Chiedo scusa ai lettori del Fatto ma sono costretto a ritornare sul calcio. È anche un fatto personale. Sabato sera si giocava la finale di Champions League fra Manchester City e Chelsea. Favoritissimo era il City, perché ha un migliore impianto di squadra, e forse, soprattutto, perché vi gioca quello che è attualmente ritenuto il più forte centrocampista del mondo, Kevin De Bruyne, in odor di “pallone d’oro”. Invece ha vinto il Chelsea, 1-0, con pieno merito, e il risultato avrebbe potuto essere anche più rotondo se Timo Werner non avesse sbagliato tre gol già fatti.
Ha vinto il Chelsea, ma la partita l’ha persa Guardiola, l’allenatore del City. Volendo fare il fenomeno, dimostrare che le partite le vince lui non i giocatori, ha cambiato l’impianto di una squadra che fin lì era andata benissimo e i ruoli di alcuni giocatori determinanti.
La partita era iniziata da cinque minuti che ho detto a mio figlio Matteo: “qui c’è qualcosa che non va”. De Bruyne, da cui passa in genere tutto il gioco del City, non aveva ancora toccato un pallone. È sull’asse De Bruyne-Gundogan che in genere si sviluppa tutto il gioco del City. Cosa si era inventato il genio Guardiola? Aveva messo De Bruyne “falso nueve” togliendogli trenta metri di campo e Gundogan davanti alla difesa, cioè sessanta metri più dietro. I collegamenti fra il belga e Gundogan erano saltati e tutta la squadra ne aveva risentito. Il City non faceva il suo gioco, più semplicemente non faceva gioco. Intanto i due commentatori di Sky, Marianella e Marchegiani, parevano non essersi accorti di nulla e, invece di raccontare la partita, continuavano a parlare dei record di questo o di quello, come è ormai inveterata abitudine dei commentatori.
Si pensava che, approfittando dell’intervallo, Guardiola avrebbe corretto il tiro, capendo il suo peccato di presunzione. Oltretutto Gundogan, messo in un ruolo di “frangiflutti” che non è il suo, aveva rimediato un fallo da ammonizione, niente di più facile che potesse commetterne un altro ed essere espulso, mentre se sei un centrocampista sono gli altri a fare fallo su di te. Invece Guardiola si è corretto solo a metà: ha riportato De Bruyne nel suo ruolo, ma ha lasciato Gundogan là dietro. Così Kanté ha continuato a fare il bello e il cattivo tempo a centrocampo.
De Bruyne aveva giocato insolitamente male nel primo tempo. Certamente perché era fuori ruolo, ma anche, credo, perché pesava su di lui il fantasma del pallone d’oro: aveva giocato straordinariamente bene per tutto l’anno e quale migliore occasione di una finale di Champions per dare un suggello definitivo a questa candidatura? Comunque il ragazzo doveva essere parecchio frastornato, un giocatore della sua esperienza sa come evitare uno scontro frontale, per di più testa contro testa, contro un avversario (Rudiger in questo caso). È stata un’immagine abbastanza terrificante vedere De Bruyne, lacrime agli occhi, che traballava, che non si reggeva in piedi, sull’orlo del collasso, sorretto dagli accompagnatori, venire portato di forza negli spogliatoi.
Il tedesco Tuchel, allenatore del Chelsea, 47 anni, non è alle prime armi ma non ha alle spalle un grande palmares. Per vincere gli è bastato fare in modo semplice le cose più semplici. A differenza di Guardiola o di Mourinho non se la dà da superuomo. È anzi di una singolare modestia, cosa rara, a certi livelli, nel calcio e nella vita. Ha riconosciuto che il bel Chelsea che si è trovato fra le mani è opera anche del suo predecessore, Lampard (che con Gerrard ha formato una leggendaria coppia di centrocampisti).
Cosa ci insegna questa favoletta? Che nel calcio, come nella vita, nella politica, nella società, di cui il calcio è un osservatorio privilegiato, non è sempre la boria a essere premiata e che la vera intelligenza sta nell’avere coscienza dei propri limiti.
Di tutt’altra tendenza è Guardiola. Ottimo giocatore, come allenatore si attribuisce e gli viene attribuita una caratura sproporzionata ai suoi meriti. In fondo in carriera ha vinto due Champions. Col Barcellona. Ora quel Barcellona, con Xavi, Iniesta e Messi, lo potevo allenare anch’io. Ed è anche leggenda che si sia inventato il tiki-taka. Il tiki-taka in quel Barcellona senza un centravanti di ruolo era una necessità.
