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Nella mia ormai lunga esperienza, di cittadino e di giornalista, diciamo nell’arco, all’incirca, degli ultimi trent’anni, solo in un altro caso mi è capitato di assistere a un fuoco concentrico come quello a cui oggi è sottoposto il Movimento Cinque Stelle, per cui basta che al suo interno si scompigli anche un solo pelo per darlo per morto e finito.
Il caso cui mi riferisco è quello della prima Lega di Umberto Bossi. L’Umberto, come allora familiarmente lo si chiamava, e che io considero l’unico, vero, uomo politico italiano dell’ultimo quarto di secolo, aveva in testa un’idea che allora parve dirompente e blasfema ma che se la guardiamo con gli occhi di oggi (“la Storia è il passato visto con gli occhi del presente” diceva Benedetto Croce) è diventata molto attuale. Secondo quella Lega l’Italia andava divisa, perlomeno da un punto di vista amministrativo, ma anche legislativo, in tre parti, Nord, Centro, Sud, perché rappresentavano tre diverse realtà, economiche, sociali, culturali e anche climatiche. L’idea di Bossi andava poi oltre i confini nazionali. Pensando a un’Europa politicamente unita il Senatùr riteneva che i punti di riferimento periferici di quest’Europa non sarebbero stati più gli Stati nazionali, ma aree coese dal punto di vista sociale, economico, culturale che avrebbero oltrepassato i confini tradizionali. L’unità politica europea non si è poi, almeno per ora, realizzata, ma l’idea bossiana rimane valida e spendibile per il futuro. Di questo vasto programma, che aveva alle sue spalle anche un giurista del peso di Gianfranco Miglio, l’Italia partitocratica di allora non capì il valore, o forse lo capì fin troppo bene (è ovvio che in un’Europa unita i partiti nazionali avrebbero perso, come alla fine finiranno per perdere, il loro peso). La Lega bossiana fu quindi attaccata da ogni parte (“le tre repubblichette”), da tutti i tradizionali partiti nazionali che avrebbero perso il loro potere e dai poteri sovranazionali, finanziari ed economici, che in un’Europa unita e confederata, alla maniera degli Stati Uniti d’America, vedevano un pericoloso concorrente. Umberto Bossi sovracaricato di reati di opinione (tipo “vilipendio alla bandiera” e simili) finì per impaurirsi e soccombere alleandosi con quello che in Italia era il suo nemico naturale, alias Silvio Berlusconi, globalizzatore, filoamericano e quindi assolutamente all’opposto di un ‘localismo’ intelligente. Io che allora avevo ottimi rapporti con l’Umberto, uomo del popolo e che del popolo capiva le esigenze, avevo un bel dirgli: “Guarda che i tuoi sono reati di opinione che nulla hanno a che vedere con quelli di Berlusconi. Fate una battaglia, sacrosanta, contro i reati di opinione, eredità del Codice fascista di Alfredo Rocco”. E per la verità Umberto Bossi questo lo aveva ben capito. Nel discorso del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il governo Berlusconi, un discorso perfetto anche nello stile, alla faccia di chi lo considerava, come Di Pietro, un personaggio rozzo, pose le premesse per un’Italia diversa e nuova. Ma non ci fu niente da fare. Le forze, nazionali e internazionali, che si opponevano a questo cambiamento ebbero la meglio. Complice anche una malattia, che solo chi è animato da una vera passione può essere colpito, il mio caro e vecchio amico Umberto perse la testa, si rialleò con Berlusconi e questa fu la fine sua e del suo Movimento.
Perché ho fatto questa lunga premessa che sembra non c’entrare niente con l’Italia di oggi? Perché i Cinque Stelle, che hanno un programma molto meno ambizioso di quello della Lega delle origini, ne subiscono la stessa sorte. Qual è il programma dei Cinque Stelle? Nella sostanza è un ripristino dell’onestà (come loro la chiamano ma io avrei preferito il termine “legalità”, perché l’onestà è qualcosa di più profondo che può appartenere anche a un malavitoso, è una coerenza etica) e un tentativo di ridare un ragionevole equilibrio sociale e anche meritocratico in un Paese dove, come in tutto l’Occidente, le disuguaglianze hanno assunto livelli insopportabili che umiliano quella che, senza rendersi conto dell’implicito disprezzo che c’è in questa denominazione, viene chiamata “gente comune”. Insomma il programma dei Cinque Stelle, senza assumere quella visionaria di Umberto Bossi, è assolutamente basico. Ma è sufficiente per scatenare contro “los grillinos”, come li chiamano in Spagna, tutte le forze pro sistema, non solo i partiti tradizionali che vedono messo in pericolo il loro strapotere, ma anche le lobby della finanza internazionale. Molti nemici molto onore, si dice. Ma don Chisciotte è destinato storicamente a perdere. Ma noi, pur consapevoli, preferiamo essere dalla sua parte che da quella dei vincitori di giornata. Anche perché la Storia cambia e, con la velocità a cui van le cose attualmente, i perdenti di oggi potrebbero anche essere i vincitori di domani.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2020

