Mi spiace dover ammorbare di nuovo il lettore con Alessandro Sallusti. Mi occuperei volentieri di questioni più serie e di personaggi meno squallidi. Ma, come dice lo stesso Sallusti, “quando è troppo è troppo”. Nel suo editoriale (Il Giornale, 24/4) Sallusti mi definisce in modo molto condiscendente “un bravo scrittore”. Un bravo scrittore? Chi è stato per più di trent’anni, almeno ad ascoltare Wikipedia, una delle più importanti firme dell’Europeo? Chi è stato, sempre ad ascoltare Wikipedia, la firma più importante del Giorno di Zucconi e Magnaschi? Chi è stato, accanto a Feltri, uno dei protagonisti della straordinaria stagione dell’Indipendente? Chi ha scritto libri che vengono ripubblicati in terza, quarta, quattordicesima edizione a distanza di trent’anni? Chi ha fatto reportage dall’Unione Sovietica, dal Sudafrica dell’apartheid, dal Giappone, dall’Iran di Khomeini, dall’Egitto di Mubarak, mentre l’orizzonte fisico e culturale di Sallusti non è mai andato oltre il lago di Como? Oggi lavoro al Fatto, un giornale che si autofinanzia, il genio Sallusti dirige un quotidiano che, pur avendo alle spalle la poderosa “famiglia Berlusconi” (bisogna definirla così) deve essere parecchio in male arnese se i suoi giornalisti sono stati messi in “contratto di solidarietà”. Il premio Montanelli alla carriera e alla scrittura chi l’ha preso, Sallusti o io? Il premio Paolo Rizzi alla carriera chi l’ha preso, Sallusti o io? L’Ambrogino d’oro, che viene conferito a chi ha “ben meritato” della patria lombarda, chi l’ha preso, Sallusti, che, come me, è nativo di Como, o io? Ma questo è solo l’antipasto. Sallusti si appoggia al “bravo scrittore” per insinuare che io avrei fatto “dell’odio contro Berlusconi la stupida ragione” della mia vita e che questo odio deriva dal fatto di “non essere stato ammesso ai benefici che il principe dispensa ai suoi cortigiani”. Ora, Feltri, Berlusconi imperante, mi propose per tre volte di andare al Giornale, Belpietro, sempre Berlusconi imperante, due, Alessandro Sallusti quattro. L’ultima volta che Sallusti mi propose di andare al Giornale, fu in modo formale, tanto che era presente il direttore amministrativo Di Giore, proponendomi un contratto di 16.000 euro al mese per otto pezzi, infinitamente di più di quanto mi desse, e mi possa dare, il Fatto. Una proposta quasi corruttiva. E io dissi di no. Inoltre fu lo stesso Sallusti, durante una simpatica bicchierata con cui aveva trasformato una mia sfida a duello, a dire alla donna che mi accompagnava, Chiara Ceccuti, “Sai, Massimo, ha rinunciato a miliardi”, intendendo con ciò che quella rinuncia derivava proprio dal fatto di non aver voluto entrare nel giro berlusconiano.
Come fa allora Alessandro Sallusti a dire che il mio odio antiberlusconiano nasce dal fatto di non poter essere entrato nel giro dell’uomo di Arcore? Un mio amico, grande pokerista, Adolfo Levi, diceva: “io gioco contro tutti, tranne che contro la sfiga”. Io l’ho trasformato in “io gioco contro tutti, tranne che contro chi è in malafede”. Perché chi è in malafede è imbattibile, anche perché crede, sinceramente crede, proprio come Montanelli disse di Berlusconi, voglio dargli questa attenuante, alle proprie menzogne.
