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La prima volta che incontrai Pier Paolo Pasolini fu per un’intervista, naturalmente. Era appena uscito Il Fiore delle Mille e una Notte che aveva creato uno scandalo come tutte le cose che diceva o faceva Pasolini. Così il direttore dell’Europeo mi mandò a intervistarlo. Prima di trovarmi vis à vis con lui mi colpirono due cose: il quartiere dove abitava, l’Eur, un quartiere borghese e la sua casa piccolo borghese, con i centrini, i comodini e tutte le cose a posto. E si conosce l’odio che Pasolini portava alla borghesia.

Poi me lo trovai davanti, seduto di fronte a me, su una spaziosa e luminosa terrazza. E non riesco a raccontarlo meglio che ricorrendo a quelle vecchie e ingiallite pagine dell’Europeo: “Pasolini il provocatore, Pasolini il seminatore di scandali, Pasolini l’omosessuale, Pasolini l’eclettico, Pasolini il cerebrale, Pasolini il… Eccolo ora seduto davanti a me questo straordinario Pasolini. Ma nulla da lui sembra emanare odor di zolfo. Tutto è normale. Normale è la sua casa, bella ma non sfarzosa, in un quieto condominio dell’Eur, normale è l’atmosfera che vi si respira… e normale è lui, Pasolini, col suo tono di voce pacato, i gesti misurati, sereni. Solo il volto di Pasolini è un po’ diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile ‘Cristo putrefatto’ di Matthias Grünewald o, meno che mai, dal Cristo oleografico e perfetto della liturgia cattolica, insomma un Cristo, anch’esso, molto normale, piccolo borghese. E in questa atmosfera anche le cose che dice, quelle stesse che quando scrive suscitano scandalo, provocano, irritano o entusiasmano, paiono cose normali, elementari, quasi banali. Sarà forse per il modo in cui parla. Non ha infatti Pasolini, a differenza di altri intellettuali italiani, la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma un modo di parlare piano, rettilineo, di chi è profondamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce”.

In genere i personaggi più o meno importanti quando vengono intervistati si limitano a stendere il tappeto mostrando le proprie bellurie e la cosa finisce lì. Con Pasolini era diverso. Pier Paolo era profondamente interessato alla persona che gli stava davanti. Così l’intervista si trasformò in un colloquio.

Questo paesaggio tranquillizzante fu interrotto dall’arrivo della madre sulla terrazza. Il comportamento di Pier Paolo cambiò di colpo. Diventò tutto un puci-puci, un pissi pissi bao bao, uno strusciarsi, un illanguidirsi, uno sciogliersi in un modo molle e quasi osceno. Si era completamente infantilizzato. Basterebbe questo rapporto con la madre per capire l’omosessualità di Pasolini che, altrimenti, nel modo di fare e negli atteggiamenti non aveva nulla della classica “checca”.  

Poiché in quel primo colloquio si era creata una certa sintonia mi invitò a pranzo. Lasciando perdere i discorsi intellettuali, o piuttosto integrandoli, parlammo soprattutto di calcio. Era tifosissimo del Bologna, una città in cui aveva vissuto grazie alle peregrinazioni del padre, un ufficiale dell’Esercito Regio, e soprattutto un ammiratore, come me, di Giacomo Bulgarelli, capitano di quella squadra e della nostra Nazionale (e mi fa specie che alla morte di Bulgarelli, avvenuta il 12 febbraio del 2009, siano state dedicate poche righe, quando oggi, per una qualsiasi squinzia dello show business, si sprecano pagine). Pasolini il calcio oltre che amarlo lo giocava, e bene, anche se con qualche leziosità, come il “passo doppio alla Biavati”, molto estetico ma del tutto inutile. 

Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli e qui vidi un altro, e diverso, Pasolini. La sera Pier Paolo mi portò al Pigneto, uno dei quartieri più malfamati di Roma (ora è diventato trendy) popolato di marchette, di magnaccia, di piccola malavita. Pasolini era da tutti conosciuto e riconosciuto. Non per questo la situazione era meno pericolosa, anzi, forse, lo era di più. Non si va con un’Alfa Romeo (mi pare fosse un’Alfa Romeo) in un ambiente del genere se non si ama il rischio (non per nulla i suoi progenitori avevano perso tutto giocando d’azzardo) e se non si ha una certa fascinazione per la morte. Anche se è facile dirlo ora io ebbi l’impressione che Pasolini cercasse la morte. Come tutte le persone molto vitali era affascinato dalla morte, la grande pacificatrice di tutte le inquietudini.

