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Poiché a noi anziani le Autorità, politiche, scientifiche, mediche impediscono ogni socialità, per tutelarci naturalmente, facendoci così morir di inedia, il giorno dell’Epifania, non avendo null’altro da fare, mi sono messo a rivedere le cassette di alcuni vecchi talk. Fra gli altri mi è capitato fra le mani uno “Speciale Sottovoce” dell’ottobre 2002 condotto da Gigi Marzullo. C’erano due scrittrici, Barbara Alberti e Patrizia Carrano, che presentava il suo libro “Le armi e gli amori”, la bella, affascinante e simpatica Moran Atias, di origine israeliana, conduttrice televisiva, Katia Pietrobelli, attrice, Rossana Casale, cantante, Paola Rivetta, anch’essa conduttrice Tv, il giovanissimo Diaco, e il sociologo Sabino Acquaviva l’unico prof della compagnia. Io presentavo “Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità”. Poiché si dava già per certo l’attacco americano all’Iraq, responsabile di possedere armi chimiche (che per la verità gli avevano fornito gli americani, i francesi e, via Germania Est, i sovietici in funzione anticurda e antiraniana e che non aveva più, per la semplice ragione che le aveva già usate, nel silenzio generale, sulla cittadina curda di Halabya – 5.000 morti in un sol colpo – e contro l’esercito iraniano) il discorso collettivo s’è fatalmente concentrato sul mio libro. Quindi su questioni storiche, sociali, culturali cruciali: la liceità di portare la Democrazia e i nostri valori in Paesi “altri”, il rispetto di culture diverse dalle nostre, fino a che punto può spingersi questo rispetto quando vengono lesi diritti considerati universali, eccetera. Come ho detto non c’erano specialisti, storici, filosofi, ideologi, ma a parte le due scrittrici, gente dello show business. Eppure il dibattito, sotto la mano leggera di Marzullo, oltre che molto educato è stato di grande spessore. La cosa mi ha colpito confrontando quel vecchio dibattito con la maggior parte dei talk di oggi, non tutti ovviamente: gazzarre, quasi sempre prive di contenuto, fra politici di parte avversa, fra politici e giornalisti, fra giornalisti e giornalisti, a moine reciproche, mai una domanda che sia una domanda. Gigi Marzullo era allora considerato, ingiustamente, poco più che un frillo, eppure era in grado di produrre e condurre una trasmissione di prim’ordine con ospiti, diciamo così, normali. In un intermezzo dedicato a Bova anche il bel Raul faceva, intellettualmente, la sua porca figura. In vent’anni, che tutto sommato non son molti, siamo precipitati.

Io mi sento di dir grazie a Donald Trump. Per alcuni motivi. Perché almeno per un po’ ci toglierà dalle palle il Covid, l’ossessivo e ossessionante parlar di Covid su tutte le Tv e tutti i giornali. Perché mi sono sbellicato dalle risa davanti all’ipocrita orrore che ha colto tutte le “anime belle” difronte a quanto stava succedendo a Capitol Hill. Per il velo che The Donald ha tolto alla mitica democrazia americana, quella che vorremmo esportare nel mondo intero, e, sia pur con gradazioni diverse, anche alle altre democrazie occidentali. Persino Recep Tayyip Erdoğan e il cinese Xi Jinping hanno osato darci lezioni in proposito. Siccome è da parecchio tempo che si parla di “crisi della Democrazia”, sia pur in modo obliquo e vellutato senza mai andare alle origini del problema, chissà che la lezioncina di Trump non ci induca a promuovere qualche “Speciale” su questa questione fondante. Magari condotto da un sia pur invecchiato Gigi Marzullo.

Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2021

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In ogni occasione solenne papa Francesco invoca, come da ragione inditta, la pace e deplora i tantissimi conflitti in atto nel mondo. Cita la Libia, la Siria, l’Iraq, la Somalia, lo Yemen, il Sudan, con un po’ più di prudenza la Palestina, e di recente il conflitto apertosi per il Nagorno Karabakh. Ma non nomina mai l’Afghanistan. Strano, perché la guerra all’Afghanistan, e non “in Afghanistan” come ipocritamente si dice, dura da 19 anni, da quando nel 2001 gli americani con i loro alleati occidentali invasero quel Paese ed è la più lunga guerra moderna. Come mai? Per dirla alla Marzullo fatevi una domanda e datevi una risposta. La risposta è che i principali responsabili di quella guerra, che ha distrutto l’economia di un Paese già povero, la sua socialità, la sua cultura, la sua etica e fatto un numero incalcolabile di morti, incalcolabile perché mai calcolato nemmeno da alcuna organizzazione internazionale, siamo senza se e senza ma, noi occidentali.

