La cravatta. Non la portano gli islamici, non la portano i mediorientali anche quando non islamici, tantomeno la portano i neri africani, non la portano i nomadi del Sahel, non la portano gli abitanti dell’Asia centrale, non la portano gli indiani, non la portano i cinesi.
La cravatta è quindi un indumento occidentale. Ed è anche un simbolo della nostra mentalità costrittiva e autopunitiva. Non per nulla la prima cosa che si fa quando un uomo si sente male è sciogliergli la cravatta, liberarlo da qualcosa che lo soffoca inutilmente. La mentalità autopunitiva, e nello stesso tempo, coerentemente, doveristica, è stata propria della borghesia mercantile che, staccandosi gradualmente dalla mentalità contadina, ha dato origine al mondo moderno. Benjamin Franklin (1706-1790) può essere considerato l’epitome di questo nuovo modello di pensare e di vivere. In lui tutto è ridotto a calcolo: tot tempo per il lavoro, tot per il riordino, tot per la preghiera, tot per i pasti, tot per le letture, tot per gli svaghi, tot per il sonno, tutto è conteggiato al minuto. In quanto al sesso “raramente e soltanto per la salute e per la progenie”. C’è in tutto questo bisogno di ordine, di razionalità, di pulizia, morale e fisica, di esami, di ricognizioni, di ispezioni, una tale crudeltà e un bisogno di punirsi che mettono i brividi. E, come nota Weber, in Franklin, cioè nel borghese, nemmeno le virtù sono fini a se stesse, sono virtù perché sono utili: “L’onestà è utile perché dà credito, e la puntualità, la diligenza, la regolatezza idem, e perciò esse sono virtù”. La virtù è una cosa buona perché porta credito, cioè denaro. Col calcolo entra in campo il concetto di risparmio, estraneo sia alla mentalità contadina che a quella dei primitivi, per i quali la ricchezza va spesa immediatamente possibilmente in modo ludico e poiché il denaro, a dispetto di quello che ne pensava Aristotele, non è sterile, ma può partorire altro denaro si fa strada il concetto di investimento che è il grande motore delle società moderne. Scrive Franklin: “Chi uccide una scrofa uccide tutta la sua discendenza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo di cinque scellini uccide tutto ciò che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire/sterline”. Ma non basta: “Chi può guadagnare dieci scellini al giorno con il suo lavoro e va a spasso oppure sta seduto pigramente mezza giornata, anche se spende solo una moneta di sei pence durante la sua passeggiata o il suo riposo non dovrebbe calcolare questa come unica spesa; in effetti ha speso o piuttosto buttato via oltre cinque scellini”. Insomma non si può nemmeno andare a zonzo senza sentirsi in colpa. L’Alberti (1404-1472) lo dice in modo meno sofisticato ma più esplicito: “La ricchezza… non bisogna mai lasciarla inattiva: sempre essa deve accrescere il patrimonio del suo padrone”. Nota Max Weber: “Che uno possa proporsi a scopo del lavoro di tutta la sua vita unicamente il pensiero di scendere nella tomba carico del massimo peso possibile di denaro e di beni appare (all’uomo di quel tempo) spiegabile solo come prodotto di impulsi perversi”.
Poiché il denaro non è solo tempo, ma tempo futuro, cambia anche la percezione e il senso stesso del tempo, che non è più il “tempo di natura”, ciclico, astorico, statico, presente, delle società tradizionali, ma diventa un tempo dinamico, rettilineo, un tempo di morte. E’ un capovolgimento totale del concetto di tempo ed è legato al denaro. Non è un caso che la civiltà contadina, cioè non mercantile e preindustriale, non avesse né il senso del denaro (lo stesso nobile dilapida allegramente il suo patrimonio: tanto gli entra in cassa, tanto spende) né quello del tempo declinato al futuro. Scrive Piero Camporesi: “L’affannoso tempo storico e lineare del mercante misurato sui ritmi della partita doppia, dei tassi d’interesse e dell’investimento produttivo non era il tempo dei contadini, serpentino, ciclico, ritmato dalle stagioni, dai soli e dalle lune. Nella letteratura popolar carnevalesca il denaro non esiste: o è rigorosamente perseguito e bandito o viene consumato (‘strusciato’) immediatamente, in una zampillante prospettiva di gioioso, perenne spreco, in guerra con l’etica dell’accumulo, della ‘massarizia’ e della ‘robba’, per soddisfare le esigenze primarie del corpo, più che dello spirito. Il povero coniuga i verbi al presente, non conosce le lusinghe ingannevoli del futuro, contrariamente al ricco che costruisce strategie nel tempo tracciando piani e ipotetiche prospettive”.
