Ci risiamo con Nicolas Maduro. Il presidente venezuelano è stato riconfermato nelle recentissime elezioni con il 51% dei voti a favore. Naturalmente si è scatenata la solita ridda di reciproche disinformatie: gli oppositori di Maduro contestano la regolarità delle elezioni, non solo quelli interni ma in pratica quasi tutti i media occidentali. Per l’occidente Maduro è un dittatore, punto e basta. Devo dire che ho parecchi dubbi su questa narrazione occidentale fortemente influenzata dagli Stati Uniti che vedono di cattivissimo occhio il tentativo di impiantare in centro e sud America il cosiddetto “socialismo bolivariano”.
E qui bisogna fare un lungo passo indietro. Il “socialismo bolivariano” si richiama al venezuelano Simon Bolivar, che alla fine del ‘700 aveva avuto l’idea di creare una “Grande Colombia” che radunasse la maggior parte dei paesi latinoamericani. Dal punto di vista sociale l’idea era semplice quanto complessa: cercare di tagliare le unghie alle classi dominanti che detenevano il potere economico e politico e puntare verso una più ragionevole uguaglianza sociale. Insomma un programma socialista come dice la parola stessa. Nel frattempo però erano avvenuti grandi cambiamenti a livello geopolitico ed economico. Il Venezuela nell'Ottocento se la cavava abbastanza bene perché era, insieme ad Argentina e Brasile, uno dei maggiori esportatori di carne del mondo. Ma nel frattempo la base della ricchezza non era più nell’esportazioni di carni ma nel petrolio di cui il sottosuolo venezuelano è ricco. Col petrolio si scatenarono sul Venezuela gli appetiti di tutti i paesi industrializzati. Il Venezuela fu travolto da questa nuova situazione e del “socialismo bolivariano” non si parlò più. L’idea fu ripresa nel 1999 da Hugo Chavez, da qui il termine “chavismo”, un militare che godeva in Venezuela di grande prestigio. Morto Chavez per tumore il potere passò a Maduro, ex autista di autobus e sindacalista. Poiché Maduro non aveva il prestigio di Chavez gli americani pensarono di servirsi di un certo Juan Guaidò, chiamato dalla stampa occidentale “il giovane e bell’ingegnere” per contrapporlo alla rozzezza di Maduro. Tentarono, attraverso Guaidò, un colpo di Stato che fallì miseramente perché Guaidò non aveva una base sufficiente né fra le elite né tanto meno fra il popolo. Guaidò fu incarcerato e quasi subito liberato rifugiandosi in Nicaragua. Ora voglio vedere in quale paese, anche dell’Europa democratica, uno che ha tentato un colpo di Stato può cavarsela così facilmente. In Spagna gli indipendentisti catalani, a cominciare dal loro leader Puigdemont, per avere dichiarato l’indipendenza della Catalogna, sono stati arrestati e incarcerati per sette anni mentre Puigdemont è tuttora esule in Belgio. Proprio negli ultimi mesi in Spagna, sotto la presidenza del socialista Pedro Sanchez, si sta cercando di risolvere l’antichissima questione catalana.
Affermare perciò che Maduro è un dittatore tout court mi sembra difficile. Il fatto è che ha l’ostilità di tutti i paesi, e i media al loro servizio, legati ai gringos come chiamano da quelle parti gli americani. Maduro ha l’appoggio di Cuba e soprattutto del Brasile governato da Lula da Silva che fu estromesso dal potere con accuse di corruzione poi rivelatesi del tutto infondate. In occasione della sua rielezione Maduro ha affermato che è in atto un complotto della destra mondiale per fare piazza pulita di ciò che rimane del socialismo in centro e sud America. In questo senso va il successo in Argentina di Javier Milei, un iperliberista che vuole fare piazza pulita di qualsiasi welfare e ha definito il socialismo parente stretto del Demonio includendo nell’anatema Papa Bergoglio.
Il problema adesso è di vedere se Lula, Maduro, e i pochi alleati che hanno in Sudamerica, compresa la Cuba castrista, riusciranno a resistere a questo ritorno in forze delle destre internazionali. In un articolo del 30-07, tutto di parte, Il Giornale riusciva a mettere tra “i maledetti” l’incolpevole Che Guevara. La storia del Che la conosciamo benissimo: medico argentino andò a combattere a Cuba unendosi ai castristi. Quando si rese conto che il castrismo deviava verso la dittatura lasciò il Paese per andare a combattere una disperata battaglia di libertà in Bolivia, dove venne ammazzato. Ma prima di dare addosso a Castro e al castrismo, bisognerebbe ricordare cosa era Cuba prima della vittoria della Rivoluzione. Governava Batista che aveva fatto di Cuba una sorta di casinò ad uso e consumo dei ricchi americani. Certo a Cuba c’è oggi una dittatura, ma a chi altri potrebbe appoggiarsi il “socialismo bolivariano” che ha l’ostilità dell’intero mondo occidentale, compresa la democratica Europa?