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Nel 1966 i Dik Dik cantavano “ti sogno California e un giorno io verrò”. Nonostante si fosse in piena guerra del Vietnam l’America, col suo Stato più famoso e significativo, rimaneva un mito, come lo era stata già dai primi del Novecento per i nostri emigranti.

Oggi la California è ritenuta la quinta economia mondiale, ma negli ultimi anni, seguendo un processo di disintegrazione del ceto medio che riguarda tutto il mondo occidentale e che nemmeno Trump è riuscito a fermare, i poveri si sono quadruplicati. In California, su una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, 4 milioni e 100 mila persone non hanno avuto da mangiare per tutto l’anno. Solo grazie al Calfresh, che non sono altro che dei bollini federali per andarsi a comprare da mangiare, queste persone hanno potuto sopravvivere. Nella contea di Sacramento, capitale della California, ogni giovedì c’è la distribuzione del cibo. Non ci vanno solo i barboni ma famiglie con bambini che hanno i genitori che lavorano ma a malapena riescono a campare. Nelle scuole il governo della California ha dovuto intervenire per pagare ai bambini poveri il lunch, altrimenti ci si sarebbe trovati che i bambini ricchi mangiavano e gli altri stavano a guardare (dati del 2017 del Dipartimento di Stato della California). In intere zone degli Stati del sud l’analfabetismo è al 38%. In California dove è nata l’avanzatissima e ricchissima, ma solo per alcuni, Silicon Valley, tutti i giorni ad ogni incrocio ci sono persone che espongono cartelli “Just hungry, please help”. A Palo Alto, una delle città più ricche degli Stati Uniti, gli ingegneri informatici pur guadagnando più di 100 mila dollari sono costretti a vivere in macchina.

Questa è oggi la mitica California. Tutto ciò non ha impedito a Donald Trump al convegno di Davos (World Economic Forum) di affermare che “l’economia americana è diventata un geyser ruggente di opportunità”. Può darsi. Trump è stato eletto nel 2017, ma tagliando le tasse ai ricchi non si vede dove possa mai aver trovato i soldi per aiutare i poveri. Evidentemente anche nell’America di Trump la forbice fra le classi sociali si sta allargando. Alcuni, pochi, entrano a far parte dei ceti benestanti, altri sono costretti a stare agli angoli delle strade chiedendo l’elemosina. Del resto in quasi tutte le grandi città americane gli homeless, d’inverno, dormono per strada approfittando del superplus di calore che viene dalle grate dei grandi alberghi o delle case ricche. L’America è fatta così. Peraltro da un Paese dove uno dei prossimi candidati alle Presidenziali, Michael Bloomberg, dispone di un patrimonio di 50 miliardi di dollari che è disposto ad investire pur di essere eletto, c’è da aspettarsi di tutto. Il peggio. 