Sallusti è un uomo che si è ucciso a furia di vendere la propria dignità, peggio delle puttane da strada che peraltro oggi quasi non esistono più essendo entrate, in un modo o nell’altro, nei salotti buoni. Però. Come dice ancora Sallusti “quando è troppo è troppo”. Contro certi soggetti non c’è che la violenza. In “modica quantità” naturalmente (Marco “stai sereno”): un cazzotto sul grugno a spaccargli il naso e a fargli saltare la dentiera, un sinistro allo stomaco e, mentre si piega per il dolore, un destro alla mascella per rompergliela (“Ho un sinistro da un quintale e il destro, vi dirò, solo un altro ce l’ha uguale ma l’ho messo a k.o. Mi ricordo di sei mascelle rotte, ragazzi che botte, che notte quella notte”, Fred Buscaglione). Ma io non posso scazzottarmi alla pari con Sallusti perché, come Feltri, come Belpietro, ha alcune guardie del corpo pagate dai contribuenti e non si capisce in ragione di che poiché non sono personaggi istituzionali. Propongo quindi, come già una volta, qualcosa che è al limite della legalità ma che un tempo regolava i rapporti fra uomini d’onore: un duello. Alla pistola. A Sallusti lascio il primo colpo. Ma, a differenza della prima volta, se lo sbaglia, non tirerò, come mi ero ripromesso, in aria, non avrò misericordia. Non si trinceri vilmente il Sallusti come fece l’altra volta affermando che il match non sarebbe alla pari perché io ci vedo poco o nulla. In quest’anno di lockdown, annoiandomi a morte, andavo tre volte alla settimana al poligono di tiro e sono in grado di colpire un bersaglio a 30 metri, la distanza stabilita per un duello alla pistola, ad occhi chiusi, è il caso di dirlo. E quindi Alessandro Sallusti ci faccia vedere se oltre alla dignità ha perso anche le palle.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2021
"Chi ha troppa paura di morire crede di essere immortale" (Il Ribelle dalla A alla Z)
Il Giornale dedica un titolo di testa a tutta pagina per attaccare il Tribunale di Roma, e quindi anche me, per avermi assolto in una causa civile di diffamazione intentatami da Berlusconi. Ma come? Or pochi giorni fa il Giornale si scagliava giustamente contro lo sproloquio televisivo di Grillo, che ho condannato anch’io, intendendolo come un’intimidazione all’autonomia e all’indipendenza della Magistratura, tema a cui il Giornale è stato sempre particolarmente sensibile visto che, da quando l’ha lasciato Montanelli sotto la direzione prima di Feltri poi dello stesso Sallusti poi di Belpietro, non ha fatto altro che attaccare la legittimità dell’ azione della Magistratura italiana.
Il Giornale è uno strenuo difensore del principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva, principio che io ho sempre difeso soprattutto quando riguardava degli stracci contro di cui la destra, chiedo scusa alla Destra, si accaniva come nel caso di Pietro Valpreda in galera da quattro anni senza processo o di Giuliano Naria, presunto terrorista rosso, tenuto in gattabuia per nove anni e poi assolto. Ma nel mio caso tutto si capovolge. Per me vale una presunzione di colpevolezza anche se un tribunale mi ha dichiarato innocente.
Alessandro Sallusti che dirige un giornale sa bene quanto noi si sia esposti al reato di diffamazione. Ed è giusto che io sia punito penalmente se affermo che Sallusti è un ladro e lui ladro non è. In genere però si preferisce, invece del penale, l’azione civile per danni che non obbliga la prova e che tende più che a restituire l’onore al presunto diffamato a scucire dei soldi al presunto diffamante.
E qui sorge un primo problema che metto all’attenzione di Sallusti, e non solo di Sallusti. Se io scrivo che Sallusti è un ladro e dimostro, o altri hanno dimostrato, che è un ladro, ciò non basta per salvarmi dalle sue rivendicazioni, perché anche un ladro di cui si è dimostrato che è tale può rivalersi nei miei confronti se l’ho chiamato ladro “in termini non continenti”. Ora se io passo col rosso so di aver commesso un’infrazione, se uccido una persona so di aver commesso un omicidio, ma quali siano i termini “non continenti” è un concetto vago lasciato alla discrezionalità del giudice. Nel mio caso il magistrato Damiana Colla ha ritenuto che, nonostante i termini graffianti da me usati nei confronti di Berlusconi, ciò che ho scritto non superasse i limiti del diritto di critica politica.
