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L’altro giorno c’è stato un episodio divertente quanto significativo. Nella solita, lunghissima fila alle Poste, ore perse dagli schiavi salariati perché in Italia non si ha la consapevolezza che la Pubblica Amministrazione è al servizio dei cittadini, a differenza per esempio della Svizzera, Paese che ho bazzicato a lungo, dove si ha una concezione diametralmente opposta, a un certo punto si presenta allo sportello un signore sulla settantina che ha fatto la fila come tutti. Di cognome fa Andreotti. L’impiegato gli dice “certamente lei non è parente dell’Onorevole, altrimenti non sarebbe qui far la fila”. Era invece Stefano Andreotti, il secondo genito del “divo Giulio”. Questo era lo stile non solo di Andreotti, ma di buona parte dei politici della Democrazia cristiana che non ci hanno mai imposto i loro figli, le loro mogli, le loro amanti (ce le avevano anche loro) somigliando in questo alla nomenklatura sovietica dove le mogli di quelli che oggi chiameremmo ‘i boiardi di Stato’ si vedevano solo ai funerali dei mariti in lise pelliccette di astrakan. Né i capataz democristiani di allora hanno mai abitato in lussuose ville, ma in appartamenti normali o quasi. Non era il denaro che li interessava, ma il potere. Amintore Fanfani, al culmine della sua carriera politica, abitava all’ottavo piano di un condominio in viale Platone, in un bell’attico ma niente più, mentre il suo uomo di fiducia, Gian Paolo Cresci, aveva lussuose abitazioni disseminate un po’ dappertutto.

Una volta chiesi a Susanna Agnelli, che era stata Sottosegretario agli Esteri quando Andreotti ne era ministro, quante lingue conoscesse il “divo Giulio”. “Sa il francese, ma potrebbe benissimo non conoscere alcuna lingua straniera perché è di una levatura assolutamente superiore ai politici della sua generazione, per non parlare di quelli di oggi”.

Andreotti ha alcuni meriti che conviene ricordare. Sottosegretario di Sato alla Presidenza del Consiglio dei ministri riuscì a far passare, con la sua grande abilità di dribblatore, i film del neorealismo cui la DC si opponeva perché davano un’immagine troppo scalcagnata dell’Italia del dopoguerra (Ladri di biciclette, De Sica). Ma certamente più importante è la politica di appeasement  che fece da ministro degli Esteri nei confronti del mondo mediorientale, di cui godiamo ancora i frutti. Politica difficile perché allora l’alleanza con gli Stati Uniti, in presenza dell’URSS, era obbligata.

Ho incontrato solo due volte il “divo Giulio”. Camminavo lungo il parterre dell’ippodromo di Tor di Valle, a Roma, sfiorando i picchetti dei bookmakers. Chino sulle pagine di Trotto Sportsman stavo studiando la 7 e l’8, le ultime corse della giornata nelle quali corrono i brocchi, ci sono anche driver semidilettanti, non ci sono favoriti affidabili e quindi può vincere anche un cavallo dato 10 a 1 e tu fare il colpo grosso. Andai a sbattere contro un uomo che stava facendo la stessa cosa. Gli caddero gli occhiali, mi piegai e glieli porsi. “Grazie”. Era l’onorevole Giulio Andreotti. Mi sorprese l’altezza dell’uomo. Non ho mai fatto, grazie a dio, il cronista parlamentare, ma naturalmente avevo visto Andreotti mille volte in tv. Però non avevo mai colto quel dettaglio (era alto 1,83). Mi voltai per seguirlo con lo sguardo. Continuava a camminare tranquillo, chino sul Trotto, e poi andò ai picchetti per puntare. Non vidi scorte, ci saranno anche state ma io non le scorsi. Dunque il divo Giulio non andava solo in chiesa alle sei del mattino, frequentava anche altri tabernacoli un po’ meno pii. Aveva, insomma, un vizio. E io ho sempre diffidato degli uomini che non hanno vizi, soprattutto se hanno le unghie molto curate, sono dei potenziali serial killer.