Quella guerra aveva all’inizio una sua giustificazione: nel territorio dell’Afghanistan, governato allora dai Talebani, si trovava Bin Laden, considerato il responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle, anche se in seguito è stato appurato senza ombra di dubbio che la dirigenza talebana nulla sapeva di quell’attentato e nulla c’entrava.

Adesso che gli americani, su iniziativa dell’infamato Trump che non ci stava a spendere 45 miliardi l’anno per una guerra che, secondo gli stessi esperti del Pentagono, “non si può vincere”, si stanno ritirando, mentre noi italiani rimaniamo là non si capisce a far che spendendo 6,3 miliardi l’anno con i quali non si risana un bilancio ma che, soprattutto in epoca di pandemia, sarebbero molto utili qui, come utili sarebbero gli ottocento nostri militari che rimangono in quel Paese (domanda che ho posto tre volte al ministro degli esteri Di Maio non con degli articoli ma parlandogli vis a vis) la guerra, questa volta sì “in Afghanistan”, continua. Solo nel 2019/2020 i morti sono stati 34 mila. Chi si batte attualmente in Afghanistan? I Talebani contro il governo collaborazionista imposto dagli americani e il cosiddetto “esercito regolare”, ancora i Talebani contro l’Isis penetrato da cinque anni in quel Paese per responsabilità indiretta degli stessi occupanti che non hanno capito che Isis era il pericolo principale e hanno invece costretto i Talebani a battersi su due fronti (occupanti e Isis), e lo stesso Isis che gioca al macello colpendo indiscriminatamente i civili.

Come si esce da questa situazione? Con gli americani un accordo è stato trovato e gli yankee se ne stanno andando, ma resta lo spinoso problema del rapporto fra il governo di Kabul e i Talebani che controllano ormai quasi il 90% del Paese. Un dialogo fra queste forze sperequate è stato aperto da alcuni mesi a Doha in Qatar. Ma trovare un accordo è difficilissimo. Ashraf Ghani, l’attuale presidente dell’Afghanistan, e i suoi vogliono conservare il potere ma i Talebani non potranno mai accettarlo, non hanno combattuto vent’anni, lasciando sul campo decine di migliaia di guerriglieri, per trovarsi punto e a capo, con sulla testa un governo collaborazionista come lo era quello di Najibullah alle dirette dipendenze dei sovietici. Nel 1996, quando il Mullah Omar conquistò il potere, fece giustiziare Najibullah e il giorno dopo concesse un’amnistia generale che rispettò per tutti gli anni del suo governo. Ma adesso la situazione è molto diversa. La vecchia generazione talebana che aveva contribuito a sconfiggere i sovietici, che aveva sconfitto e cacciato dal Paese i “signori della guerra”, Dostum, Hekmatyar, Ismael Khan, Massud, non c’è più. I suoi dirigenti sono morti in battaglia (solo Omar, stroncato da 25 anni di combattimenti vissuti in condizioni impossibili è morto, per tubercolosi, nel suo letto nel 2015). I nuovi Talebani, incarogniti da vent’anni di guerra, non hanno la saggezza né di Omar né del suo numero due Mansur ucciso da un drone americano. Se Ashraf Ghani e i suoi, la sua polizia corrotta, la sua magistratura corrotta, la sua pubblica amministrazione corrotta, non capiscono che devono cedere il passo in fretta si profila in Afghanistan un bagno di sangue non diverso, anzi un po’ peggiore, di quello che ci fu in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale (e infatti Togliatti, allora ministro della Giustizia, concesse saggiamente un’amnistia così come Omar aveva fatto nel 1996). Non credo che i Talebani si accaniranno contro i soldati dell’esercito “regolare” afghano, sono ragazzi come loro che si sono arruolati per disperazione, per avere un salario in un Paese che da povero era diventato poverissimo. Ai principali collaborazionisti non si darà requie. La soluzione sarebbe munirli di un salvacondotto in modo che possano riparare negli Stati Uniti o in qualche altro Paese loro amico come l’Iran sciita. Ma se le cose andranno in questo modo lo potremo sapere, sempre che Isis venga nel frattempo sconfitto, solo nei mesi e negli anni a venire.

 Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2021

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Secondo un sondaggio Ipsos la maggior preoccupazione degli italiani (78%) per i mesi e gli anni a venire non è la salute ma l’economia, in particolare la possibilità di perdere il posto di lavoro ammesso che ciò non sia già avvenuto (come ci informa il Fatto.it già più di mezzo milione di precari e di autonomi ha perso il famigerato “posto di lavoro”, inoltre a marzo, cioè fra pochissimo, scade il blocco dei licenziamenti).

Per quanto possa sembrar strano, addirittura sbalorditivo a noi moderni, in era preindustriale non esisteva il problema, per noi oggi così pressante, del “posto di lavoro”, nel senso che tutti ce l’avevano e non potevano perderlo. Quella società era composta al 90% da contadini e artigiani. Se il contadino era proprietario della terra viveva del suo e sul suo, se la aveva in concessione dal feudatario (in genere per  99 anni) è vero che non poteva lasciare la terra (il cosiddetto “servo della gleba” o, più gentilmente, “servo casato”) ma è anche vero che non poteva esserne cacciato. I contadini vivevano insomma di autoproduzione e autoconsumo e solo le carestie, che in Europa avevano cadenza trentennale, potevano metterli in crisi. Ma anche all’artigiano era garantito uno spazio vitale perché gli statuti artigiani proibivano la concorrenza che invece è la stella polare del nostro sistema. Così come era proibita la pubblicità delle proprie botteghe e dei propri prodotti, quella pubblicità che oggi è la linfa stessa della concorrenza (tout se tien). Ma, si dirà il lettore, senza concorrenza che cosa impediva allora all’artigiano di produrre manufatti mediocri? C’è una ragione, diciamo così, legale, e un’altra psicologica. Quegli stessi statuti imponevano standard molto severi sotto i quali non era possibile scendere, ma era innanzitutto lo stesso artigiano che per amor proprio voleva dare sempre il meglio, il cosiddetto capodopera, al compratore (ancora oggi i tombini più antichi di Milano conservano le iniziali di chi li concepì).

Nel clima di crisi occupazionale torna di moda il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Nella sua ‘Nota diplomatica’, quel curioso personaggio di James Hansen che fu console statunitense in Italia, ci informa che diverse multinazionali fra cui Unilever e Microsoft stanno sperimentando la “settimana corta” che avrebbe un doppio vantaggio: una maggior concentrazione del dipendente in un minor numero di ore di lavoro e risparmio energetico. Si tratta insomma di un cottimo al contrario, io ti spremo di più e quindi tu lavori di più, che non risolve il problema, perché il numero dei lavoratori rimarrebbe lo stesso dato che non avrebbe senso per queste aziende, viste le premesse da cui partono, assumere altri lavoratori.

Io penso che abbiamo utilizzato malissimo le straordinarie tecnologie che abbiamo inventato. Avrebbero potuto servire per far fare alla tecnica una buona parte del lavoro e lasciare agli uomini maggior tempo per se stessi. Invece l’abbiamo usata per cacciare la gente dai posti di lavoro che già occupavano per andarsene a cercare altri più modesti, sempre più modesti o addirittura chimerici. Facciamo un esempio semplice, semplice. Nelle giornate di piena i dieci caselli dell’Autostrada, poniamo, Genova-Milano, erano occupati da esseri umani. Ora ce n’è uno solo, tutti gli altri sono automatizzati. Che fine han fatto gli altri nove? A quei caselli dovrebbero lavorare sempre dieci operatori, ma con orario dimezzato. Questo sarebbe il famoso “lavorare meno, lavorare tutti”. A dirla pare semplice, ma evidentemente non è così nelle infinite interconnessioni della società attuale di cui abbiamo avuto anche un esempio, solo un esempio, nella difficoltà delle Autorità, politiche, scientifiche ed economiche, nel definire esattamente, in epoca Covid, una filiera di produzione.

Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2021