Nel recente forum economico mondiale di Davos Milei è stato ricevuto con tutti gli onori esprimendo le sue idee iperliberiste a anti socialiste definendo il socialismo una sorta di “Male Assoluto”. Ne bisogna dimenticare che durante la recente pandemia una cinquantina di medici cubani venne in Italia per darci una mano. Insomma la solidarietà per i cubani non è solo un’idea astratta. A Cuba la scuola è gratuita e la sanità anche. Conosco un ragazzo cubano, Ramiro, che è venuto via da Cuba non a causa del regime ma per ragioni personali e che oggi gestisce un locale abbastanza elegante a Milano: come tanti suoi coetanei ha una cultura di prim’ordine e con lui si può parlare di tutto perché è una persona open mind. Naturalmente il regime castrista soffre le deficienze di tutti i regimi dittatoriali, case sfasciate, territorio abbandonato a se stesso, desolazione, un po’ come era ai tempi dell’Unione Sovietica che ho fatto in tempo a vedere. Ma per me che sono un socialista libertario da sempre – ed è bene ricordare agli smemorati che il socialismo si differenzia dal comunismo perché cerca di raggiungere una ragionevole uguaglianza sociale senza comprimere i diritti civili – se devo scegliere fra il pur imperfetto “socialismo bolivariano” di Lula o di Maduro e l’Impero del Capitale non ho dubbi.
4 Agosto 2024, Il Fatto Quotidiano
Che cosa vi avevo detto della Svizzera? La Germania ha pareggiato solo all’ultimo minuto. Gli svizzeri sono fortissimi a centrocampo con Xhaka, un de Bruyne cui manca solo il tiro, e Freuler. In difesa hanno Akanji, centrale del City. Il problema della Svizzera è all’attacco, dove il centravanti è Embolo che era molto forte fisicamente a vent’anni ed è altrettanto forte fisicamente a ventisette, solo che in questi anni non ha imparato a giocare a calcio. Una sorta di Lukaku in chiave minore. I tedeschi soffrono di un’assenza e di una presenza. Sono un Bayern senza Robert Lewandowski, uno dei più formidabili bomber del calcio moderno: 683 gol in 997 partite, alla media di 0.69, alla pari o quasi ci sta van Nistelrooy, con 401 reti in 682 partite per una media di 0.58. Per trovare di meglio bisogna risalire a Puskas, con 704 reti in 720 presenze, per una media di 0.98. Puskas dopo l’aggressione sovietica del 1956 fuggì con altri della grande Ungheria e si rifugiò in Italia presso la Fiorentina. Ma, non essendosi potuto allenare, era diventato grassissimo. Fu preso comunque dal Madrid che giocò una finale col Benfica, con i grandi Eusebio e Coluna. Andò avanti il Benfica, pareggiò Puskas, tornò avanti il Benfica, pareggiò Puskas. Arrivò a Puskas una palla sul cerchio del centrocampo, dribblò facilmente il centrale, che si chiamava, mi pare, Santamaria, e si involò verso la porta. Ma c’erano almeno cinquanta metri da fare, Puskas arrivò davanti al portiere, segnò e poi si accasciò oltre la linea. La partita finì 5-3 per il Portogallo.
La presenza negativa è quella di Toni Kroos. Saggiamente si era ritirato dopo la finale di Champions vinta dal Real Madrid (sono almeno dieci anni che il Madrid ha culo) dove era curato dall’austriaco Sabitzer che gli tolse ogni linea di passaggio e, non bastandogli, spadroneggiò per tutto il campo.
Anche la Svizzera ha un problema, ma non riguarda i giocatori ma l’allenatore Murat Yakin. Ai recenti Mondiali in Qatar la coppia centrale di difesa era formata da Akanji e Nico Elvedi, centrale del Borussia Moenchengladbach, e si portò molto bene: 1-0 col Camerun, 0-1 col Brasile e 3-2 con la Serbia. Ma nella partita col Portogallo a Yakin venne la geniale idea di sostituire Elvedi, che ho visto annullare Lukaku, e non era difficile, ma anche Haaland, ed era meno facile, con un giocatore secondo lui più propositivo. Risultato: 6-1 del Portogallo.