Infine due parole sulla sfiga. La mia. Ai book avevo puntato il Bayern e, in subordine, il City come vincitrici della Champions. La quota, anche se non particolarmente alta, era comunque ottima perché per vincere una Champions bisogna superare una serie di trappole. Ma il Bayern ha dovuto affrontare i due incontri più impegnativi, quelli con il PSG, senza Lewandowski, fondamentale non solo perché segna gol a carrettate (520) ma perché apre il gioco ai compagni e serve puntualmente quello meglio piazzato.
Beh, mi sono detto, il Bayern è fuori, ma resta il City che è di gran lunga la migliore delle squadre rimaste in gara. Mi sentivo sicuro della vittoria e dei quattrini. Invece a metterci lo zampino è arrivato il mitomane Guardiola.
Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2021
ERRATA CORRIGE
Carissimi,
sono lusingato per la citazione sul Vs giornale - per di piú da parte di una penna prestigiosa come Massimo Fini - ma il telecronista della finale di Champions League tra il Manchester City e il Chelsea non era il sottoscritto, bensí l’ottimo, collega e amico, Massimo Marianella.
Cordialmente, Max Nebuloni
PS Sulla “caratura sproporzionata” ai meriti di Guardiola sono perfettamente d’accordo, ma dite a Fini che Guardiola ha vinto la Champions League per due volte: nel 2009 e nel 2011, entrambe contro il Manchester United.
“Hey Freddy, tu bevi da morir, non pensi all'avvenir? (…) Sono Freddy dal whisky facile, son criticabile ma son fatto così. Non credete, non sono un debole, m'han fatto abile. E la guerra finì. Se c'è una cosa che mi fa tanto male è l'acqua minerale, miracolosa sarà, ma per piacere io non la posso bere (…) Non mi correggo, no, non mi tentate, altre persone si son provate, scusate tanto se ho il whisky facile”. (Whisky facile, Fred Buscaglione).
Buscaglione è morto il 3 febbraio del 1960 a quarant’anni, non di cirrosi, ma in un incidente stradale all'alba. Buscaglione ha portato nella canzone italiana un’ironia del tutto sconosciuta alla melensa musica leggera dei suoi tempi ma anche al cantautorato successivo (Paoli, Tenco, Bindi ed Endrigo, oggi il più potabile) certamente più pregevole ma lagnoso la sua parte (“un vecchio bambino che gioca con un pettirosso, un vecchio bambino in un giardino…” insopportabile, Gino Paoli). Iannacci e Gaber verranno dopo.
“Ehi, ehi ,ehi, le grido, piccola, dai, dai, dai, non far la stupida, sai, sai, sai, io son volubile, se non mi baci subito tu perdi una occasion” Che bambola! “Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, arrivato fresco fresco da Sing Sing. Io ho avuto da bambino Al Capone per padrino e mia madre mi allattava a whisky e gin (…) Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, deputato del distretto di Sing Sing (…) Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, ho una villa riservata giù a Sing Sing” Il dritto di Chicago.
Il lettore dirà che da qualche tempo la pretendo a critico musicale. No, io rivivo semplicemente le sensazioni che certe canzoni mi diedero nei miei anni giovanili e comunque se Luzzato Fegiz è un critico musicale lo posso fare anch’io.
Non ho mai bevuto l’acqua minerale e detesto le bollicine, champagne compreso, tanto care alle ragazze convinte che facciano meno male di un buon rosso. In compenso ho bevuto whisky in termini di Lago di Garda. E il whisky non mi è mai piaciuto, ma giocando a poker, fra mille sigarette, era indispensabile. E poi vodka, Carlos Primero, il micidiale Alexander, tequila, gin.
Non credo di avere un fisico particolarmente robusto. Mio padre è morto a 61 anni, di infarto. Penso che la mia resistenza all’alcol derivi da mia madre che è russa (ebrea, lo dico a pro di quegli ebrei stronzi che mi danno dell’antisemita). E in Russia bere è una necessità. Fa troppo freddo. Ci provò per primo Trotskij a debellare l’alcolismo in Russia. Stroncò la rivolta dei marinai di Kronstadt, ma sull’alcolismo dovette alzare bandiera bianca. Settant’anni dopo ci riprovò Gorbaciov (distruggi un Impero e andrai a Sanremo). Ordinò che nei ristoranti non si servisse alcol prima delle due del pomeriggio. E prima delle due nei ristoranti non c’era nessuno. Ordinò che negli spacci la vodka (e gli altri liquori) fosse venduta solo fra le due e le quattro. Mezz’ora prima delle due si formavano file interminabili che si arrotolavano per interi isolati intorno ai brutti grattaceli di Mosca. Il primo che ce la faceva usciva con tre bottiglie di vodka, una se la teneva, le altre le dava agli amici in attesa e tutti andavano a sbronzarsi nel giardinetto più vicino.
