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Nell’incontro di Samarcanda Xi Jinping e Putin hanno sostanzialmente sostenuto, in contrapposizione con  l’Occidente il principio della “non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano”. E’ curioso che Vladimir Putin affermi questo principio proprio nel momento in cui lo sta violando in Ucraina col pretesto di “denazificarla”. E’ però altrettanto curioso che questa posizione sia passata nei media nazionali e internazionali quasi inosservata. Perchè il principio è sacrosanto e si rifà all’accordo di Helsinky del 1975, firmato da quasi tutti gli stati del mondo, che sanciva “il diritto all’autodeterminazione dei popoli” per cui un popolo può svilupparsi, o anche non svilupparsi, evolvere, o anche non evolvere secondo la propria storia, le proprie tradizioni, i propri costumi.

Si può dire simbolicamente, sia pur con un po’ di approssimazione, che l’imperialismo moderno di marca prima yankee e poi occidentale nasca nel 1946 in Giappone quando gli americani imposero all’imperatore nipponico Hiro Hito di ‘devinizzarsi’ cioè di ammettere di non essere l’incarnazione vivente di un dio. La premessa è che quella occidentale (anche se lo stesso concetto di Occidente è molto dubbio perché Stati Uniti ed Europa non sono la stessa cosa) è la “cultura superiore” che ha il diritto, anzi il dovere, di omologare a sè tutte le altre, concetto estraneo agli imperialismi dell’antichità. I Romani furono certamente un popolo imperialista e conquistatore ma non imposero mai i loro valori ai popoli che sottomettevano, gli bastava che pagassero le tasse, cioè che li rifornissero di frumento. Erodoto dice le peggio cose dei Persiani, barbari e crudeli, ma non si sognerebbe mai di imporre loro i costumi e i valori greci. I Greci sono greci, i Persiani sono persiani. Sul piano dei valori e dei costumi ognuno deve restare a casa propria.

Anche il colonialismo europeo non aveva l’ambizione di cambiare i valori e i costumi degli indigeni, si accontentava di rapinar loro materie prime, ma non pretendeva di cambiare la vita, la socialità e nemmeno l’economia degli autoctoni che continuavano a vivere come sempre avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, cioè con un’ “economia di sussistenza”, vale a dire autoproduzione e autoconsumo.

Con l’imperialismo che ho definito “moderno” cambia tutto per le ragioni “etiche” di cui ho parlato, ma adesso anche economiche che hanno stravolto quelle popolazioni provocando, se pensiamo all’Africa Nera, quelle migrazioni bibliche che oggi tanto ci spaventano. Per molti secoli l’Africa è stata territorio delle consuete rapine di materie prime, di cui spesso gli autoctoni non sapevano che farsi, ma dal punto di vista economico, alimentare e sociale se l’era cavata benissimo, depurato il fatto di avere sulla testa gli occupanti. Ai primi del Novecento era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza, al 98 per cento, nel 1961.  Che cosa è successo dopo? L’industrialismo moderno, che è una delle tante forme che assume l’imperialismo, come direbbe Pasolini, è alla perenne ricerca di nuovi mercati perché i suoi sono saturi. Per cui anche l’Africa Nera, per quanto povera diventò un obiettivo interessante per cui bisognava vendere anche ai poveri (ovviamente il discorso non riguarda solo l’Africa ma tutti i paesi cosiddetti “sottosviluppati”). Il discorso salviniano, ma non solo salviniano, “aiutiamoli a casa loro” è una trappola. Perché in questo modo li si integra ulteriormente nel nostro modello dove non possono essere che perdenti e ultimi. All’epoca di un summit del G7 i sette paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, fecero un controsummit al grido di: “per favore non aiutateci piu!” Insomma imperialismo economico e imperialismo culturale vanno a braccetto.

Ma torniamo a quello culturale, cioè la pretesa di omologare a sé l’universo mondo, da cui siamo partiti.  Gli occidentali, come tanti altri stati che occidentali non sono, fanno guerre per i loro interessi ma fanno anche guerre puramente ideologiche. L’esempio più lampante è l’Afghanistan talebano (premessa: è stato evidente quasi sin da subito che i Talebani non c’entravano niente con l’attacco alle Torri Gemelle, ne erano anzi all’oscuro), non ci piacevano i loro costumi e per questo abbiamo iniziato una guerra durata vent’anni, con un numero impressionante di morti civili, altro che Ucraina, che alla fine abbiamo perso nel modo più vergognoso. Perché ci sono valori prepolitici e preideologici che non sono comprimibili nemmeno schierando il più potente e tecnologicamente avanzato esercito del mondo.