Anche il Belgio di de Bruyne ha il suo problema. E si chiama Romelu Lukaku, che è capace di sbagliare tre gol solo davanti al portiere. Come si fa a sbagliare tre gol soli davanti al portiere? Si tira addosso al portiere, elementare Watson. Ripetendo un’impresa fatta in precedenza quando, servito da de Bruyne, attualmente il miglior assistman del mondo, sbagliò tre gol solo davanti al portiere. Ma è mai possibile che nessuno dei commentatori riesca a non dire mai la verità e cioè che Romelu Lukaku è una pippa?
Il livello di questi Europei è infimo. Non c’è una squadra che emerge. La Spagna certo, ma giocava contro nessuno, cioè un’Italia che così scombicchierata non si poteva nemmeno immaginare. Ma anche la Spagna ha un suo problema che si chiama Alvaro Morata, molto discusso in terra iberica e che del resto, giocando per la Juventus, non ha mai dato grandi dimostrazioni di sé.
Questi Europei, dicevo, sono di un livello molto basso. Ma non è che non siano divertenti, soprattutto quando giocano le piccole squadre che, non avendo nulla da perdere, ce la mettono tutta. Quando giocano le grandi squadre la musica cambia. Il confronto fra Francia e Olanda era ritenuto uno dei più interessanti della competizione. Ma la Francia, comportandosi come una squadra che debba salvarsi dalla B, ha congelato il gioco. È stata, contro le aspettative, una delle partite più noiose del torneo.
Contro la Croazia l’Italia può farcela. Scrivo naturalmente prima della partita decisiva di stasera perché la Croazia è il cimitero degli elefanti, con Modric, 38 anni, Perisic, 36 anni, Brozovic, 31 anni, che furono grandi, soprattutto Modric, ma in un’epoca pleistocenica.
Sui serbi non si può mai fare alcun affidamento. Hanno fra i migliori giocatori nei campionati europei ma prima delle partite si ubriacano e vanno a puttane. La Serbia fu grande quando c’era ancora la Jugoslavia. Durante le eliminatorie per gli Europei di Svezia aveva vinto tutte le partite, salvo una pareggiata. Noi la vedevamo su Capodistria. In formazione c’erano Stojkovic, serbo, uno dei migliori 10 degli ultimi trent’anni (quando il Guerin Sportivo mi chiese di fare un ritratto di un giocatore avvertendomi che i più grandi, Maradona e Pelè, erano già stati gettonati, io dissi: faccio Stojkovic). C’era Savicevic, montenegrino, Boban, croato, che faceva il libero, Prosinecki, croato, grande mediano, e a regolare il gioco c’era il fondamentale bosniaco Bazdarevic cui toccava calmare i bollenti spiriti dei compagni, tutti votati all’attacco. C’era con l’11 Mihajlovic, serbo, il centrale era Djukic, serbo. I ragazzi erano già in Svezia ma furono bloccati, per la storia del Kosovo, da una decisione dell’Onu su spinta degli americani. Infuriavano allora le guerre balcaniche, ma sarebbe bastato darle una bandiera neutra. Per me quella fu una tragedia emotiva. Non potevo giocare la Jugoslavia perché non c’era, ma nemmeno la Danimarca, proprio perché aveva sostituito la Jugoslavia essendo arrivata seconda nel girone. I ragazzi danesi erano già al mare e pensavano a tutt’altro, eppure vinceranno quegli Europei. Con tanti saluti a quei teorici del calcio che sostengono che le partite si vincono prima di giocare, con l’allenamento ossessivo. Così cominciai a puntare Danimarca, che a me è sempre piaciuta, solo dai quarti. La Danimarca vincerà poi gli Europei ai rigori contro l’Olanda dell’odioso van Basten (che detestava van Nistelrooy perché temeva che lo superasse in popolarità). Ai rigori van Basten sbagliò, segnò invece il Carneade Christofte. Van Basten era allenatore nei Mondiali del 2006. L’Olanda affrontava il Portogallo che stava vincendo 1-0. A venti minuti dalla fine ci fu movimento sulla panchina degli olandesi. Tutti eravamo convinti che schierasse van Nistelrooy, che in due partite aveva la colpa di aver fatto un solo gol, media 0,5. Invece chi schierò lo sciagurato van Basten? Hennegoor von Hesselink, un giocatore del Celtic dai nobili lombi ma scarsissimo. Nella partita successiva con la Russia l’Olanda stava perdendo. Ma fu salvata all’ultimo minuto, su un calcio d’angolo, “con un gol del suo grande attaccante” come scrisse la Gazzetta. Ma l’Olanda, nella successiva partita, finì ugualmente fuori perché van Basten aveva schierato una squadra totalmente malmessa, mi ricordo un filiforme Engelaar a centrocampo. Dopo quell’esperienza van Bommel, che giocava nel Milan, disse a van Basten: finché sarai tu il Ct dell’Olanda io non giocherò più in Nazionale. Van Nistelrooy fu acquistato dal Real Madrid. Nel Madrid imperversava Cristiano Ronaldo che, come suo solito, non passava mai la palla, soprattutto a Benzema che era il centravanti. Alla prima occasione, non essendoci l’ingombrante Cristiano Ronaldo, van Nistelrooy ne prese il posto e passò la palla a Benzema che segnò. Poi segnò lui ma vidi che non esultava. Si è infortunato, mi disse Matteo che sedeva accanto a me. E così finì l’epopea di van Nistelrooy al Madrid, perché nel calcio, come nella vita, bisogna avere, al di là delle tattiche, come dice una pubblicità che passa in questi giorni su Sky, soprattutto culo.
Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2024
Fino a un paio di anni fa ricevevo, di quando in quando, una telefonata di questo tenore: “Sono Renato”. “Renato chi?” chiedevo. “C’è un solo Renato”. Ritrovavo così il Vallanzasca spavaldo e beffardo noto anche per questo aspetto, e non solo per i suoi delitti, al grande pubblico ma che io conosco meglio avendolo frequentato personalmente nei rari momenti di libertà. Andavo a trovarlo a casa sua, in uno squallido quartiere vicino al cimitero di Musocco, squallido era anche l’edificio ma l’abitazione era arredata con cura e direi anche con una certa eleganza. Mi accompagnava una giornalista del Giorno che l’aveva anche ospitato, rischiando grosso, durante una delle sue sette evasioni. Si era innamorata di Vallanzasca. Non si contano le ragazze, le donne che si sono innamorate del bel Renè, e non per il solito fascino del Male ma perché Vallanzasca era un ragazzo, un “puer aeternus” mi verrebbe da dire, molto simpatico, ironico, autoironico, divertente. Mi raccontò, per fare un esempio, che durante uno di questi permessi, comunque sorvegliatissimo dalla polizia, era salito su una bicicletta ed era caduto subito perché non ci sapeva più andare. Lui che per narcisismo, ma anche per una naturale joie de vivre, aveva guidato le macchine più lussuose, dalle Ferrari alle Porsche.
Ora di quelle telefonate è un bel po’ che non ne ricevo più. All’epoca in cui lo incontravo non era più il “bel Renè”, aveva uno sfregio sulla faccia e, mi parve, un occhio offeso perché Vallanzasca fin quasi dall’infanzia ci vedeva con un occhio solo, cosa strabiliante se si pensa alla sua mira micidiale che tante volte gli ha permesso di vincere le partite in campo aperto a guardie e ladri con la polizia (“Se di notte è inseguito spara e centra ogni fanale, Sante il bandito ha una mira eccezionale”, De Gregori, Il bandito e il campione, 1993).
Nel giugno dell’anno scorso la prima moglie di Vallanzasca, Antonella D’Agostino, ha scritto una lettera all’Ansa che vale la pena riprendere qui. “Quanto deve pagare ancora? Dopo cinquant’anni di carcere e una condizione di salute precaria, anzi peggio. Rifiutare le misure alternative a Renato Vallanzasca significa non solo condannarlo al carcere a vita, cosa che è già avvenuta, e all’impossibilità di vivere uno stralcio di normalità, ma anche umiliare un uomo ormai ridotto all’ombra non di quello che era, ma di quello che tutti hanno pensato che fosse. Ha vissuto otto anni in semilibertà e poi ai domiciliari senza fare niente di male. E quando portò via quelle mutande dal supermercato capii che nel suo cervello qualcosa aveva cominciato a non funzionare… Non voglio santificare chi ha vissuto da criminale. I veri criminali li ho conosciuti, quelli che frequentavano la Milano da bere. Niente a che vedere con lui. Altra stoffa. Loro sono morti ricchi sfondati (quando sono morti, ndr) lui marcisce in galera senza avere i soldi per le sigarette, senza capire più dov’è”.