Per la morte di Pasolini, complice la Fallaci che aveva sentito dei boatos dal parrucchiere, si inventò la favoletta che era stato ucciso dai fascisti. Al perbenismo e all’ipocrisia dell’intellighenzia soprattutto romana, che pur conosceva bene le scorrerie notturne di Pier Paolo, non istava bene che lo scrittore fosse morto in quel modo. Eppure le ‘zone d’ombra’ ci sono in ogni artista anzi la sua parte notturna è spesso all’origine di quella, chiamiamola così, diurna. Proust si dilettava ad andare in macelleria per vedere vivisezionare gli animali. Comunque sia, se “Pino la rana”, diciassettenne, avesse avuto dei mandanti era tutto suo interesse denunciarli.

Pasolini era estremamente contraddittorio, un concentrato di contraddizioni. In un recentissimo libro (PPP) Alessandro Gnocchi afferma che Pasolini era “fedele ai comunisti ma non al comunismo” direi di più: Pasolini non ha mai avuto nulla a che vedere col comunismo, a partire dal fatto che suo fratello minore, Guido, arruolatosi nei partigiani, sia stato ucciso proprio dai partigiani comunisti. Se si iscrisse al PCI e si aggregò alla cricca di Moravia credo che sia stato per avere, lui intellettualmente un isolato, un eretico, una qualche rete di protezione. Comunque, nella sostanza, era un antimodernista, un antiprogressista, anche se, per la parte razionale che si portava dentro, non del tutto un anti illuminista (Le ceneri di Gramsci) basterebbe la famosa frase “darei l’intera Montedison in cambio di una lucciolata” per capire quale fosse l’ideologia di Pasolini. Era un reazionario, un nostalgico del passato, credeva in un mondo sottoproletario e contadino più semplice e più “candido”, che già allora non esisteva più. Per trovarlo dovette andare a cercarlo in Yemen dove girò Il fiore delle mille e una notte. Ma proprio qui sta, secondo me, la contraddizione più estrema di Pasolini. Amava sinceramente la semplicità, la purezza e appunto il candore dei “ragazzi di vita”, ma sessualmente prendeva piacere ad umiliarli. Così fece con “Pino la rana” che, a una richiesta troppo audace, si ribellò e lo uccise.

Come romanziere Pasolini è mediocre, come regista, da dilettante, anche peggio (Uccellacci e uccellini, dove coinvolse un incolpevole Totò, non si può rivedere).

Fu invece un grandissimo intellettuale, un uomo coltissimo, un filologo sceltissimo, che, fra le altre cose, elevò i dialetti, in particolare il friulano, alla dignità di lingua. Ma fu soprattutto un grande provocatore nel quale la provocazione non era mai fine a se stessa. E’ lui ad affermare negli anni Settanta che il fascismo, come l’abbiamo sempre inteso, non esiste più e in quelle forme non ci sarà mai più, è un fatto archeologico sostituito dalla “dittatura del consumo” che si porta appresso l’omologazione universale. In questo Pier Paolo Pasolini, anche se ha parecchi precursori a cominciare dall’Aldous Huxley del Mondo nuovo, è attualissimo e purtroppo profetico.

Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2022

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“La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi” (Eraclito)

Io non sono pacifista. Lo slogan “meglio rossi che morti” non mi è mai appartenuto. Lasciamo perdere, per il momento, la questione se ci siano guerre giuste su cui si sono affaticati non solo gli ideologi cristiani, da san Tommaso a sant’Agostino, o se la guerra sia comunque e sempre un male come pensano soprattutto gli autori moderni, illuministi, da Rousseau a Voltaire, da Diderot a d’Holbach a Kant. Il fatto è che la guerra, comunque la si voglia considerare, non è solo distruttrice ma anche creatrice. Ha funzioni positive, sia sul terreno politico, collettivo che individuale appagando pulsioni esistenziali profonde. Ed è di queste ultime che qui soprattutto mi occupo. La guerra consente di liberare legittimamente l’aggressività naturale, e vitale, che è in ciascuno di noi. Ha il pregio di ricondurre tutto, a cominciare dai sentimenti, all’essenziale. Ci libera dell’orpello, del superfluo, dell’inutile, ci rende, in ogni senso, più magri. La guerra conferisce un enorme valore alla vita. Il rischio, concreto, vicino, incombente, della morte rende ogni attimo della nostra esistenza, anche il più banale, di un’intensità senza pari. Anche se può sembrare paradossale la guerra è un’occasione irripetibile e inestimabile per imparare ad apprezzare la vita. Ai nostri ragazzi, e non solo a loro, spesso in preda a depressioni e nevrosi, consiglierei un stage in Siria o, oggi, a Kiev. Infine la guerra, dai suoi primordi, è sempre stata sentita come la prova, la prova suprema come scrive Norman Mailer, in cui l’uomo si misura con se stesso, con i propri valori, e svela, a sé e agli altri, la sua vera identità. Racconta Leo Longanesi di individui che in tempo di pace facevano i fenomeni sciogliersi come neve al sole e di impiegatucci a cui non avresti dato un soldo essere all’altezza della situazione.

Quel che ho detto fin qui non vale più da quando la tecnologia, oltre a essersi impossessata delle nostre vite, ha tolto alla guerra ogni epica, ogni estetica e, soprattutto, ogni etica, relegando l’uomo in una posizione marginale, spesso di pura e semplice vittima sacrificale. Il pilota che, poniamo, da Nellis nel Nevada, a diecimila chilometri di distanza, guida un drone armato di missili con cui uccide un centinaio di persone non ha bisogno di alcun coraggio, deve essere armato solo di cinismo. Ci sono poi guerre moderne, e molto attuali, in cui la sproporzione tecnologica fra le forze in campo è tale da far dubitare che siano delle vere guerre. È quella che Edward Luttwak ha chiamato, con felice sintesi, “la guerra post-eroica”. Situazioni di questo genere secondo il polemologo Lewis A. Coser “non si differenziano sostanzialmente dall’attacco dello strangolatore alla sua vittima”. Si esce cioè dal campo della guerra per entrare in quello dell’assassinio. Il combattente che non combatte perde ogni legittimità, quella particolare legittimità che permette in guerra ciò che è assolutamente proibito in tempo di pace: uccidere ed essere, se così si può dire, altrettanto legittimamente uccisi. Se uno solo può colpire e l’altro solo subire siamo fuori dalla guerra, almeno come l’avevamo finora conosciuta. Di questa pasta sono le guerre Nato-americane alla Serbia (1999), all’Iraq (2003), alla Libia (2011). In realtà oggi la guerra esiste ancora, ma la si fa con cattiva coscienza, vergognandosene, tant’è che la si chiama con altri nomi “operazioni di peace keeping”, “operazioni di polizia internazionale”, eccetera. Nemmeno Putin sfugge alla regola tanto che, se non ho capito male il suo russo, ha chiamato l’aggressione all’Ucraina “operazione militare speciale”. La guerra russa all’Ucraina, data la sproporzione delle forze in campo, somiglia più, almeno in buona parte, per ridirla con Coser, all’attacco dello strangolatore alla sua vittima.  E se all’Ucraina è andato il consenso dell’intero mondo occidentale, non è solo, e non è tanto, per l’indiscusso coraggio dei combattenti ucraini, ma perché è la prima volta che le televisioni ci hanno fatto vedere gli effetti di una guerra, cosa che non era accaduta per la prima guerra del Golfo (Fabrizio Del Noce ci mostrava, dalla terrazza del miglior albergo di Baghdad, cioè del nemico, cosa in sé già assai curiosa, i traccianti della contraerea e le code luminose dei missili, insomma una sorta di wargame, ma di quello che accadeva sotto non sapevamo nulla) né è accaduta per l’Afghanistan, per la seconda guerra del Golfo, per la Libia. Si è creato così, per l’Ucraina, un voyerismo della guerra che lo scrittore Antonio Scurati non ha esitato a definire, giustamente, “osceno”. Di fatto questo voyerismo televisivo non ha nulla a che fare con un vero appoggio all’Ucraina. Gli occidentali, e in particolare gli europei, sono stati troppo slombati da decenni di pace per avere il coraggio di andare a battersi sul campo come si era fatto nella guerra civile di Spagna cui confluirono combattenti di altri Paesi a favore di una fazione o dell’altra, comunisti/anarchici contro Franco (cosa che non impedì ai comunisti di massacrare i loro alleati anarchici, Omaggio alla Catalogna, Orwell), i fascisti a favore.