 

Il Fatto Quotidiano,18  Settembre 2022

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Inserire Umberto Bossi fra le “meteore” della vita politica italiana potrebbe sembrare azzardato. Perché Bossi in politica c’è da più di mezzo secolo e in qualche modo vi resta sia pure come pallido e malato fantasma di un tempo.

E’ l’epopea di Bossi a essere stata breve, diciamo circa dal 1989 al 1994. Quando comparve per la prima volta sulla scena politica nazionale, nel 1989, quale unico eletto di un misterioso movimento, la Lega Lombarda, non fu preso minimamente sul serio. Lo stesso appellativo di “senatur” che gli fu appioppato dice che la classe politica italiana lo considerava, per il modo di porgersi, di vestire (la famosa canotta bianca in Sardegna al fianco di un irreprensibile Berlusconi), di comportarsi, una semplice stranezza o, nel migliore dei casi, un caso patetico. Ma cosa voleva costui con le sue idee stravaganti quanto confuse?

Eppure le idee dell’“Umberto” non erano né stravaganti né confuse. Le contestatissime “macroregioni” (“le tre italiette”, Ugo Intini fra i tantissimi), erano la semplice constatazione di un dato di fatto: che Nord, Centro, Sud sono regioni, socialmente, economicamente, culturalmente, psicologicamente e anche climaticamente diverse. Questa constatazione, che ci sarebbe stata molto utile in epoca di pandemia, si portava dietro, fra gli altri, il concetto, anch’esso contestatissimo, delle “gabbie salariali”. E’ del tutto evidente che un impiegato nella Pubblica amministrazione al Nord, che prende lo stesso salario di un suo corrispondente al Sud, è più danneggiato di un meridionale perché a Milano, a Como, a Treviso, la vita costa tre volte tanto.  

Ma la visione di Bossi, coadiuvato da Gianfranco Miglio, andava molto più lontano, anche utopisticamente troppo lontano come quella, per restare al giorno d’oggi, di Gian Roberto Casaleggio. Postulava che in un’Europa politicamente unita i punti di riferimento periferici non sarebbero più stati gli Stati nazionali, ma appunto “macroregioni” più coese dal punto di vista economico, sociale, linguistico (Tirolo e Alto Adige per esempio o Riviera di Ponente e Provenza per farne un altro). Idea utopica, perché l’unità politica d’Europa era molto di là da venire tant’è che non si è realizzata ancora oggi.

Bossi si era anche inventato dei miti fondativi (“il Dio Po”, la Padania). Poveri miti, ma comunque miti in un Italia partitocratica completamente priva di immaginazione e quindi di ideali.

La Lega Lombarda cominciò a essere presa sul serio quando si vide che al Nord prendeva il 40 per cento dei voti e che quindi, per usare il linguaggio dello stesso Bossi, c’era un “idem sentire”. Allora ebbe inizio da parte della burocrazia partitocratica una campagna di denigrazione e di violenza quale nemmeno le Brigate Rosse avevano conosciuto. Qualcuno ricorderà, forse, l’irruzione della Digos nella sede della Lega, partito politico rappresentato in Parlamento, caso unico nella storia dell’Italia repubblicana. E ricorderà, forse, la fotografia di Roberto Maroni steso a terra, privo di conoscenza, cui Bossi sorregge il capo.

La Lega di Bossi, a differenza di quella di Salvini, non era razzista. La mitica “Padania” era di chi ci vive e ci lavora senza andare a fare controlli del sangue sulle sue origini. Naturalmente i cronisti andavano nelle più profonde valli bergamasche per farsi dire qualcosa di antimeridionale.

Ho conosciuto molto bene Umberto Bossi. Era un uomo semplice ma nient’affatto rozzo. Basta andare a rileggere il discorso alla Camera del 21 dicembre 1994 in cui fece cadere il primo governo Berlusconi: non c’è una sbavatura né istituzionale, né logica, né, tantomeno, grammaticale.

A Bossi, pur al massimo del suo successo, piaceva la vita semplice, anche se non era un uomo semplice. Non fa parte della leggenda il fatto che uno dei suoi maggiori piaceri fosse mangiarsi una pizza non in luoghi lussuosi ma nel primo posto raggiungibile. Gli mancava totalmente la spocchia dell’uomo politico. Quante volte Vimercati e io, a cena la notte, gli telefonavamo dicendogli “Siamo qui, ci raggiungi?” e lui, se non aveva altri impegni che lo opprimevano, arrivava dopo una mezz’oretta.