I giovani di oggi, quando non si drogano, sono salutisti. Bevono in modica quantità, non fumano, spesso sono vegetariani, vegani, se hanno un dolorino al mignolo del piede si fiondano subito dal medico. Li conosco abbastanza bene perché ho un pubblico di giovani (se posso evito di frequentare i miei coetanei, mi ammosciano, perché mi rispecchio in loro e perché parlano solo di medicine, malattie, iniezioni). Se fossi giovane non mi farei tante turbe. Nel suo libro De senectute Norberto Bobbio, che in quel momento è ultraottantenne, nota che molto è dovuto al Caso e che per arrivare alla sua età bisogna dribblare mille ostacoli di cui neanche ci accorgiamo. Siamo alle solite: per evitare rischi ipotetici, e comunque imprevedibili, è sciocco rinunciare a vivere.
I vizi poi sono necessari, quasi un segno di equilibrio. In un uomo senza alcun vizio, soprattutto se ha le mani curatissime e le unghie perfettamente arrotondate si nasconde un potenziale serial killer.
Evvabbé, adesso ho 77 anni, un’età “spaventosa” come la chiama Grillo che pur ne ha alcuni meno di me. E sono ancora qua a scrivere cazzate. Molti miei coetanei e anche persone parecchio più giovani hanno già raggiunto l’Antologia di Spoon River, “dormono, dormono sulla collina”. E quasi ogni giorno cade qualcuno dei superstiti. Sembra di essere in una battaglia, ma senza nemmeno la battaglia.
Il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2021
"Non si può più nemmeno darsi ai vizi: li hanno tutti" (Il Ribelle dalla A alla Z).
Domenica si è giocata la partita Napoli-Verona decisiva per la partecipazione alla Champions non solo della squadra partenopea ma anche, per uno straordinario intreccio di combinazioni, del Milan e persino della Juventus che dopo nove scudetti a fila rischiava addirittura di non entrare nelle prime quattro squadre del Campionato italiano (a dimostrazione che essere stato un grande giocatore, come Pirlo, non è una garanzia per essere un buon allenatore, del resto c’è il disastroso precedente di Van Basten e dubbi ci sono anche su Zidane molto contestato a Madrid).
Nella partita al Diego Maradona, bloccata sullo 0 a 0, il calciatore partenopeo Rrahmani, cosovaro, segna un gol importantissimo perché significa per il Napoli la partecipazione matematica alla Champions. Ma non esulta. Nel Verona ha giocato, molti dei calciatori veneti sono suoi amici, della città conserva un buon ricordo. Nel talk post-partita di Sky l’ineffabile Fabio Caressa commenta: “È intollerabile, inaccettabile. Il giocatore è pagato dal Napoli, un comportamento del genere è inammissibile”. Una squadra di calcio compra le qualità tecniche, tattiche, fisiche di un giocatore, non compra, né può, i suoi sentimenti, non compra le sue passioni, non compra la sua anima ("Ni se compra ni se vende el cariño verdadero" dice una canzone spagnola). Del resto l’esultanza o meno esce dal perimetro del campo di calcio ed entra in quello dei diritti costituzionalmente garantiti, cioè nella libertà di esprimere il proprio pensiero, la propria sensibilità, la propria personalità (art. 21). Il giocatore deve rendere per quanto è pagato. Il resto sono fatti suoi. Rrahmani ha segnato il gol? Si. E questo deve bastare.
