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Bio, green, filiera corta. Non si sente parlar d’altro. La filiera corta, come la Democrazia, esisteva prima di sapere di esser tale. È tipico della società contemporanea scoprire cose che esistevano già fingendo, o illudendosi, che siano nuove.

Per secoli i popoli dell’Africa Nera hanno vissuto di economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo, si cibavano cioè di ciò che producevano. Più corta di così? Sul piano alimentare utilizzavano lo scambio solo eccezionalmente e nella forma del “baratto puro”. Così uno scrittore del regno africano del Dahomey ricorda, con nostalgia, la natura del “baratto puro” quando il denaro, che in quella parte del Continente nero fece la sua comparsa piuttosto tardi, nel XVIII secolo, non esisteva ancora: “In quei giorni non vi era moneta. Se volevi comprare qualcosa e tu avevi sale e un altro aveva grano, tu gli davi un poco di sale e lui ti dava un poco di grano. Se tu avevi pesce e io avevo pepe, io ti davo pepe e tu mi davi pesce. In quei giorni esisteva soltanto il baratto. Niente moneta. Ciascuno dava all’altro ciò che aveva e ne riceveva ciò di cui aveva bisogno”. Che cosa aveva determinato il cambiamento lamentato dallo scrittore del Dahomey? Quando i primi colonizzatori arrivarono da quelle parti misero una tassa su ogni capanna, così l’agricoltore era costretto a produrre un surplus e ad entrare quindi in quel sistema economico occidentale che conosciamo molto bene. Nonostante ciò i popoli africani resistettero a lungo. Ai primi del Novecento l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Adesso c’è tutto un pruriginoso e ipocrita movimento per “salvare l’Africa”. L’Africa stava molto meglio quando si aiutava da sola. Ancora nel 1961 era, in buona sostanza, autosufficiente, al 98%. “Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). Per quello che è successo dopo non sono necessarie statistiche, basta osservare l’enorme flusso di emigranti, ridotti alla fame, che pur di arrivare in Europa sono disposti ad attraversare la Libia, a rischiare la morte, e spesso a trovarla, sui gommoni degli scafisti che non sono i protagonisti di questa tragedia, i veri protagonisti siamo noi occidentali. Sono state scritte intere biblioteche sui crimini del comunismo, che ovviamente ci sono stati e ci sono, ma verrà pure un giorno in cui qualcuno dovrà scrivere un libro sui crimini dell’industrial capitalismo, del turbocapitalismo, che riescono ad essere ancora peggiori di quelli.

Agli inizi di aprile gli Stati appartenenti al gruppo del cosiddetto G20, cioè i venti paesi più industrializzati del mondo, resisi conto che stiamo assassinando l’ecosistema, cioè la terra su cui abitiamo, hanno organizzato l’ennesima riunione per ridurre i danni dell’inquinamento ambientale. Chi dice entro il 2030, chi entro il 2050. Di qui la litania, in atto da qualche anno, del bio, del green, della filiera corta, delle macchine all’idrogeno, delle macchine elettriche, della riduzione di CO2. Quand’anche fossero in buona fede, e ci credo pochissimo, son tutte balle, luride balle. Perché qualsiasi energia, foss’anche la più pulita, se usata in modo massivo è inquinante. Perché ha bisogno di un’altra energia che la inneschi. Prendiamo le auto all’idrogeno. In teoria l’idrogeno è il combustibile ideale. In natura esiste in quantità enormi e la sua combustione genera come residuo soltanto acqua. L’estrazione dell’idrogeno, però, richiede energia, quindi la sua convenienza dipende da quanta energia si consuma per estrarlo e – ancora una volta – da come questa energia viene prodotta. Oggi la maggior parte dell’idrogeno in commercio è un prodotto secondario della lavorazione degli idrocarburi. È il metodo più economico ma anche quello più inquinante: si generano svariate tonnellate di CO2 per ciascuna tonnellata di idrogeno prodotta. Altro problema è quello relativo alle fonti rinnovabili, in particolare l’eolico e il fotovoltaico: coprire il mondo di pale eoliche e di pannelli fotovoltaici non lo rende, con buona pace di Beppe Grillo, un posto migliore. Perché la costruzione e poi lo smaltimento di pale e pannelli comporta a sua volta un impatto ambientale.

C’è un solo modo per ridurre l’inquinamento: produrre di meno e consumare di meno. Cioè, in pratica, scaravoltare l’attuale modello di sviluppo che si basa sul consumo. Siamo arrivati al punto paradossale che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre.