La gente della società tradizionale, che ama la vita, qui e ora, che coniuga, come dice Camporesi, i verbi al presente, che è inserita nei cicli della natura, guarda con sgomento e senza capire l’apparire della figura del mercante.
Il mercante, il borghese, inseguendo perennemente un futuro che per definizione è irraggiungibile, si è creato da sé solo il meccanismo perfetto dell’infelicità. Noi oggi, individui o collettività, siamo inseriti in questa mentalità. C’è una pubblicità di Fastweb che dice: “Tu sei Futuro”.
Nel frattempo la borghesia, dopo aver innescato tutto il movimento, è scomparsa. Non solo nelle sue aberrazioni, ma anche in quelli che erano i suoi pregi: senso del dovere, del lavoro ben fatto, diligenza, ordine. Gli è rimasta solo la cravatta.
Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2022
Il Novecento è stato il “secolo americano”. Il Duemila apparterrà ad altri. Anche se gli Stati Uniti non si rassegnano a perdere la loro primazia mondiale e sono perennemente in allerta contro chiunque tenti di intaccarla.
Negli anni Cinquanta il mito americano era imperante nell’Europa occidentale e in particolare in Italia dove scontavamo anche un forte complesso di inferiorità nei confronti dei “liberatori”. Nel 1956 Renato Carosone cantava: “Tu vuò fà l'americano, 'mericano, 'mericano… Tu vuoi vivere alla moda, ma se bevi whisky and soda po' te siente 'e disturbà. Tu abball' o' rocchenroll, tu giochi a baisiboll, ma si’ nato in Italy. … si tu lle parle miezo americano… Quanno se fa ll'ammore sott' 'a luna, comme te vene 'ncapa 'e di' ‘I love you’?”. Poi vennero i Dik Dik con “Ti sogno California”, con meno inferiority complex ma la stessa ammirazione per il mondo al di là dell’oceano. Ma “Ti sogno California” è del 1965 e da allora molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti. Adesso credo che siano pochi i ragazzi italiani che sognano l’America. Io non capisco come ancora oggi l’America possa passare per un faro delle democrazie liberali contro cui, abbacinati, andiamo a sbattere cocciutamente come le falene sbattono contro ogni fonte di luce restandone poi tramortite. E’ un Paese violentissimo. Di una violenza che origina molto spesso non da ragioni politiche (ci sono ovviamente anche quelle, la questione afro, i muri eretti contro le migrazioni dal Messico) ma da un malessere profondo che è individuale più che collettivo. Le notizie che ci giungono dall’America delle stragi in apparenza senza alcun senso, compiute per lo più da giovanissimi, sono solo una parte di quelle che vengono effettivamente commesse. Mi scrive il mio amico americano G.P. Biondo che vive proprio in California, la regione più ricca e nello stesso tempo più povera del mondo: “Caro Fini, come lei sa da noi ci si spara giornalmente ma solo le sparatorie che fanno ‘comodo’ vengono pubblicizzate dai media. Durante il Memorial Day Weekend abbiamo avuto 14 mass shooting e a malapena se ne è parlato. La maggioranza di queste sparatorie ovvero l'80 per cento vengono compiute da giovani dai 25 anni in giù. Sembra che i giovani si sentano senza speranza.”. Un americano su 5 sviluppa problemi psichici annualmente, uno su 20 ha seri problemi di salute mentale. Ogni anno, nella fascia di età fra i 6 e i 17 anni, uno su 6 sviluppa problemi psicologici. Il suicidio è la seconda causa di morte delle persone comprese tra i 10 e i 34 anni. Dati del National Alliance on Mental Illness riferiti al 2020. Peraltro, con tutta evidenza, il problema non riguarda solo le giovani generazioni se, come abbiamo riferito in un recente articolo, 564 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci (di psicofarmaci, non di droga, quello è un problema aggiuntivo e a parte). Questo dato, che ho inserito ne La ragione aveva torto?, è più vecchio, data dal 1983. Ma tutto autorizza a pensare, confrontandolo con quelli del 2020, che questa percentuale non sia diminuita, anzi è molto probabile che sia aumentata.