Ma qui arriviamo al core, anzi all’hardcore, di tutta la questione. Come mai l’onorevole Berlusconi mi ha chiesto i danni solo perché io avrei usato termini “non continenti” e non per il contenuto dei miei scritti da cui partiva poi la mia critica all’uomo di Arcore e che il Tribunale civile di Roma ha considerato legittima? Semplicemente perché non poteva. Ma qui bisogna fare un lungo passo indietro. Nel 1994 il giornalista Giovanni Ruggeri pubblicava un libro intitolato “Gli affari del Presidente”. Io non sono particolarmente interessato a questo tipo di letteratura, preferisco Dostoevskij, non amo i gialli, i polizieschi, non sono un Pm e non ho la spasmodica voglia di trovare un colpevole. Però in una notte insonne misi la mano sul libro di Ruggeri e mi colpì particolarmente il capitolo “Il grande imbroglio” dove Ruggeri denunciava, con una certa ricchezza di documenti e di argomenti, una truffa miliardaria che Berlusconi e Previti avrebbero consumato ai danni della marchesina Anna Maria Casati-Stampa, minorenne, orfana di entrambi i genitori periti in circostanze tragiche. Sbalordii. E il giorno dopo scrissi per L’Indipendente un editoriale che diceva più o meno: io non posso credere a ciò che scrive Ruggeri, non posso credere che il Presidente del Consiglio, Berlusconi, e il ministro della Difesa, Previti, si siano resi responsabili di una truffa del genere. Ma vorrei sapere se Berlusconi e Previti hanno querelato il Ruggeri altrimenti il cittadino è autorizzato a credere che quello che ha scritto Ruggeri corrisponde a verità. L’Indipendente era allora un giornale con una vasta eco, ma sia Berlusconi che Previti restarono silenti. Ne scrissi un secondo dello stesso tenore ma da Berlusconi e Previti continuò il silenzio. Ne scrissi un terzo e Previti rispose con un fax in cui, giocando sui gerundi e i congiuntivi, non si capiva se aveva o no querelato Ruggeri. Allora, in un quarto articolo, spazientito, scrissi: “Onorevole Previti lei deve dirci semplicemente se ha o non ha querelato Ruggeri”. A quel punto Previti, tirato per i capelli (Berlusconi sempre prudentemente silente) querelò Ruggeri, me e L’Espresso. Si andò al processo. La Corte di Appello di Roma con sentenza del 2 maggio 2008 assolse Ruggeri, me e L’Espresso affermando che “l’articolo del Ruggeri, caratterizzato dalla correttezza espositiva e dall’utilità sociale dell’informazione per il ruolo pubblico dei personaggi interessati, si basava sulla sostanziale veridicità putativa dei fatti”. Dunque era sostanzialmente vero che Berlusconi e Previti, in combutta fra di loro, avevano truffato una minorenne, orfana di entrambi i genitori.
Berlusconi, in genere così abile ad evitare qualunque trappola, è stato imprudente ad agire oggi contro di me. Perché quella vergognosa infamia di cui si era reso responsabile, e che tutti, come al solito, avevano dimenticato, ora torna a galla. Si può anche capire, anche se non giustificare, che un imprenditore, pur di salvare la propria azienda o di rafforzarla, faccia patti con il diavolo, corrompa la Guardia di Finanza, corrompa magistrati, tutte cose di cui Berlusconi è stato accusato uscendone spesso indenne in via di prescrizione. Ma un truffa da strada, per altro miliardaria, consumata ai danni di una minorenne, orfana di entrambi i genitori, approfittando della sua posizione inerme, è qualcosa che “va al di là del bene e del male” sottolineando l’indegnità morale, prima ancora che penale, di coloro che l’hanno consumata. Berlusconi, che ha sempre affermato di non attaccare mai personalmente le persone, perdonate la ripetizione, disse di Di Pietro, per altro dopo avergli offerto la posizione di ministro degli Interni: “Di Pietro è un uomo che mi fa orrore”. Ebbene per me, e forse non solo per me, è Berlusconi “un uomo che fa orrore”. Preferisco Renato Vallanzasca, come richiamavo negli articoli contestati, perché ha un’etica, sia pur malavitosa, ma ce l’ha. L’onorevole Silvio Berlusconi, senatore, in predicato di diventare Presidente della Repubblica, è sotto qualsiasi etica, malavitosa e non.