Il caso volle che pochi mesi dopo quello “strano incontro” Arturo Tofanelli, che dirigeva allora Affari Italiani, mi chiedesse di intervistare Andreotti. Aveva in mente di fare una serie di inchieste sulle grandi aziende italiane e sui loro rapporti con la politica e gli pareva interessante sentire, fra gli altri, il “divo Giulio”, romano de Roma. La cosa si presentava tutt’altro che facile. Andreotti in quel periodo era ministro degli Esteri, Affari Italiani un giornale di nicchia quasi sconosciuto, anche se fatto benissimo, come li sapeva fare quel genio, oggi dimenticato, di Tofanelli.

Telefonai alla segreteria di Andreotti. Rispose direttamente la segretaria personale del “divo Giulio”, la mitica Enea. Mi chiese l’argomento dell’intervista, la data di uscita del giornale e il tempo di cui avevo bisogno. “Ne parlo al senatore. La richiamo fra mezz’ora”. La cosa mi colpì, in  Italia se vuoi intervistare un uomo politico di un certo livello devi passare per una mezza dozzina di portaborse i quali ne approfittano per chiederti qualche favore fuori ordinanza. Il metodo di Andreotti non era da sottobosco, ma anche qui di stile europeo, quello di cui avevo avuto esperienza in Germania quando avevo intervistato un’importante parlamentare tedesca, Anke Martini-Glotz. Puntuale, dopo mezz’ora, mi telefonò la segretaria di Andreotti. Mi spiegò che il senatore sarebbe stato a Milano il tal giorno, in un certo Istituto cattolico vicino a Linate perché poi doveva ripartire per Roma. Poteva darmi quaranta minuti di tempo. Arrivai con un po’ di anticipo. Andreotti era lì, circondato da una piccola corte. Fummo presentati e introdotti in un amplissimo salone, disadorno, con al centro un piccolo tavolo. Il “divo Giulio” fece un leggero cenno con la mano e la corte sparì chiudendosi la porta alle spalle. Così adesso mi trovavo vis à vis con Andreotti, a meno di un metro di distanza, soli. Mi passò per la mente un bizzarro pensiero: se avessi voluto avrei potuto strozzare l’onorevole Andreotti con le mie mani, ero giovane, Andreotti andava per la settantina, non certo un fenomeno fisicamente, e intorno a noi non c’era nessuno. Naturalmente non strozzai Andreotti. Fu una conversazione molto intensa, anche se solo di poco più che mezz’ora,  parlò soprattutto lui senza che io avessi bisogno di stimolarlo. Era un uomo di grande cultura, profondo conoscitore delle Istituzioni, dei loro meccanismi, del funzionamento della Pubblica Amministrazione, della storia italiana e non solo, una lezione universitaria, data con mano leggera. Fu una conversazione piacevolissima anche perché Andreotti, com’è noto, era un maestro di un’ironia sottile e sempre elegante. Veniva puntualmente caricaturato con l’immancabile gobba, lui ne sorrideva e si faceva dare gli originali, soprattutto da Forattini.

Andreotti è stato sempre accusato di tutto, era il “Belzebù” per eccellenza. Molto discussi sono stati i suoi rapporti con la Mafia, ma rapporti con la Mafia li avevano tutti i leader politici. Anche l’integerrimo Ugo La Malfa li aveva attraverso Aristide Gunnella, il suo uomo in Sicilia. Andreotti attraverso Lima. E l’unica volta che l’ho visto perdere il suo tradizionale aplomb fu proprio quando assassinarono Lima. La Mafia aveva aperto le porte della Sicilia agli americani che la presero in due giorni (altro che il mussoliniano “fermeremo gli Alleati sul bagnasciuga”). E questi conti con la Mafia li abbiamo dovuti pagare e li paghiamo ancora oggi.