Della lettera della D’Agostino mi interessa in particolare là dove dice: “I veri criminali li ho conosciuti, quelli che frequentavano la Milano da bere. Niente a che vedere con lui. Altra stoffa”.
Altra stoffa, dice la D’Agostino. Perché Vallanzasca, se mi si passa il termine, è a suo modo un bandito leale, un bandito onesto. Non si è mai reso responsabile di ripugnanti agguati sotto casa, alla Sofri, per intenderci, e questo ‘vizietto’ riguardava molti suoi compagni di Lotta Continua il cui giornale pubblicava le foto, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di “fascisti” o presunti tali, cinque dei quali sono rimasti in sedia a rotelle e uno ne è morto. Ma Sofri, dopo aver scontato sette anni dei ventidue che gli erano stati comminati per l’omicidio del commissario Calabresi, oggi è libero come l’aria e per un certo periodo è stato editorialista de La Repubblica, il più importante quotidiano di sinistra (dovette andarsene solo perché direttore era diventato Mario Calabresi, figlio del commissario) e del principale settimanale di destra, Panorama. Insomma è stato promosso editorialista, per meriti penali suppongo.
Vallanzasca non merita pietà, merita rispetto. Perché si è sempre assunto le proprie responsabilità, non ha mai dichiarato di essere una vittima della società. Quando il giorno della sua prima cattura fu portato in manette sul balconcino di una casa di Roma - perché questi qui li esibiscono in manette, per i Toti e tutti i furfanti di Mani Pulite si invoca o si è invocato l’intervento di Amnesty International - e un giornalista gli chiese appunto: “Vallanzasca, lei si ritiene una vittima della società?” lui rispose: “Non diciamo cazzate!”.
Alla parola di Vallanzasca si può credere se afferma che una rapina non l’ha fatta lui. D’altro canto ha scagionato parecchi malavitosi attribuendosi i reati per i quali erano stati sbattuti in galera e fornendo ai giudici, che non ci pensavano più, le prove di averli commessi. Mi piace riprendere un segmento del ritratto che ne feci nel 1987 in un articolo intitolato ‘Il bel Renè, bandito d’altri tempi’: “Ho saputo che tre ragazzi hanno confessato due o tre rapine: la rapina di Milano 2, di Pantigliate e di Seggiano. Possono averle confessate solo con le botte. Solo così possono averlo fatto. Io categoricamente posso dire che loro non c’erano. Perché c’ero io. Posso mandare, per provarlo, le fascette delle banconote o la pistola del metronotte. C’è il caso di un ragazzo accusato di una rapina che ho commesso io sei anni fa. Il ragazzo si chiama Elio Lanzani ed è soprannominato Ciarùn perché una volta faceva le danze coi coltelli. La rapina avvenne in viale Corsica. Elio non è uno stinco di santo, ma quella rapina non l’ha fatta lui, l’ho fatta io”.
È singolare che in un Paese di gentiluomini si possa fare più affidamento sulle parole di un bandito. Il fatto è che, per qualche straordinario accidente, si sono conservati in Renato Vallanzasca, nonostante la sua vita violenta e criminale, alcuni valori propri di quella vecchia Milano, la Milano della Comasina e di Affori da cui proviene: lealtà, dignità, un popolano sense of humour. E soprattutto rispetto di quelle regole del gioco che oggi tutti violano nella società civile e quindi anche in quel suo riflesso malato che è la malavita. Se infatti oggi la mafia, la ‘ndrangheta, la criminalità finanziaria, la delinquenza comune sono ormai giungla disordinata e caotica senza regole d’onore, neanche malavitose, è perché non sono altro che lo specchio della società civile (una malavita senza onore e dignità può essere solo il prodotto di una società senza onore e dignità). Vallanzasca invece è un bandito che riflette una società di altri tempi. È un bandito onesto in una società dove, troppo spesso, gli onesti sono dei banditi.
“Non diciamo cazzate!”. Io, lo confesso, l’avrei graziato solo per questo. E, a suo tempo, ho inoltrato formale domanda di grazia a un paio di Presidenti della Repubblica, visto che sono stati graziati soggetti moralmente molto peggiori di lui, la Fiora Pirri Ardizzone dei principi di Pandolfina, per esempio (presidente Pertini).
Adesso, anche contando sul fatto che Giorgia Meloni è un po’ più umana, sarebbe inutile dopo 52 anni di galera, undici dei quali passati col 41bis o ai famigerati ‘braccetti’.
Vallanzasca muore insieme a un mondo che non c’è più.
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2024