E allora non lamentiamoci troppo del modello europeo dove esiste un welfare piuttosto efficiente e nemmeno dell’Italia che a questa visione sociale aderisce. E non spariamo a zero, come fa la destra, sui provvedimenti che l’attuale governo ha preso e sta prendendo per cercare di attenuare, pur avendo la palla al piede dell’enorme debito pubblico che è stato accumulato soprattutto negli anni Ottanta ad opera del famoso CAF, e che oggi si sta cercando di glorificare nella persona di Bettino Craxi, le grandi disparità fra ricchi e poveri che esistono anche da noi e forse soprattutto da noi più che in altri Paesi europei. Help.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2020

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Ora che le beatificazioni, le santificazioni e la contrapposta, inesorabile, damnatio memoriae vanno fatalmente a sfumare, anche se la figlia Stefania, testarda, sfinendosi, e sfinendoci, vuole fare dell’intero 2020 un ‘anno craxiano’, noi che socialisti libertari lo siamo stati e lo rimaniamo, perché coniugare le libertà civili con una ragionevole giustizia sociale ci sembra ancora l’idea più bella, cercheremo di fare qui un ritratto del leader socialista il più equanime che ci è possibile.

Credo che la vita politica di Craxi vada distinta in tre fasi. Nella prima, estremamente positiva, il segretario del Psi toglie al Partito socialista lo storico inferiority complex nei confronti di quello comunista (non per nulla la microcorrente di cui era a capo prima dell’elezione del Midas si chiamava Autonomia) e cerca di mettere il suo partito sulla strada di una moderna socialdemocrazia europea. Anche i finanziamenti illeciti, utilizzati già dai tempi di De Martino e Mancini, assumono in questa fase un colore, per così dire, diverso da quelli che sarebbero stati in seguito. Il Psi era stretto nella morsa del Pci che riceveva i soldi dall’Unione Sovietica (“l’oro di Mosca”) e la Dc che li aveva dalla Cia. Autofinanziarsi, sia pur illegalmente, in una situazione come quella diventava necessario per sopravvivere. “Primum vivere, deinde philosophari” mi spiegò anni dopo Claudio Martelli che era stato mio compagno di banco al Carducci.

Seconda fase. Il socialismo è una sorta di proseguimento laico del Cristianesimo, è la difesa, per dirla con Dostoevskij, degli “umiliati e offesi”. E’ ovvio che con i cambiamenti sociali cambia anche la categoria degli “umiliati e offesi” che non possono essere più solo gli operai sulla via di una lenta estinzione, ma non possono essere nemmeno i visagisti, i coiffeur famosi, gli architetti dalla rosea faccia di culo, le Ripe di Meana, insomma il partito dei “nani e delle ballerine” come lo definì il compagno Rino Formica che non a caso è uno dei pochi socialisti che, insieme a Ugo Intini, non risulta abbia rubato. Insomma il Psi abbandona la difesa dei ceti medi, i nuovi “umiliati e offesi”.

Inoltre Craxi elimina ogni dibattito all’interno del partito. Se in quegli anni uno, essendo di sinistra, militava nel Psi e non nel Pci era proprio perché nel Partito socialista la discussione era sempre aperta, anche se a volte confusionaria ed eccessiva. In questo modo Craxi, come capita sempre ai leader carismatici, sentendosi dare sempre ragione, si isola e perde quell’intuito politico e il contatto con la realtà che erano stati all’origine della sua carriera.

E’ Craxi inoltre a innescare Berlusconi concedendogli graziosamente, attraverso la legge Mammì, in cambio di 23 miliardi, il controllo dell’intero settore televisivo privato. E Berlusconi finirà per togliere agli italiani quel poco del senso della legalità che gli era rimasto.

