte di Berlusconi): la foto di Enzo Carra in manette sbattuta in prima pagina, l’appellativo di “cinghialone” affibbiato a Bettino Craxi trasformando così una legittima inchiesta della magistratura in una “caccia sadica”, il coinvolgimento dei figli di Craxi. Toccò a me, sempre sull’Indipendente difenderli (Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi - L’Indipendente, 11-5-1992 ) e in qualche modo lo stesso Craxi nel momento della sua caduta quando improvvisati fiocinatori, fra cui eccellevano alcuni suoi amici, si accanivano sulla balena ferita a sangue (Vi racconto il lato buono di Bettino – L’Indipendente, 17-12-1992).

Uno dei tanti errori di Craxi fu di definire Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante il 17 febbraio 1992 mentre buttava una mazzetta nel cesso, un “mariuolo” come se si trattasse di una mela bacata in un cesto di mele immacolate. Se avesse fatto in quel momento la chiamata di correità di tutti i partiti avrebbe avuto un valore, farla in Parlamento cinque mesi dopo nel luglio del 1992, quando era stato pescato lui stesso con le mani sul tagliere, era troppo comodo.

Passata la prima buriana la classe politica cercò di reagire, col famoso decreto “salvaladri” del ministro della Giustizia Biondi (primo governo Berlusconi) che metteva in libertà numerosi detenuti di Tangentopoli. Ma era troppo presto. Il decreto fu ritirato per la reazione popolare e perché quattro magistrati Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in tv affermando che se le cose stavano così avrebbero chiesto di essere assegnati ad altro incarico.

Il più astuto a cercare di approfittare della situazione fu Berlusconi. Prima cercò di lisciare il pelo ai magistrati offrendo a Di Pietro, che la rifiutò, la carica di ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro diverrà poi nel linguaggio berlusconiano “un uomo che mi fa orrore”) poi, inquisito a sua volta, innescherà la reazione attaccando senza soste i magistrati di Mani Pulite e la Magistratura in generale e suonando la grancassa dell’anticomunismo perché a essere spazzati via dalle inchieste furono la Dc, il Psi, il Pli, il Pri, mentre il Pci si era in qualche modo salvato, perché il compagno Primo Greganti arrestato si rifiutò, in perfetto e coerente stile vecchio Pci, di fare qualsiasi nome, di imprenditori e tantomeno di uomini del suo partito. Durante gli anni della reazione berlusconiana il fuoco di fila si concentrò soprattutto su Antonio Di Pietro messo sette volte sotto processo e sette volte assolto.

Perché fu possibile Mani Pulite? I suoi presupposti vengono da lontano. Col collasso dell’URSS era venuta meno la paura dell’”orso russo” e quindi anche il detto di Montanelli secondo il quale era necessario votare la Dc (“turatevi il naso”). Nel frattempo era nata la Lega di Umberto Bossi, il primo, vero, partito d’opposizione dopo anni di consociativismo perché il Pci era stato appunto associato al potere. Se quindi prima era possibile innocuizzare i magistrati che cercavano di ficcare il naso nella corruzione politico-imprenditoriale senza che nessuno osasse alzare una voce, adesso questa voce c’era e si chiamava Lega. E al Nord, che era particolarmente colpito dalla corruzione, la Lega prendeva il 40 per cento dei consensi, non solo provenienti dalla Dc,  e non si poteva ignorarla.  Prima della nascita della Lega il sistema per paralizzare le inchieste era quello di farle finire alla Procura di Roma, non a caso chiamata “il porto delle nebbie”, che  regolarmente le insabbiava.

Oggi, a trent’anni di distanza, si cerca di capovolgere completamente la storia di Mani Pulite. S’inventano tesi molto fantasiose come quella che vede dietro Mani Pulite gli americani. Non si vede proprio perché mai gli americani volessero la distruzione di partiti atlantisti a favore dell’unico partito che atlantista non era, il Pci- Pds. E ci fermiamo qui perché le fake in materia sono innumerevoli.

È vero invece che Mani Pulite non ha cambiato l’Italia in meglio, ma in peggio. Ma questa non è responsabilità dei magistrati di Mani Pulite, ma della politica. Mani Pulite, che richiamava anche la classe dirigente al rispetto di quella legge che noi tutti siamo tenuti ad osservare, avrebbe potuto essere una lezione e un’occasione per questa stessa classe dirigente per emendarsi dalla propria corruzione. E invece nel giro di pochi anni, per la politica ma anche per i grandi giornali, i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici.

Non c’è quindi da stupirsi se, con simili esempi, la corruzione discendendo giù per li rami abbia finito per coinvolgere quasi tutti, anche cittadini che per loro natura sarebbero onesti ma che non vogliono passare per “i più cretini del bigoncio”, e insinuarsi in ogni ambito della nostra vita istituzionale e sociale, compresa la stessa Magistratura. E così il cerchio si chiude.

Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2022

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Camminate sullo stretto sentiero di un bosco. È scesa la sera, è iniziata la notte. Il buio e il silenzio, abbastanza impressionante per chi viene dalla città, inducono alla meditazione. Ma man mano che procedete e le vostre orecchie si fanno più attente sentite un rumore di sottofondo un po’ inquietante. Che cos’è? Acufene? O venite da una lettura recente di un racconto di Buzzati dove tutto, anche le più normali cose, assume un aspetto angosciante? O è forse il ronzio delle api che, anche nottetempo, stanno organizzando, in modo militare, il loro alveare con ordini precisi e inderogabili che riguardano le operaie, le infermiere, i fuchi destinati alla morte,  sia quelli che perderanno la partita sia il solo che riuscirà a fecondare l’Ape Regina soccombendo subito dopo l’amplesso, o l’Ape Regina stessa? Ordini che nessuno ha dato, ma rispondono a quella che l’entomologo Jean-Henri Fabre ha definito “la Legge” e che noi chiameremo più semplicemente l’istinto. No, quello che sentiamo in sottofondo non è il classico ronzio delle industriose api. È piuttosto un cric, crac, uno sbocconcellare di qualcuno, migliaia di qualcuno, nascosto nel tronco degli alberi o nelle loro radici. Sono “i divoratori della foresta”, un cerambice eroe, cioè un tarlo, un cervo volante, uno scolito, una saperda, un sirice. Questi insetti, minuscoli, sbocconcellano il legno dell’albero o la sua cellulosa, sia per alimentarsi sia per trovare cavità più profonde dove starsene al sicuro. Sbocconcella un giorno, sbocconcella un altro, l’albero, dai e ridai, cadrebbe stecchito a terra. Ed in effetti qualche vecchio pioppo, abitato dalla saperda, ogni tanto crolla a terra, come ben sappiamo. Ma in linea di massima i boschi e le foreste rimangono intatti. Com’è possibile? È possibile perché questi insetti, e mille altri che si potrebbero nominare, hanno un antagonista, un parassita chiamato icneumone che distrugge i “distruggitori”. Se non esistesse l’icneumone, le piante, i boschi, le foreste, rase al suolo, non potrebbero mettere in atto la loro vitale funzione dello scambio fra anidride carbonica e ossigeno. E quindi senza il minuscolo icneumone non perirebbero solo le foreste ma anche l’uomo cui l’ossigeno è indispensabile come l’ossigeno.

Questa favoletta, che favoletta non è, ci racconta dello straordinario equilibrio con cui la Natura, di cui l’uomo fa parte, tiene se stessa (“un equilibrio sopra una follia” per dirla con Vasco).

“La Natura ci parla e sa” scrive Fabre. Ma è da quel dì che noi non ascoltiamo più la Natura. Da quando la rivoluzione  scientifica del Cinquecento / Seicento (Copernico, Keplero, Galilei, Newton) ha innescato quella industriale di metà del XVIII secolo, razionalizzata poi nell’Ottocento dall’Illuminismo sia in versione liberista che marxista. Da allora l’uomo è stato preso da un ubris, da un delirio di onnipotenza incontenibile, al cui centro c’è la domanda: che cosa dobbiamo fare per dominare tecnicamente la Natura e la vita? Ma che senso, e quale, abbia questo dominio la Scienza, come già notava Max Weber intorno al 1920 (Il lavoro intellettuale come professione), non ce lo dice, lo dà solo come presupposto, un “a priori” incontestabile. E invece un senso ce l’ha, purtroppo. Ed è quello di portarci il più rapidamente possibile, alterando costantemente i delicati meccanismi della Natura (che in realtà è la Tecnica che sovraintende a tutte le tecniche), verso l’autodistruzione.

La biodiversità (come peraltro ogni diversità) è fondamentale per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. È stato calcolato, in modo ovviamente approssimativo, che le specie vitali, non solo animali evidentemente (perché tutto ciò che è vivo, che non è minerale, fa parte dell’ecosistema) fossero circa 11 milioni. Negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo distrutto l’83 per cento. Finora la Natura è riuscita a metterci, in qualche modo, una pezza. Di questo ciclo vitale le industriose api sono un elemento fondamentale e le api stanno via via scomparendo  a causa delle pratiche agricole intensive, l’uso dei fertilizzanti, l’inquinamento e le elevate temperature dovute al cambiamento climatico. Tout se tient. Diceva Albert Einstein che il giorno in cui non ci saranno più le api sarà anche l’ultimo giorno della vita dell’uomo sulla Terra.