Comunque nei vari processi che ebbe, Andreotti, come del resto Forlani, si è sempre difeso nel processo e non fuori dal processo attaccando la “magistratura politicizzata” come hanno fatto invece, in seguito, tutti i corrotti pescati con le mani nel sacco da Mani Pulite. Perché una classe dirigente, consapevole di essere tale, si guarda bene dal delegittimare le Istituzioni, la Magistratura, le leggi dello Stato, perché sa bene che sono le sue Istituzioni, la sua Magistratura, le sue leggi e che dal disordine, dal caos, dall’anarchia istituzionale ha solo da perdere in particolare, alla lunga, il proprio potere, mentre i sudditi hanno da perdere soltanto, per dirla con Marx, "le proprie catene".

La vera, e a mio parere unica, ma grave, responsabilità di Andreotti, condivisa con Craxi e Forlani, è stata “il voto di scambio” per ottenere il consenso: pensioni di vecchiaia false, pensioni di invalidità fasulle, pensioni baby, pensioni d’oro. E questo ha portato a quell’enorme debito pubblico con cui hanno dovuto, e devono, fare i conti tutti i governi italiani, da Berlusconi in poi.

In qualsiasi altro Paese d’Europa Giulio Andreotti sarebbe stato un grande statista. Da noi è stato uno strano ircocervo: mezzo statista e, forse, mezzo delinquente.

Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2022

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 La lunga agonia, da morto, di papa Ratzinger.  Mi par chiaro che le trecentomila persone che in tre giorni hanno sfilato davanti alla salma di Ratzinger lo abbiano fatto, in buona parte, per antipatia nei confronti di Bergoglio. Io ho sempre preferito Ratzinger. Non per la sua finissima teologia di cui non capisco un accidente da buon miscredente, ma per l’immagine di spiritualità che emanava, mentre Bergoglio mi sembra più umano, forse troppo umano. La spiritualità non va confusa con la religiosità, è un senso del sacro che può appartenere anche a chi non crede e, alla De André, vede nella formidabile figura di Cristo un affascinante borderline, un po’ trucchista, un uomo quindi che crede sinceramente di essere “il figlio di Dio”, ma sulla croce dubita, umanamente dubita: “Padre, padre perché mi hai abbandonato?”. Insomma io parlo qui “in partibus infedelium”, da “onesto pagano”, per dirla con Nietzsche, e quindi i cattolici non dovrebbero offendersi per quello che scrivo.

D’altra parte di Bergoglio mi piace il nome, estremamente impegnativo, che si è scelto: Francesco. Francesco d’Assisi è un Santo estremamente attuale e moderno, molto più di Ratzinger o Bergoglio. È un Santo ambientalista: “Lodato sii, mio Signore, insieme a tutte le creature, specialmente per il signor fratello sole, il quale è la luce del giorno, e tu tramite lui ci dai la luce … Lodato sii, o mio Signore, per sorella luna e le stelle: in cielo le hai create, chiare preziose e belle. Lodato sii, mio Signore, per fratello vento, e per l'aria e per il cielo; per quello nuvoloso e per quello sereno, per ogni stagione tramite la quale alle creature dai vita. Lodato sii, mio Signore, per sorella acqua, la quale è molto utile e umile, preziosa e pura. Lodato sii, mio Signore, per fratello fuoco, attraverso il quale illumini la notte … Lodato sii, mio Signore, per nostra sorella madre terra, la quale ci dà nutrimento e ci mantiene: produce diversi frutti, con fiori variopinti ed erba” (Cantico delle creature).