Se durante Mani Pulite l’ira della gente si concentrò soprattutto sul Psi è per l’arroganza e la strafottenza con cui i socialisti esercitavano il loro potere. La famosa “Milano da bere” se la bevevano solo loro. Si comportavano come dei novelli don Rodrigo. Uno dei segretari di Craxi, bel ragazzo, aveva come compito principale di ramazzare belle donne da offrire poi ai capataz socialisti in cambio di una comparsata nelle televisioni berlusconian-craxiane. Insomma eravamo al Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre/ le vecchie e laide lasserei altrui”. Nel 1983 scrissi per Il Giorno una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, in cui gli dicevo sostanzialmente: guarda che se i partiti continueranno a esercitare illegalmente il loro strapotere in questo modo così evidente e sfacciato, nella gente monterà un’insofferenza sempre più esasperata che un giorno vi travolgerà. Una profezia che si avvererà dieci anni dopo.

Terza fase. Bettino Craxi diventa indifendibile sotto ogni punto di vista. Quando nel febbraio del 1992 Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu pescato con le mani sul tagliere mentre gettava nel cesso una mazzetta, Craxi affermò che era “una mela marcia in un bigoncio di mele sane”. Se avesse fatto allora quel discorso molto ricordato e troppo lodato che tenne in Parlamento sei mesi dopo dichiarando che tutto il sistema politico era corrotto, forse avrebbe salvato almeno la faccia. Ma chiamare in correità gli altri partiti quando tu stesso sei stato preso con le mani nel sacco è un’altra cosa. Non è un atto di coraggio è un tentativo estremo di salvarsi.

Poi c’è la fuga ad Hammamet, seguendo un collaudato copione della classe dirigente italiana che quando viene messa di fronte alle proprie responsabilità se la dà a gambe, dal Re e Badoglio che fuggono da Roma lasciandola in balia dei tedeschi a Mussolini che, dopo tanta retorica sulla “bella morte”, che indusse molti giovani ad andare a morire per Salò in nome dell’onore e della lealtà, che allora erano dei valori, si fa pescare in una scomposta fuga travestito da soldato tedesco. Da Hammamet Craxi infanga l’Italia e con ciò, implicitamente, anche se stesso perché del nostro Paese era stato Presidente del Consiglio. I democristiani si comportarono in modo diverso accettando le leggi del loro Paese, Forlani si difese nel processo e, condannato, fece i servizi sociali senza una parola contro la Magistratura italiana, dimostrando un senso dello Stato che Craxi evidentemente non aveva. Se poi vogliamo guardare le cose solo in casa Psi la fuga di Craxi lasciò allo scoperto tutti i compagni che rimanevano in Italia (anche Claudio Martelli poteva fuggire ma, come dice nel suo ultimo libro, prese la decisione di restare in patria). Insomma in termini malavitosi, ma qui stiamo ormai parlando di malavita, Bettino Craxi è stato un “infame”.

A me non è mai piaciuto maramaldeggiare sui perdenti. Nei giorni in cui Craxi cadeva definitivamente nel fango e sulla balena ferita a morte infierivano ogni sorta di fiocinatori, compresi i suoi stessi compagni, a cominciare da Martelli, il “delfino” (“ridaremo l’onore al Partito socialista”), scrissi su L’Indipendente diretto da Feltri, il più ‘forcaiolo’ di tutti (“il cinghialone” appioppato al leader socialista, termine che è suo e non di Di Pietro come è stato detto erroneamente in questi giorni, che trasformava una legittima inchiesta della Magistratura in una caccia sadica, l’Enzo Carra esibito voluttuosamente in prima pagina in manette) io scrissi un articolo intitolato “Vi racconto il lato buono di Bettino” (L’indipendente, 17 dicembre 1992). Di fronte a quel Craxi dai tratti “deformati, sfigurati, sconciati, malati” che si presentava ai nostri occhi in quei giorni, mi piacque ricordare che c’era stato anche un altro Craxi che aveva acceso grandi speranze in molti. Ma allo stesso modo oggi non posso accettare la santificazione di un uomo politico che, a conti fatti, è stato deleterio nella storia recente del nostro Paese. Infine un “grande leader” come oggi Craxi viene definito da molti non può finire la sua carriera politica nelle mani di un malavitoso di quart'ordine come Raggio.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2020