Non voglio con ciò dire che tutto negli States sia da buttare. Gli americani sono coerenti con i propri principi, col loro mito “dall’ago al milione”, per cui chiunque, sia pure delle più umili origini, può diventare miliardario. Poiché il loro mito è il business se tu presenti un progetto che procura denaro non hai bisogno, in linea di massima, di avere alle spalle gruppi potenti e lobbies di ogni genere. In fondo la storia di Steve Jobs, di Bill Gates, di Mark Zuckerberg è questa. Da noi invece prevale il familismo, essere figlio di qualcuno, che spesso sfocia nel rapporto puramente mafioso con l’appoggio, spesse volte, dei partiti che sono a loro volta delle vere e proprie mafie legalizzate. E questa è la tabe peggiore, e gravida di pesanti conseguenze, della società italiana contemporanea. Per contro il mito egalitario americano si rovescia, paradossalmente, nel suo contrario: per uno che sfonda, decine di milioni di persone sono lasciate agli stracci. Negli Stati Uniti non esiste un sistema sanitario pubblico, a Cuba sì.
Insomma l’America di oggi non mi pare proprio un Paese da imitare. Inoltre sul piano internazionale gli Stati Uniti e la Nato, che sono poi la stessa cosa, ci hanno trascinato in guerre disastrose che a volte, nonostante la nostra super superiorità militare, siamo riusciti addirittura a perdere nel modo più ignominioso come quella contro i Talebani, e in altre, aggressione alla Serbia nel 1999, all’Iraq (2003), alla Somalia degli Shebab (2006/2007), alla Libia di Gheddafi (2011), le cui conseguenze devastanti si sono riversate sull’Europa e, per quello che riguarda la Libia, soprattutto sull’Italia le cui coste sono esposte alle continue migrazioni.
Sono tutte buone ragioni per lasciarci alle spalle quell’atlantismo a cui siamo incatenati da più di tre quarti di secolo. Non si tratta, come nota acutamente Giulio Tremonti, una delle più belle teste del Popolo delle Libertà che non per nulla ha lasciato, di farsi per ciò cinesi (Le debolezze non viste e la vera forza della Cina, Corriere della Sera, 30/05). Non si tratta cioè di passare da un padrone a un altro, si tratta di dare all’Europa una fisionomia politica e anche militare più precisa e più forte. A differenza di Draghi sdraiato perennemente come una sogliola ai piedi di Joe Biden, lo ha capito persino Berlusconi, che nel discorso preparato per il congresso del Partito Popolare Europeo di pochi giorni fa dichiarava: “Nonostante il debito inestinguibile di gratitudine e lealtà verso gli Stati Uniti bisogna prendere consapevolezza del fatto che oggi Washington ha una priorità che si chiama Cina. Insomma l’unità politica e militare dell’Europa diventa una necessità”.
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2022
Fra le cose stupefacenti di questa già strana guerra, dove gli alleati del Paese aggredito ricevono materie prime di essenziale importanza da quello aggressore (anche se la Ue si è impegnata a ridurre le importazioni del 90% del petrolio dalla Russia, ma solo entro sei mesi) guidato da un leader definito di volta in volta “criminale di guerra”, “assassino”, “malato di mente”, c’è che la Turchia sia considerata il soggetto più credibile per arrivare a una pace fra Putin e Zelensky.