Un’altra novità della “guerra post-eroica” è che il nemico non è più uno “justus hostis”, da trattare con le regole dello ius belli (che peraltro non esiste più) ma è sempre un “terrorista” per gli americani o, oggi, un “nazista” per Vladimir Putin. Se il prigioniero nemico non è uno “justus hostis” se ne può fare carne di porco (vedi Guantanámo).

E veniamo alla domanda che abbiamo scartato all’inizio, e cioè se esistano guerre “giuste”. Per me sì. E sono tutte le guerre di indipendenza. Dalle ormai lontane guerre d’indipendenza nostrane, senza le quali non si sarebbe fatta l’Unità d’Italia, alla guerra dei talebani afgani agli occupanti Nato-americani e, oggi, degli ucraini contro l’invasore russo. La guerra è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dei, gli altri li fa schiavi o uomini liberi.

Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2022

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Se gli ucraini si battono con le armi, come è loro sacrosanto diritto, contro gli invasori russi sono considerati, come in effetti sono, dei coraggiosi resistenti, se lo fanno gli afgani, e non per pochi giorni (si spera almeno che siano pochi), ma per vent’anni, sono dei “terroristi” e anche se hanno vinto la partita tali restano tant’è che non si vuol dare legittimità all’attuale governo afghano che altro non è che il proseguimento di quello che c’era prima dell’invasione ed occupazione occidentale e quindi nemmeno un seggio alle Nazioni Unite. Si preferisce confiscargli i 9 miliardi di dollari che il precedente governo fantoccio ha depositato nelle banche americane così come oggi si neutralizzano le banche russe all’estero, confondendo in questo modo gli aggressori, Putin e Nato, con l’aggredito.

In vent’anni non ho sentito una sola voce, tranne la mia, bisogna pur dirlo, levarsi contro l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan non dico, com’è ovvio, dai paesi occidentali occupanti, fra cui c’era anche l’Italia, ma nemmeno da forze neutrali. I vari papi che si sono succeduti dal 2001 non hanno mai pronunciato una parola, una sola, sull’Afghanistan. Eppure in seguito a quell’occupazione ci sono stati in Afghanistan 230.000 vittime civili, non contando, giustamente, i 70.000 caduti talebani perché i Talebani erano dei guerriglieri e quindi, come ogni soldato, sapevano e accettavano i rischi cui andavano incontro.

Adesso che l’aggressore è la Russia è riesploso il pacifismo universale che dormiva da oltre trent’anni, dalla prima Guerra del Golfo. Si favoleggia anche di trascinare Vladimir Putin davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra o genocidio. A parte che mi sembra un tantino difficile andare a prenderlo come se fosse un Milosevic qualsiasi, se le cose stessero così davanti a quel Tribunale dovrebbero sedere Bush figlio, Obama, Sarkozy e molti generali tagliagole da Abdel Fattah Al Sisi a Recep Tayyip Erdoğan.  