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Il cronista del Giornale Stefano Zurlo intervistando Giuliano Pisapia, figlio di Gian Domenico Pisapia un giurista di grande valore, con cui mi onoro di essermi laureato a pieni voti, ma peraltro autore, con le migliori intenzioni, della disastrosa riforma del codice di procedura penale del 1989 (un incrocio fra sistema accusatorio e inquisitorio). Lì Pisapia jr. ha affermato che bisogna andare oltre “la solita litania sulla lentezza dei dibattimenti”. Peccato che questa litania sia “solita” per la semplice ragione che la lentezza dei processi va ad incidere pesantemente su alcune questioni fondamentali: la carcerazione preventiva, la “presunzione di non colpevolezza”, la certezza della pena, la libertà di stampa.

È ovvio che più lunga è la durata dei processi, più lunga può diventare la carcerazione preventiva. Senza arrivare ai casi clamorosi di Giuliano Naria, il presunto terrorista rosso che fece nove anni di carcerazione preventiva per essere poi riconosciuto innocente, oggi le nostre carceri sono zeppe di persone in attesa di giudizio. Questo per gli stracci, gli altri vanno agli “arresti domiciliari”, anche questa una discriminazione sociale inaccettabile motivata dalla considerazione che i “colletti bianchi” soffrirebbero di più il carcere perché non ci sono abituati.

La “presunzione di non colpevolezza” fino a condanna definitiva è un principio fondamentale del diritto. Ma se i processi si allungano all’infinito diventa di fatto una presunzione di impunità perché i processi finiscono inevitabilmente sotto la mannaia della prescrizione o della “improcedibilità” con cui la ministra della giustizia Marta Cartabia, con un gioco direi quasi di parole, ha cercato di mascherare la prescrizione. Teniamo presente che se un imputato è sempre, e giustamente, un presunto innocente, la vittima del reato è però certa e ha quindi più diritto degli altri di avere una giustizia che invece, prescrizione operans, non avrà mai.

La prescrizione poi annulla la certezza della pena che è un altro dei cardini di un buon funzionamento della giustizia e della società stessa. Le pene non devono essere troppo dure né tantomeno “esemplari”, come s’è detto e fatto troppe volte sotto spinte emozionali, ma devono essere certe.

L’abnorme durata dei nostri procedimenti impedisce di tutelare la loro segretezza. Nel codice di Alfredo Rocco (ministro della giustizia durante l’era fascista) le cui norme hanno avuto valore fino al 1988, l’istruttoria era segreta, il dibattimento ovviamente pubblico (nei sistemi totalitari è segreto anche il dibattimento). Ciò a tutela delle persone che durante la fase, per forza di cose incerta e a tentoni delle indagini preliminari, possono essere impigliate in un’inchiesta alla quale sono estranee. Cioè in un sistema ben regolato la polizia giudiziaria e il pubblico ministero portano alla valutazione del Gip il materiale che hanno raccolto. Il Gip scarta i fatti irrilevanti e porta al dibattimento solo quelli che sono utili al processo e così, a parer mio, dovrebbe essere. Ma così non è stato. Perché in questi anni i media hanno potuto violare un segreto istruttorio che di fatto non esiste più. Con conseguenze devastanti. Oggi basta che un personaggio pubblico sia raggiunto da un “avviso di garanzia”, che in teoria dovrebbe essere a sua tutela, perché si scateni il “tritacarne massmediatico” da parte di questa o quella formazione politica e dei media ad essa aggiogati. Ma, d’altro canto, se le istruttorie durano anni, impedire ai media di raccontarle finisce per essere un’inaccettabile mordacchia alla libertà di stampa. Ritorniamo quindi e sempre al problema dell’abnorme lunghezza delle nostre procedure. In Gran Bretagna durante le istruttorie i media forniscono solo le iniziali dell’indagato indicato come “persona informata dei fatti” e non possono fare nemmeno il nome del giudice inquirente ad evitare che costui voglia farsi pubblicità evitando così la canzoncina che da anni è il leitmotiv delle destre italiane per squalificare le indagini. Ma in Gran Bretagna se c’è un imputato detenuto le istruttorie durano dai 28 ai 32 giorni a seconda della diversa composizione del Giurì cioè della diversa gravità del reato. Ma questo da noi è impensabile. In attesa che si metta mano seriamente a una riforma del codice di procedura penale che lo ripulisca degli infiniti ricorsi e controricorsi, esami e controesami e delle leggi cosiddette garantiste con cui è stato inzeppato il codice durante l’era Berlusconi, che in realtà si risolvono in un danno per l’innocente, il cui interesse è essere giudicato il prima possibile, e in un vantaggio per il colpevole il cui interesse è esattamente l’opposto, troviamo ragionevole la mediazione proposta dal procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi che ha inviato una circolare a tutti gli uffici giudiziari raccomandando di limitare al massimo le conferenze stampa e di non indicare come “colpevole” l’indagato. È già qualcosa. Anche se in passato, un passato ormai lontano, era una norma di civiltà che il magistrato si esprimesse solo “per atti e documenti”. Ma quelli erano altri tempi, altri uomini, altro tutto.

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2022