Già è curioso che la Turchia faccia parte della Nato (la ragione principale è che a Incirlik c’è la più importante base aerea americana del Medioriente) quando, in diversi scacchieri, come la Libia, è alleata proprio della Russia contro gli interessi yankee e occidentali. Ma se Putin è un criminale, Recep Tayyip Erdogan non lo è meno. Nel 2016 si è inventato un inesistente colpo di Stato dell’oppositore Fethullah Gülen, predicatore e politologo turco, che per sfuggire all’arresto si è rifugiato, guarda caso, proprio negli Stati Uniti. I suoi seguaci sono finiti diritto e di filato nelle prigioni turche che pullulano di prigionieri politici, soprattutto curdi. Che cosa siano le prigioni turche ce lo ricorda il bellissimo film Fuga di mezzanotte, e da allora nulla è cambiato se non in peggio. Evin, il principale carcere iraniano, è un gradevole gelatino al pistacchio rispetto alle prigioni turche.
Erdogan cerca di accreditarsi come mediatore sostenendo di essere il principale antagonista dell’Isis in Siria. In realtà il suo antagonismo contro gli Isis di Siria, che sono una minoranza irrilevante in quel Paese (gli Isis sono forti in tutt’altre parti del mondo, in Asia centrale, nel Medioriente, nel Mediterraneo) è solo un pretesto per colpire i curdi. I curdi infatti sono la grande ossessione della Turchia. In Turchia vivono circa 14 milioni di Curdi, circa un quarto della popolazione. Un tempo non potevano nemmeno dirsi “curdi” ma chiamarsi “turchi di montagna” e ai parlamentari curdi era proibito di parlare nella loro lingua. Adesso la loro situazione parrebbe migliorata, ma solo in apparenza. Infatti il maggiore partito di opposizione curdo in Turchia, il PKK, comunista, e il suo successore Ypg, sono stati messi fuorilegge e dichiarati “terroristi”. E’ tipico dell’età contemporanea togliere al nemico la schmittiana categoria di justus hostis. I nemici, non solo delle autocrazie ma anche delle linde democrazie occidentali, non sono mai delle comunità che perseguono un qualche loro ideale, in genere di indipendenza, ma dei criminali. Per gli americani “terroristi” non sono solo i Talebani ma anche i pasdaran iraniani, per Putin gli ucraini sono dei “nazisti”. Il leader del PKK Ocalan è in galera in Turchia da più di vent’anni.
Il terrore della Turchia è che ai curdo-turchi si uniscano quelli siriani, quelli iracheni e quelli iraniani (nelle carceri iraniane le nazionalità dei prigionieri cambiano a seconda dei tempi ma c’è una costante: la maggioranza è sempre curda). Eppure i soli legittimi abitanti di quelle parti di Turchia, di Iraq, di Iran, di Siria e anche di Armenia sono proprio i curdi. Non per nulla quella regione si chiama Kurdistan. In non ricordo più quale anno la Turchia e Saddam Hussein conclusero un patto leonino per cui gli eserciti iracheno e turco potevano oltrepassare i rispettivi confini per inseguire e massacrare i guerriglieri curdi che agivano nei due Stati.
Sul genocidio curdo le “anime belle occidentali” non hanno mai mosso orecchia (basterebbe ricordare la strage di Halabja, i 5000 abitanti di quella cittadina “gasati” in un sol colpo dalle armi chimiche di Saddam che proprio gli americani, insieme ai francesi e ai sovietici, gli avevano fornito in funzione anticurda e anche antiraniana). Ma è solo una parzialissima frazione delle centinaia di migliaia di curdi assassinati in Iraq, in Turchia, in Iran, in Siria. Ma poiché sono dei formidabili guerrieri l’Occidente li richiama alle armi quando c’è bisogno di loro. Sono stati i curdi, insieme all’aviazione americana, a spazzar via lo Stato islamico a Mosul e Raqqa. Ma una volta che ci han fatto il favore sono stati come sempre dimenticati. Già nel lontano 1991 il giornalista americano William Safire scriveva sul New York Times: “Svendere i curdi è una specialità del Dipartimento di Stato americano”.
E adesso va anche peggio. Gli indipendentisti curdi, fingendo che siano tutt’uno con i terroristi islamici, vengono utilizzati da Erdogan per proporsi come grande pacificatore nella guerra tra Russia e Ucraina. E nessuno in Occidente sembra muovere la benché minima obiezione. Quando ci sono di mezzo i quattrini la real politik prevale non solo sui sentimenti ma anche sulle considerazioni più elementari. Vergogna.
Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2022