Insopportabile è poi la retorica sui bambini di cui si è fatto veltro, insieme a tantissimi altri, Walter Veltroni con un articolo sul Corriere del 26/02 intitolato I bambini e la guerra. Durante la prima Guerra del Golfo (1990) gli americani, per non affrontare fin da subito l’imbelle esercito iracheno che era stato battuto perfino dai curdi, bombardarono per tre mesi Baghdad e Bassora uccidendo più di 160.000 civili fra cui 32.195 bambini. Mi ricordo che quando a Zapping, dove allora ero spesso invitato, riferivo questa cifra mi aspettavo che si replicasse che raccontavo fandonie (ma questo non potevano farlo perché erano dati, sia pur sfuggiti di mano, del Pentagono) o con grida di orrore. Invece niente, si continuava a parlare di Rutelli o di altre scemenze del genere. È vero che la prima Guerra del Golfo aveva una sua legittimità perché Saddam Hussein aveva aggredito il Kuwait, uno stato sovrano peraltro inventato dagli americani nel 1960 per usi petroliferi. Però questo i 32.195 bambini iracheni, che non sono meno bambini di quelli ucraini o dei nostri bambini, non potevano saperlo.

Nella seconda Guerra del Golfo, del 2003, che è costata all’Iraq fra i 650 e i 750 mila morti civili, Saddam fu aggredito sulla base di una menzogna: che possedesse “armi di distruzione di massa”. Queste armi in effetti Saddam le aveva avute, gliele avevano fornite gli americani, i francesi e, via Germania Est, i sovietici perché le usasse in funzione antiraniana e anticurda. Ma nel 2003 non le aveva più perché le aveva esaurite appunto sui soldati iraniani e sui curdi. Ad Halabja, piccola cittadina curdo-irachena, “gasò” in un sol colpo 5000 persone. Ma in Occidente nessuno alzò un solo laio perché in quel momento il rais di Baghdad era un nostro criptoalleato (e quando verrà giustiziato non sarà per Halabja, genocidio in cui gli occidentali erano fortemente compromessi, ma per fatti di molta minor gravità).

Ma la vicenda forse più clamorosa, come ho ricordato sul Fatto del 26/02, è quella che riguarda l’aggressione del 2011 alla Libia del colonnello Gheddafi, un’aggressione che, come quelle precedenti alla Serbia per il Kosovo del 1999 e all’Iraq del 2003, venne perpetrata non solo senza l’avallo dell’ONU ma contro la volontà dell’ONU e soprattutto senza alcun valido motivo. I pruriti terroristici di Gheddafi erano spenti da tempo. Gheddafi commerciava con la Francia e con l’Italia e proprio con quest’ultima aveva ottimi rapporti tanto che il premier Berlusconi lo ospitò in pompa magna a Roma, permettendo ai suoi beduini di attendarsi nella caserma intitolata a Salvo D’Acquisto. Ma quando la Libia di Gheddafi fu aggredita dai franco-americani, con l’appoggio dell’Italia di Silvio Berlusconi che pur declamava un’amicizia quasi omosessuale col colonnello come farà poi in seguito con Putin, nessuno osò proferire parola. Gheddafi verrà poi linciato, torturato e ucciso in un modo talmente barbaro che farebbe arrossire anche i cosiddetti “tagliagole dell’Isis”. I risultati di questa gloriosa operazione, comunque illegittima in partenza, a prescindere, sono oggi sotto gli occhi di tutti. La Libia di Gheddafi era un paese ordinato, in sostanza il colonnello si limitava a favorire la sua tribù d’origine, i Warfalla, e svariati parenti e amici, cosa che peraltro si fa anche in Italia. Oggi la Libia è un campo di battaglia tra le tribù che Gheddafi riusciva a tenere sotto controllo e in questo parapiglia si inserisce Isis. Gli scafisti devono pagare una taglia all’Isis per poter salpare dalle coste libiche con i loro barconi sfondati, carichi di persone che provengono perlopiù da paesi dell’Africa subsahariana ridotti alla fame proprio dall’intrusione del nostro modello di sviluppo che ha scalzato il loro sul quale quelle genti avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni.

L’Occidente non ha quindi alcun titolo per poter far la morale a nessuno. Nemmeno a Putin. E se in Italia serpeggia, sia pur sotto traccia per non essere massacrati dalla communis opinio, una certa simpatia per Putin, non è certo per una qualche animosità contro l’incolpevole e aggredita Ucraina. E’ un contraccolpo del collaudato metodo dei “due pesi e due misure”, insomma dell’esasperante e insopportabile ipocrisia occidentale.

Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2022