E veniamo all’editoriale di Alessandro Sallusti. Sallusti mi contesta un “odio a prescindere” nei confronti dell’onorevole Berlusconi. Quando il signore di Arcore salì al laticlavio della politica espressi sull’Europeo un giudizio possibilista, per una volta un imprenditore ci metteva la faccia, a differenza degli Agnelli che mandavano avanti i loro portaborse. Poi di fronte agli scheletri nell’armadio del Cavaliere che man mano venivano alla scoperto cambiai idea. Cambiare idea non è un peccato. Lo è quando la si cambia solo a proprio favore, che è esattamente ciò che fa Sallusti. Io quando cambio idea lo faccio generalmente a mio sfavore. Ed è ciò che feci puntualmente cominciando a criticare duramente Berlusconi negli anni in cui saliva all’empireo e raccoglieva attorno a sé i servi disponibili.
Il problema di Sallusti e di tutti i Sallusti nei miei confronti è che io sono la loro coscienza sporca. Li conosco da più di vent’anni e so che il fondo delle loro mutande non è esattamente candido. Sono un cavaliere solitario come Don Chisciotte ma non vado a sbattere contro i mulini a vento ma contro i poteri che costoro rappresentano e servono. Nonostante tutto sono ancora vivo e finché vivrò dovranno rassegnarsi alla mia presenza. Non c’è macchia sul mio onore di giornalista libero e libertario. Non so quanto Sallusti e tutti i Sallusti possano dire lo stesso.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2021
“Io non mi sento italiano” è un album di Giorgio Gaber pubblicato postumo. Vi si sente tutta l’amarezza, la disillusione, il disincanto di un uomo che ha attraversato la vita italiana dal 1939 al 2003. Gaber ed io siamo più o meno della stessa mandata, la nostra vita si è svolta in campi diversi, ma esistenzialmente abbiamo vissuto lo stesso tempo. Ma per trovare un’Italia diversa da quella attuale, con dei valori, non è necessario, come fa Giorgio, rifarsi al Rinascimento. Basta ricordare tempi assai più recenti che entrambi abbiamo vissuto, quelli del dopoguerra e degli anni successivi. Allora l’onestà, cardine di ogni convivenza civile, era un valore per tutti, per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, dove violare la stretta di mano costava l’emarginazione dalla comunità, per il mondo proletario che aveva una sua etica sia pur diversa, nei modi ma non nella sostanza, da quella di noi giovani borghesi. La solidarietà, che oggi ci si vorrebbe imporre dall’alto, stava nelle cose. A parte una sottilissima striscia di borghesia che aveva però il buon gusto e il buon senso di non ostentare la propria ricchezza, eravamo tutti più o meno poveri. Ed è fra poveri e non fra ricchi che ci si dà una mano. Milano, dove Gaber, come me è nato, era una città di quartieri e nel quartiere ci si conosceva e ci si aiutava tutti (la fame no, nell’Italia che ho conosciuto io la fame, almeno nel dopoguerra, non c’è mai stata). Non bisogna dimenticare, fra le altre cose, che Milano è una città che ha una tradizione cattolica e socialista. Noi ragazzi vestivamo tutti allo stesso modo, calzoncini quasi all’inguine con i quali giocavamo a calcio in strada o nei terrain vague che gli americani ci avevano lasciato come regalo dei bombardamenti. Le griffe, le scarpe firmate, non esistevano ancora. Questo clima durò fino al boom economico e, per qualche anno, anche oltre. Il boom lo vivemmo in modo ingenuo, naif, non volgare. Era bello, per ragazzi e adulti, dopo che per anni si era tirata la cinghia, assaporare un po’ di benessere. Ma un tarlo invisibile e silenzioso aveva cominciato a corrodere le nostre vite. Nel 1960 entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.