In questo il Covid (non subito perché adesso ci sono singole imprese o singoli individui in situazioni economiche disperate) potrebbe tornarci utile. In un anno di lockdown abbiamo imparato a ridurre i consumi a ciò che veramente riteniamo essenziale. Prendiamo, a solo titolo di esempio, il vestiario. Non è necessario avere nell’armadio cento vestiti e duecento paia di scarpe – in questo caso parlo soprattutto alle donne – per sentirsi a proprio agio e sufficientemente eleganti. Non è necessario avere quattro televisori in casa. Non è necessario avere quattro automobili. E così via. Ciascuno può ridurre quei consumi che lo interessano di meno. Se ciascuno di noi fa queste scelte, automaticamente, in via generale, si ridurranno consumi e produzione. E in questo modo si risolverà anche la questione che mi pose lo storico Carlo Maria Cipolla quando gli prospettai questa ipotesi: “Ciò che è essenziale si differenzia da individuo a individuo. Per lei, magari, essenziali sono i libri, per altri beni molto diversi” (Scienza Amara, Pagina, 18 marzo 1982). Va bene. Ma se ciascuno di noi consuma solo ciò che per lui è veramente essenziale, e quindi senza ledere la libertà di scelta dell’individuo, si otterrà ugualmente una generale riduzione dei consumi marginali. Ma dubito molto che ci arriveremo mai. L’uomo è un animale troppo stupido. Prima di tentare Eva con la mela della conoscenza Satana si rivolse al leone e il leone reagì con un ruggito così potente che mandò Satana a ruzzolare per le terre. Allora Satana capì che aveva sbagliato il bersaglio e si rivolse al soggetto più debole (intendo l’uomo in generale, non Eva - Marco stai sereno). E oggi impera nel mondo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 maggio

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La Superlega che voleva restringere di fatto la Champions League ai club più importanti e prestigiosi è stata respinta con perdite. Da tutti. Tifosi, calciatori, allenatori. Come sia potuto nascere un progetto così stupido, perché elimina il merito sportivo conquistato sul campo, a favore dell’economico, cioè del bacino di utenza dei grandi club, non è, di primo acchito, comprensibile. Partiamo dai tifosi. Il tifoso è uno che gioisce come un bambino quando la sua squadra vince, piange come un bambino quando la sua squadra perde. Eppure a lui, in un caso o nell’altro, non viene in tasca nulla. Anzi è colui che paga lo spettacolo. È evidente a chiunque che il calcio si regge su passioni, sentimenti, simboli, che non possono essere ridotti all’economico.

Il progetto della Superlega nasce dal fatto che tutti i grandi club, se si escludono le squadre tedesche, sono da tempo, a prescindere dal Covid, in una disastrosa situazione economica. Ma com’è possibile? Una partita di medio cartello raduna allo stadio 30 mila spettatori, una di cartello 60 mila. Inoltre c’è la pletora degli abbonati alla pay per view che porta la cifra molto più in alto. Quanto ci mette un teatro, anche quando presenti una pièce interessante, a raggiungere 50 mila spettatori? Se va bene almeno un mese. Evidentemente c’è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca. Calciatori super pagati (e sono i meno responsabili) e agenti più pagati degli stessi giocatori. Ma non è su questo che adesso l’UEFA, che ha respinto con decisone il progetto Superlega, intende agire. Vuole in realtà in qualche modo assecondare gli interessi delle super squadre per cui per la prossima Champions ha preparato un programma molto cervellotico, nel quale concentrare i grandi match, togliendo qualsiasi spazio alle squadre minori. Nella simpatica compagnia che commenta le partite di Champions su Sky (c’è Fabio Capello, il mister per eccellenza, Billy Costacurta, ragazzo molto simpatico, intelligente, competente perché lui il calcio lo ha giocato davvero) la cosa più intelligente l’ha detta Alessandro Del Piero: “Ma così si perde l’eccezionalità dell’evento”. È chiaro che se tu ogni mercoledì vedi giocare Bayern contro Manchester City, PSG contro la Juve, Inter contro Chelsea, tutto si appiattisce. Un conto è mordicchiare un pezzetto di marzapane, ma un chilo di marzapane ti stomaca. Per portare il discorso a un livello più generale è la legge dell’ “utilità marginale” che ti insegnano al secondo anno di economia. Il primo boccone ti salva dalla fame, il secondo anche, il terzo ti fa star bene, il quarto pure, il centesimo ti uccide. Questo processo lo conoscono gli scrittori di romanzi. Che sanno bene che un racconto non può essere fatto solo di picchi. Ci devono essere avvallamenti, zone d’ombra, pause. Anche Tolstoj deve scrivere una frase molto banale come “Anna Karenina si alzò e andò alla finestra” (cosa che scandalizzava Leo Longanesi che infatti romanzi non ne ha scritti mai, si è limitato a degli splendidi epigrammi). Tolstoj non può far morire ogni giorno Anna Karenina. Tutto il pathos del romanzo andrebbe a farsi fottere. Cosa che non ha mai capito Oriana Fallaci i cui cosiddetti romanzi, Un uomo per non parlare di Insciallah, sono totalmente indigeribili per l’enfasi che mette in ogni pagina. Fallaci va bene su un articolo, anche di quindici cartelle, in un libro è più indigesta di un chilo di marzapane.