Peraltro di moralisti viscidi alla Fabio Caressa (che più che di calcio si intende di regole del Var) il mondo del pallone è zeppo. Fabio Quagliarella, cresciuto nel vivaio granata, è un vero “cuore Toro”, ha portato la Primavera a due finali, poi ha giocato un pio d’anni in A. Ma era troppo forte e il Torino, squadra outsider per eccellenza che allora non aveva il becco di un quattrino, dovette cederlo. Girò varie squadre fra cui la Juventus e il Napoli di cui è originario (è nato a Castellamare di Stabia). Poi in finale di carriera torna alla “casa madre”, il Torino. Proprio il primo anno in un Toro-Napoli ai granata viene assegnato un rigore. Tira ovviamente Quagliarella che dal dischetto è infallibile. Segna. Ma non esulta. Il Napoli è stata una delle sue squadre e poi lui di Napoli è. Apriti cielo. Gli scagliarono contro i tifosi (che pur di passioni dovrebbero saperne qualcosa), l’allenatore, la Società e il Presidente, quell’Urbano Cairo che vorrebbe fare il Berlusconi ma lui, che i quattrini li ha ma paga i collaboratori del Corriere 20 euro a pezzo, i migliori giocatori li vende: l’Inter gioca con i due terzini del Torino, D’Ambrosio e Darmian, Benassi, ex capitano dell’‘under 21’, l’ha dato alla Fiorentina, Immobile alla Lazio, se poi si tratta di giocatori di classe proprio non li tollera, Ljajić lo ha ceduto al Beşiktaş, di Iago Falque si è persa traccia, eppure erano i due soli a poter dialogare tecnicamente con Belotti che oggi è costretto a farsi tutto il campo per ricevere un pallone. Risultato dell’“operazione Quagliarella” che Caressa avrebbe volentieri deferito a qualche tribunale sportivo: Quaglia è passato alla Samp dove in una squadra modesta continua a segnare a grappoli, anche quest’anno è in “doppia cifra”, 13 gol, 2 soli su rigore, e peraltro a 38 anni, con 205 gol, è il più prolifico attaccante italiano in attività. Pur con caratteristiche fisiche diverse, meno robusto, è il nostro Robert Lewandoski. Una bella lezione per Caressa e tutti i Caressa che riconoscono solo la legge del denaro e si impipano dei sentimenti.
Nel bacchettonismo italiano è diventato normale che le società di calcio controllino la vita privata dei giocatori. E anche questa è una violazione, oltre che della privacy, della libertà personale. Se uno gioca male lo mandi in panca, in tribuna, lo escludi dalla rosa. Cosa fa fuori dal campo sono fatti suoi. Idem se gioca bene. Con questa mentalità da preti non ci sarebbe mai stato Maradona.
Per contratto gli allenatori e i giocatori devono prestarsi alle interviste di Sky nel dopopartita. Ne esce una melassa indigeribile. Uno ha segnato cinque gol? “È merito del gruppo”. La squadra ha preso cinque gol? “I ragazzi sono stati bravissimi, questa sconfitta sta nel nostro progetto di crescita” e altre banalità del genere (da qualche tempo nel mondo del pallone c’è un ossessivo parlar di “progetto”, ora secondo me il termine “progetto” si adatta più a un’azienda che a una squadra di calcio). Peraltro un allenatore non può dire che Caio ha giocato bene altrimenti il giorno dopo i media sportivi, che riescono a essere anche peggiori di quelli, diciamo così, normali, titolano che tutti gli altri hanno giocato male. È tutto un complimentarsi a vicenda. E a Sky Caressa si è anche lamentato che un giocatore, come domenica Cristiano Ronaldo, rilasci interviste a un altro network. Oltre che il monopolio del gioco vorrebbero avere anche quello delle opinioni. Però proprio domenica Jurić e Mihajlović hanno rotto quest’ammoina insopportabile. Jurić ha letteralmente mandato affanculo il suo intervistatore e Mihajlović ha detto che la sua squadra, il Bologna, era fatta di brocchi ed era già tanto che si fosse salvata. Ci volevano due balcanici per uscire dai soliti schemi.
Ma il problema di fondo è un altro e riguarda le “pay-per-view”. Il calcio è un grande sport nazionalpopolare come il ciclismo. È giusto, è equo, è sociale che le partite in tv le possano vedere solo quelli che hanno il denaro per pagarsele? Il ciclismo lo dà la Rai e lo possono vedere tutti, ma è uno sport povero che dal punto di vista economico interessa poco. Il calcio televisivo muove miliardi di euro e proprio questa sua abnorme enfiagione è all’origine del suo collasso prossimo venturo. Ma i Caressa e tutti i Caressa del mondo del pallone, e non solo, questo collasso che li travolgerà non lo vedono o non lo vogliono vedere. Deus dementat quos vult perdere. Io ho scritto Denaro. Sterco del demonio, Papa Francesco, che ha un po’ più autorità di me, ha detto che oggi esistono solo due Iddii: il Dio del sacro, che è in caduta verticale, e, sono parole sue, “il Dio Denaro”.
Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2021
"Date e vi sarà tolto" (Il Ribelle dalla A alla Z).