Francesco d’Assisi è un Santo pauperista che farebbe tremare i polsi a tutta la grande industria e finanza internazionale. Era figlio di un mercante e sapeva bene dove si va a finire quando si comincia a maneggiare troppo denaro. E qui Bergoglio e Ratzinger si riuniscono, quando parlano del progresso dell’economia e della tecnica, e della sua ambivalenza, se non al Santo di Assisi, quantomeno ad Heidegger. Scrive Bergoglio nel suo libro La dittatura dell’economia: “Gli effetti dell’applicazione di questo modello (il modello che chiamiamo occidentale ma che ormai permea di sé il mondo intero o quasi, ndr) a tutta la realtà, umana e sociale, si constatano nel degrado dell’ambiente … Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica … L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano … In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali (“In realtà la tecnologia come risolve un problema ne pone dieci altri ancora più complessi” Paolo Rossi, filosofo della scienza) … La specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme … Nella realtà concreta che ci interpella, appaiono diversi sintomi che mostrano l’errore, come il degrado ambientale, l’ansia, la perdita del senso del vivere insieme … La gente prende coscienza che il progresso della scienza e della tecnica non equivale al progresso dell’umanità e dalla storia”. Da parte sua Ratzinger, quando era ancora cardinale, ha affermato: “il Progresso non ha partorito l’Uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”.

Insomma, diciamo la verità, Bergoglio e Ratzinger sono “finiani” e forse, chissà, anche il fraticello di Assisi.

Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2023

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Una vita da cronista. Nel 1971 fui assunto come cronista all’Avanti! di Milano diretto dall’ottimo Ugo Intini che è stato insieme al compagno Rino Formica, quello che bollò il Comitato centrale del Psi di Craxi come “un circo di nani e ballerine”, uno dei pochissimi socialisti  a non rubare. Ma questo lo si sarebbe saputo poi. Mani Pulite era di là da venire.

Prendevo 120mila lire al mese. La mia giornata era scandita in questo modo. Arrivavo la mattina verso le dieci a Palazzo di Giustizia. I miei colleghi dopo dieci o vent’anni anni di giudiziaria erano bolliti e avevano come principale obiettivo lavorare il meno possibile. Io avevo invece l’entusiasmo del neofita.

Seguivo i processi che interessavano il giornale, quelli che derivavano dalle bombe alla Fiera di Milano, da piazza Fontana, dal “suicidio” di Pino Pinelli che secondo le prime ricostruzioni era ‘volato’ giù dal quarto piano della questura gridando “è la fine dell’anarchia”.  Moltissimo tempo dopo fui convocato in quel quarto piano dalla Digos  che a quarant’anni dai fatti cercava ancora i responsabili della strage di piazza della Loggia. Confesso che, benché il funzionario della Digos, Cacioppo, fosse amabile e gentile, quando mi affacciai alla finestra di quel quarto piano ebbi una brutta sensazione.

All’epoca dell’Avanti! bazzicavo il circolo anarchico ‘Ponte della Ghisolfa’, ma non ho conosciuto Valpreda, in galera da quattro anni senza processo nel silenzio assoluto dei “garantisti” di oggi. Pinelli sì, era il classico anarchico idealista che non avrebbe fatto male a una mosca.

Se non c’erano processi di quel tipo, a Palazzo c’era poco da fare perché i magistrati di allora parlavano solo per “atti e documenti” e scucirgli una notizia era impossibile. Ho conosciuto bene Emilio Alessandrini. Fra di noi c’era un buon rapporto e quando ci incrociavamo nel baretto a fianco del Palazzo parlavamo un po’ di tutto, mai dei processi.

Se non c’erano udienze di quei processi allora andavo in giro per la città in cerca di notizie. Un punto di riferimento era la Statale di Milano ancora in subbuglio post Sessantotto. Alla Statale conobbi Mario Capanna, Michelangelo Spada e Banfi che erano stati espulsi dalla Cattolica. Mi misi sotto le ali protettive di Capanna quando i ‘katanga’ dell’MS mi volevano sprangare. Capanna, di suo, era contrario alla violenza, anche se ebbe la responsabilità di avallarla. Gli garbavano di più gli scherzi un po’ goliardici (le uova alla prima della Scala sulle pellicce delle signore). Una volta ci trovavamo in Largo Gemelli davanti alla Cattolica presidiata dalla polizia. Capanna con un megafono intimò alla polizia di sgomberare. Immediatamente dalla caserma a fianco uscirono i carabinieri. Ci rifugiammo in una chiesetta sconsacrata che era lì a fianco. Ma eravamo intrappolati. Capanna e altri presero una grande asse di legno, sfondarono una porta laterale e fuggimmo. Era una scena medievale e a questa suggestione aiutava il viso umbro di Mario. Di recente ho telefonato a Capanna per sapere se quell’immagine era un parto della mia fantasia, dedita in genere a idealizzare il passato, o se quella storia dell’asse usata come un ariete  era realmente avvenuta. Mario me lo ha confermato.