Ma erano comunque ancora i Sessanta, gli “anni blu” della mia giovinezza, ciò che per Fitzgerald era stata “l’età del jazz”. Ma quel che di ludico e libertario c’era stato nella contestazione giovanile era ormai agli sgoccioli. Arrivarono le Brigate Rosse che presero sul serio le parole d’ordine che i figli dei borghesi gridavano durante le manifestazioni, “fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “uccidere un fascista non è un reato”. Il Sessantotto fu, per usare una frase che Luigi Einaudi applicò alla massoneria, “una cosa comica e camorristica”, figli della borghesia che avrebbero dovuto rovesciare la borghesia, una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Ma nelle prime BR, a differenza del Sessantotto, c’era ancora un contenuto ideale sia pur espresso in modi e in tempi sbagliati perché il marxismo-leninismo cui si richiamavano sarebbe morto di lì a poco. È vero che i primi brigatisti non sembravano avere alcuna considerazione della vita altrui, ma a rischio della propria. In seguito anche nel terrorismo ci sarà una deriva che ha parecchio a che fare con quella della società civile che stava nel frattempo maturando. Per i brigatisti di seconda e terza generazione la vita altrui continuava a non contar nulla, ma della propria avevano grande considerazione. L’omicidio di Walter Tobagi, consumato da due giovani male educati, segnerà il culmine di questa fase, e infatti Barbone e Morandini, a differenza dei primi brigatisti, si pentiranno subito per avere i vantaggi della legislazione premiale. È il segno, sia pur sub specie terrorista, di un individualismo sfrenato che sta invadendo la nostra società.
Finito il terrorismo arriveranno gli anni Ottanta, i beati anni della “Milano da bere”. Per la verità se la bevevano soprattutto i socialisti. Ma il denaro girava e gli italiani credettero a questo nuovo boom. E non vollero vedere ciò che c’era sotto, e cioè che la classe dirigente, politica ed imprenditoriale, si era venuta corrompendo in modo sistematico. Fu Mani Pulite, nel ’92-94, ad aprir loro gli occhi. E fu l’ultima volta che la popolazione italiana, di fronte all’arroganza del potere, provò un legittimo e sincero sdegno. Ma nel giro di soli due anni, anche grazie all’appoggio massiccio dei media a loro volta corrotti fino al midollo, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime. E qui si ruppero gli ultimi argini. Di fronte a simili esempi anche il cittadino normalmente onesto si chiese “ma devo essere solo io il più cretino della partita?”. E così la corruzione, fattuale ma, cosa ancor più grave, morale, discese giù per li rami invadendo quasi l’intera società civile. Lo dimostra il fatto che non era venuta meno tanto la sanzione penale quanto quella sociale. Prendo il caso di Luigi Bisignani solo a titolo di esempio. Bisignani fu condannato a due anni e sei mesi nell’ambito dell’inchiesta Enimont, cioè per un reato contro la PA. Si penserebbe che un soggetto del genere nella pubblica amministrazione non potrebbe metter più piede. Invece lo troviamo a metà degli anni Novanta come consigliere dell’ad delle FS Necci condannato per lo scandalo di quella che verrà chiamata “Mani Pulite 2”. Diventerà in seguito consigliere di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Oggi Bisignani è un editorialista di vari giornali. Insomma importanti amministratori dello stato o del parastato non avevano nessuna remora a frequentare un soggetto come Luigi Bisignani che Wikipedia non riesce a definire meglio che come “faccendiere”. Quello che voglio qui dire è che erano saltati tutti i valori, preideologici, prepolitici, prereligiosi, che avevano contrassegnato il tessuto sociale dell’Italia degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta: onestà, onore, dignità, lealtà, rispetto delle regole. Chiunque tu ti trovi di fronte oggi non puoi sapere se è una persona per bene o un corrotto. In fondo è la storia del “mondo di mezzo” romano allargato a livello nazionale.
Tentando di fare un ritratto dell’Italia contemporanea scrivevo nel mio libro “Senz’anima” del 2010: “È un’Italia (…) devastata dalla Televisione che sembra aver concentrato in sé l’intera vita nazionale dettando, insieme alla sua gemella Pubblicità che è il motore di tutto il sistema, i consumi, i costumi, la ‘way of life’, le categorie, i protagonisti e che ha finito per distruggere ogni cultura che non sia la sua subcultura. È un’Italia che ha perso ogni freschezza, la sua antica grazia, senza sorriso, cupa, volgare, ossessionata dal denaro, dal benessere, dagli ‘status symbol’, dai gadget, dagli oggetti. Un’Italia ipocrita, pronta a commuoversi su tutto, solo per potersi autocompiacere della propria commozione, ma sostanzialmente indifferente all’altro, al vicino, al prossimo. Un’Italia senza misericordia. Un’Italia ormai inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza più essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un’Italia senz’anima”.
Giorgio Gaber è morto nel 2003. Ma potrebbe dire oggi ancor più di allora: “Io non mi sento italiano”.
Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2021