Una volta mi telefonò per chiedermi se ero disposto a dirigere L’Indipendente. “Be’, vieni a casa mia e ne parliamo”. Questo quando qualsiasi uomo politico di mezza e di mezzissima tacca, per avere un incontro con un qualsiasi boss, ti fa passare per mille intermediari. Quando fu a casa mia, seduto sull’ormai mitico divano rosso, forse intimidito dai tanti libri, indicando un alto scaffale disse “Quella è La ragione aveva torto”. “Sì Umberto, è proprio la Ragione” anche se non era vero. La grande capacità di Bossi era di assimilare tutto ciò che vedeva, ascoltava e anche quel poco che leggeva per poi usarlo ai propri fini. Che, secondo me, è il vero segno dell’intelligenza.

Umberto Bossi era un uomo di passione e gli uomini di passione ci lasciano quasi sempre la pelle, o quasi, prima degli altri. Alcuni esempi, anche recenti, lo confermano.

Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2022

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“Europeismo” e “atlantismo” sono due termini che nell’uso comune sono considerati se non proprio coincidenti comunque strettissimamente legati fra di loro. Non si può essere europeisti senza essere anche atlantisti. Le cose non stanno così, tantomeno oggi.

Essere “europeisti” significa lavorare per un’Europa più unita dal punto di vista politico di quanto non lo sia attualmente, smussandone gli estremismi alla Orban, e sufficientemente armata (leggi l’Atomica per ora in dotazione ai soli francesi) per non dover dipendere da pelose protezioni altrui (leggi Stati Uniti o domani magari, a seconda di come evolvano gli equilibri geopolitici internazionali, Cina), economicamente autosufficiente nei limiti in cui questo è possibile in un mondo divenuto globale.

“Atlantismo” significa invece una dipendenza politica, militare, economica agli Stati Uniti e ai loro interessi. L’“atlantismo” ha avuto un significato fino al 1989 quando ci fu il collasso dell’Unione Sovietica. Gli americani erano infatti gli unici ad avere il deterrente militare necessario per scoraggiare l’“orso russo” da pericolose avventure in Europa Ovest (per la verità questo è ciò che si faceva credere alla gente, perché a Jalta nel 1945, quelli che usiamo chiamare “i grandi della Terra”, Roosevelt, Churchill, Stalin, avevano già deciso quelle che erano le rispettive zone di influenza e ci volle il coraggio di Tito per creare il gruppo dei “Paesi non allineati” che non intendevano dipendere né dall’Urss né dal cosiddetto Occidente, ma seguire i propri interessi che non avevano niente a che vedere con quelli dei due blocchi).

Dopo il collasso dell’Urss (che nel frattempo aveva provveduto a soffocare nel sangue le rivolte che si erano create nel blocco sovietico, quella di Imre Nagy del 1956, quella di Dubček nel 1968) la protezione degli Stati Uniti, che nel frattempo avevano utilizzato la vittoria militare nella seconda guerra mondiale per mettere l’Europa in stato di minorità, militare, politica, economica e alla fine anche culturale, non era più necessaria. Invece l’Europa si fece trascinare nella politica avventuristica americana, quella teorizzata dal primo Bush che ispirato dall’ideologo Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo) riteneva che il mondo fosse fatalmente destinato a “la Terra Promessa della Democrazia, della diffusione di una cultura generale del consumo, del capitalismo su base tecnologica”. Gli europei si fecero perciò trascinare in guerre ideologiche che erano totalmente in contrasto con i loro interessi. L’esempio più evidente e clamoroso è stato la guerra alla Serbia del 1999. In Serbia si era creato un contrasto fra lo Stato serbo e la regione del Kosovo, da sempre politicamente e giuridicamente serba (anzi il Kosovo era considerato, per ragioni storiche, la patria della “nazione serba”) e gli abitanti dello stesso Kosovo che per ragioni di natalità erano diventati la maggioranza. C’erano quindi due ragioni a confronto: quella della Serbia a conservare l’integrità del proprio territorio e quella degli indipendentisti albanesi, peraltro finanziati e armati dagli americani. E’ una situazione esattamente speculare a quella che c’è oggi fra Ucraina, Russia e Donbass. Le ragioni di uno Stato a conservare la propria integrità territoriale, cioè quella della Serbia, e l’indipendentismo kosovaro, così come oggi esiste il contrasto fra l’Ucraina e l’indipendentismo filo russo del Donbass. All’epoca gli americani decisero che la Serbia aveva torto e gli indipendentisti albanesi ragione e bombardarono per settantadue giorni una grande capitale europea come Belgrado. Alla luce di questo precedente è difficile condannare oggi Putin perché bombarda Kiev che, sia detto con il dovuto rispetto, in epoca moderna è un po’ meno importante di Belgrado (Kusturica e Bregovic). I serbi uscivano da un’altra tragica esperienza, quella della dissoluzione della Jugoslavia. In particolare in Bosnia dove il maresciallo Tito era riuscito a tenere miracolosamente in piedi tre etnie che si odiano da sempre: croati, serbi e musulmani. I serbi avevano vinto quella guerra un po’ perché, almeno a sentire chi se ne intende di queste cose, sono sul terreno (sul terreno non in una guerra di droni) i migliori combattenti del mondo (oggi forse lo sono gli Isis a cui non importa niente morire) un po’ perché appoggiati dalla madre patria serba, ma nella stessa situazione si trovavano i croati bosniaci appoggiati dalla Croazia. Nella posizione più debole si trovavano i musulmani che vivevano in Bosnia che non avevano un retroterra e avevano solo qualche appoggio dal lontano Iran. La guerra slava aveva avuto un precedente. Alla dissoluzione della Jugoslavia i croati e gli sloveni chiesero, in base al sacrosanto principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975, l’indipendenza appoggiati dalla Germania e dal Vaticano. E la ottennero. Ma una Bosnia multietnica, quella che aveva creato Tito, aveva senso all’interno di una Jugoslavia multietnica. Allora i serbi di Bosnia chiesero a loro volta l’indipendenza o l’annessione alla madre patria serba. Ma quello che era stato accordato a Croazia e Slovenia fu negato ai serbi i quali scesero in guerra e la vinsero. Ma intervennero gli americani che decisero che i serbi avevano torto e trasformarono i vincitori in vinti creando uno stato fantoccio qual è la Bosnia di oggi. Per cui io prevedo che questo stato posticcio che è oggi la Bosnia salterà. Così come non escludo che l’esercito di Belgrado aggredisca militarmente il Kosovo dove ai 50.000 serbi rimasti in quella regione (erano 360.000, la più grande “pulizia etnica” dei Balcani) è proibito anche di esser serbi e devono circolare con documenti kosovari. E non sarà loro difficile, ai serbi, sol che lo vogliano, spazzar via il contingente Nato (KFOR) costituito in maggioranza da italiani, noti combattenti.