Altri punti di riferimento erano i circoli anarchici del ‘Ponte della Ghisolfa’ e dello ‘Scaldasole’.  Dove, oltre a Pinelli, ho conosciuto dei giovani anarchici, Joe Fallisi, che girava con un occhio bendato perché era stato menato dalla polizia, Tito Pulsinelli, Della Savia.

Altrimenti bisognava scarpinare. Non era difficile in quella Milano trovare cose interessanti, curiose, quartieri semisconosciuti, anche perché non c’erano ancora i social (oggi è come se un ‘cronista da strada’ avesse un milione di concorrenti che gli bruciano il materiale).

Dopo il giro in città tornavo verso l’una e mezza al giornale per riferire al capocronista, Liano Fanti. L’Avanti! stava in piazza Cavour come molti altri giornali, La Notte, la redazione milanese de La Stampa, il Corriere lombardo. Poi mi incamminavo lungo i giardini, non ancora Montanelli, e raggiungevo casa. Mangiavo e mi riposavo fino alle quattro. Poi di nuovo al giornale. In genere dovevo scrivere due pezzi entro le otto inseguito dalle urla di Intini che gridava “I treni!” (a quell’epoca i giornali erano trasportati ancora materialmente) o “il piombo non è elastico” perché il mio vizio è di andare lungo. Subito dopo mi mandavano al Consiglio comunale, la cosa più noiosa del mondo. Rientravo, scrivevo svogliatamente un pezzullo. Se il capocronista non c’era toccava a me, pressoché novizio, scendere in tipografia per chiudere il giornale. I tipografi erano degli artigiani formidabili. Sapevano leggere la bozza a rovescio e mi hanno insegnato molto, per esempio che i titoli non devono ‘sbattere’, errore che vedo spesso fare oggi. Poi c’erano i correttori di bozze, anch’essi bravissimi. E il rumore incessante delle rotative che per me suonava come una canzone. Insomma un mondo.

Uscito dal giornale a notte fonda andavo a mangiare in una trattoria di via Senato insieme a colleghi, agli inquieti della notte, ubriaconi, puttane, piccola mala. Renato Vallanzasca e Francis Turatello frequentavano altri giri. Vallanzasca lo conobbi in seguito in uno dei suoi brevi periodi di semilibertà. Il “bel René” era molto simpatico. Dalla prigione mi scriveva delle lettere molto fanciullesche, quasi ingenue, ma affascinanti. Io proposi al proprietario del Borghese, Massimo Massano, di dargli una rubrica sul giornale: “Se scrive Sofri, mandante di un vilissimo attentato sotto casa, non vedo perché non possa farlo Vallanzasca”. Il bel René era un bandito a viso aperto, giocava a guardie e ladri. Aveva una mira micidiale come il ‘Sante’ della canzone di De Gregori, Il bandito e il campione. Il bello è che ci vedeva da un solo occhio. Adesso, scontate le sette evasioni, ha raggiunto i 52 anni di galera. Per quante rapine e omicidi abbia commesso mi sembrano un po’ troppi, se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Per parte mia lo avrei graziato già la prima volta che fu catturato a Roma e portato in manette su un balconcino a disposizione dei fotografi e dei giornalisti. In quel clima sociologizzante dove la colpa era sempre della società o della famiglia o delle cattive compagnie un giornalista gli chiese: “Vallanzasca, lei si ritiene una vittima della società?”. Rispose: “Non diciamo cazzate!”. Come ho scritto in altre occasioni: “Vallanzasca è un bandito onesto in una società dove, troppe volte, gli onesti sono dei banditi”. Ogni tanto mi telefona: “Sono Renato” “Renato chi?” “C’è un solo Renato”. Allora capisco che è lui con la sua consueta spavalderia. Ma 52 anni di galera, undici in isolamento o ai famigerati ‘braccetti’, hanno finito per fiaccare anche lui.