Il lettore dirà che sto scrivendo follie. Ma erano considerate follie anche quelle che scrivevo quando affermavo che il più potente esercito del mondo sarebbe stato sconfitto in Afghanistan dagli straccioni talebani (“le sbobbe sul Mullah Omar” le chiamava il mio direttore di allora Antonio Padellaro). Abbiamo poi visto come è andata a finire. Facendo un passo indietro ricordo che una nota editorialista, che oggi lavora al Fatto, figlia di grande Autorità, appoggiò senza riserve l’aggressione americana alla Serbia. Poi si è pentita. Il discorso di questa signora era particolarmente ridicolo perché negava ai serbi il diritto di considerare il Kosovo la loro patria storica ed emotiva, mentre per anni ci aveva rotto i coglioni e continua a romperceli affermando che Israele ha diritto di stare dove sta per ragioni altrettanto storiche, o pseudostoriche, ed emotive.

L’aggressione di Putin all’Ucraina (paese di cui abbiamo scoperto in corso d’opera che era zeppo di armi americane, forse anche chimiche) è stata particolarmente stupida. Ha rafforzato una Nato che non esisteva più. Il presidente francese Emmanuel Macron aveva definito la Nato uno “spettro” e lo stesso Trump l’aveva dichiarata “inutile”. Qualche anno prima la preveggente Angela Merkel (quanto ci manca) aveva affermato testualmente: “Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Con la sua azione Putin ha riportato all’onor del mondo la Nato, che era in stato di rianimazione, quasi come un ammalato di Covid all’ultimo stadio, per cui oggi anche paesi da sempre neutrali, come la Svezia e la Finlandia, vogliono entrare in questa organizzazione.

Talleyrand diceva: “Preferisco i delinquenti ai cretini perché i primi ogni tanto si riposano”. Putin è riuscito a essere nello stesso tempo un delinquente e un cretino.

Penso che se al posto di Joe Biden, che fa fatica a stare in piedi, ci fosse stato il malfamato Donald Trump, la guerra ucraina non ci sarebbe mai stata o sarebbe durata pochi giorni. Perché il malfamato che è un imprenditore guarda ai quattrini (per questo ha ritirato il contingente yankee dall’Afghanistan e non ha fatto guerra alcuna) e non ha fumose ambizioni pseudo geopolitiche. Ciò che gli interessa è che i suoi cittadini abbiano una vita economicamente migliore, non di conquistare alla democrazia, col permesso di Fukuyama, il mondo intero.

Caro Max, in effetti con le “sbobbe sul Mullah Omar” in passato hai un po’ ecceduto, ma a te si perdona tutto. (M.Trav.)

Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2022