Per l’Avanti! seguii, insieme ai colleghi della cronaca e ad altri di rinforzo, la misteriosa morte dell’editore Feltrinelli trovato cadavere sotto un traliccio dell’Enel. Tutti insieme riuscimmo a stare alla pari col Corriere della sera, strapotente concorrente, odiato anche perché era il giornale della borghesia. C’è una foto in cui ci siamo tutti, Intini, Fanti, Punzo, Viola, Schemmari, a cena a tarda notte nella trattoria di via Senato, felici.

L’Avanti! era un ambiente meraviglioso, libertario e anarcoide. Il vice capocronista, Manrico Punzo, era del  Pci. Una volta si scoprì che uno dei dimafonisti era iscritto all’Msi. A nessuno passò per la testa di licenziarlo. Fu semplicemente spostato ad altra mansione perché non avesse accesso ai segreti del giornale.

Dopo due anni passai a L’Europeo. In modo del tutto istintivo perché attraverso Camilla Cederna avevo già ricevuto una proposta da L’Espresso. Scelsi L’Europeo in modo casuale. Una notte, non ci pareva mai che fosse troppo tardi, in macchina il collega Giorgio Santerini mi disse: “Si sa come va a finire con quelli come te, stanno qui due anni e poi vanno a L’Europeo”. Tommaso Giglio, il direttore, cercava dei giovani perché la sua redazione era invecchiata. Affidò il compito a Corrado Incerti, il più giovane. Ma Incerti col lavoro stressante che si faceva a L’Europeo non conosceva nessuno. Si rivolse perciò al caporedattore dell’Avvenire, Giusti, il più grande bestemmiatore che abbia mai conosciuto. Fra piccoli giornali ci si spia. Disse “a me pare bravo quello lì dell’Avanti!, si chiama Fini”. E così fu Europeo.

Passare dalla scanzonatura dell’Avanti! al clima cupo che si respirava a L’Europeo fu un trauma. Dopo pochi giorni volevo già ritornare all’Avanti!. Mi consigliai con Liano Fanti che mi disse se ero diventato pazzo.

Quella trattoria di via Senato, dove ero stato tante volte di notte, mi tornò buona, di giorno, moltissimi anni dopo. Nel 1996 avevano chiuso sia L’Europeo che L’Indipendente, i giornali per cui lavoravo. Mi trovavo quindi col culo per terra. Avevo 53 anni, un’età insidiosa. Mi rivolsi a Guglielmo Zucconi che negli anni Ottanta, insieme a Pierluigi Magnaschi, era stato mio direttore al Giorno. Invitai Zucconi a pranzo in quella trattoria dove ero stato mille volte. Zucconi però non era più direttore del Giorno ma direttore editoriale del QN, una posizione più debole. Capii che, pur stimandomi, non aveva poi tanta voglia di spendersi per me. Uscimmo e ci avviammo in via Senato verso piazza Cavour. All’incrocio tra via Senato e piazza Cavour una splendida ragazza in bicicletta, con regolare minigonna, con gambe altrettanto belle frenò di colpo e, ignorando Zucconi, disse “Ma tu sei Fini!”. Capivo che la cosa colpiva il vecchio Zuc. Però ero in preda a un dilemma: chiedere o no il cellulare alla ragazza? Se lo avessi fatto mi sarei sputtanato con Zucconi. Rinunciai. E fui assunto dal QN.

Poi ebbi molte altre avventure. Credo di aver scritto nella mia vita per un centinaio di testate. Ma qui siamo all’oggi. Però nel mio cuore rimane sempre la mia ‘vita da cronista’ all’Avanti! di Milano.

Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2023