Fosse per me tornerei alla vecchia, cara Coppa dei Campioni. Il vincitore di un campionato, si tratti pure di quello irlandese o delle Isole Faroe, sfida i vincitori dei campionati più importanti. In una partita secca, andata e ritorno, può capitare che una squadra minore, che ha vinto un campionato considerato minore, batta una grande squadra. Com’è successo anni fa col Lugano che buttò fuori l’Inter. Io poi sono particolarmente affezionato alle Faroe perché in Nazionale giocano impiegati, medici, operai, cioè degli assoluti dilettanti che si allenano quando possono, con tanti saluti ai giocatori professionisti il cui allenamento viene millimetrato fino a un’ora prima della partita. In casa le Far, isole groenlandesi dove si gioca a quaranta sottozero, hanno pareggiato con la Francia campione del mondo, con mio grande godimento perché le avevo giocate contro ogni logica. Questo, ad onta degli agiografi della Superlega o similari, è il vero calcio: Davide può sempre battere Golia. Il resto è solo Economia e Tecnologia, mostri anonimi senza sentimento, di cui abbiamo le palle piene. E non solo nel calcio.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2021

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Mi spiace dover ammorbare di nuovo il lettore con Alessandro Sallusti. Mi occuperei volentieri di questioni più serie e di personaggi meno squallidi. Ma, come dice lo stesso Sallusti, “quando è troppo è troppo”. Nel suo editoriale (Il Giornale, 24/4) Sallusti mi definisce in modo molto condiscendente “un bravo scrittore”. Un bravo scrittore? Chi è stato per più di trent’anni, almeno ad ascoltare Wikipedia, una delle più importanti firme dell’Europeo? Chi è stato, sempre ad ascoltare Wikipedia, la firma più importante del Giorno di Zucconi e Magnaschi? Chi è stato, accanto a Feltri, uno dei protagonisti della straordinaria stagione dell’Indipendente? Chi ha scritto libri che vengono ripubblicati in terza, quarta, quattordicesima edizione a distanza di trent’anni? Chi ha fatto reportage dall’Unione Sovietica, dal Sudafrica dell’apartheid, dal Giappone, dall’Iran di Khomeini, dall’Egitto di Mubarak, mentre l’orizzonte fisico e culturale di Sallusti non è mai andato oltre il lago di Como? Oggi lavoro al Fatto, un giornale che si autofinanzia, il genio Sallusti dirige un quotidiano che, pur avendo alle spalle la poderosa “famiglia Berlusconi” (bisogna definirla così) deve essere parecchio in male arnese se i suoi giornalisti sono stati messi in “contratto di solidarietà”. Il premio Montanelli alla carriera e alla scrittura chi l’ha preso, Sallusti o io? Il premio Paolo Rizzi alla carriera chi l’ha preso, Sallusti o io? L’Ambrogino d’oro, che viene conferito a chi ha “ben meritato” della patria lombarda, chi l’ha preso, Sallusti, che, come me, è nativo di Como, o io? Ma questo è solo l’antipasto. Sallusti si appoggia al “bravo scrittore” per insinuare che io avrei fatto “dell’odio contro Berlusconi la stupida ragione” della mia vita e che questo odio deriva dal fatto di “non essere stato ammesso ai benefici che il principe dispensa ai suoi cortigiani”. Ora, Feltri, Berlusconi imperante, mi propose per tre volte di andare al Giornale, Belpietro, sempre Berlusconi imperante, due, Alessandro Sallusti quattro. L’ultima volta che Sallusti mi propose di andare al Giornale, fu in modo formale, tanto che era presente il direttore amministrativo Di Giore, proponendomi un contratto di 16.000 euro al mese per otto pezzi, infinitamente di più di quanto mi desse, e mi possa dare, il Fatto. Una proposta quasi corruttiva. E io dissi di no. Inoltre fu lo stesso Sallusti, durante una simpatica bicchierata con cui aveva trasformato una mia sfida a duello, a dire alla donna che mi accompagnava, Chiara Ceccuti, “Sai, Massimo, ha rinunciato a miliardi”, intendendo con ciò che quella rinuncia derivava proprio dal fatto di non aver voluto entrare nel giro berlusconiano.

Come fa allora Alessandro Sallusti a dire che il mio odio antiberlusconiano nasce dal fatto di non poter essere entrato nel giro dell’uomo di Arcore? Un mio amico, grande pokerista, Adolfo Levi, diceva: “io gioco contro tutti, tranne che contro la sfiga”. Io l’ho trasformato in “io gioco contro tutti, tranne che contro chi è in malafede”. Perché chi è in malafede è imbattibile, anche perché crede, sinceramente crede, proprio come Montanelli disse di Berlusconi, voglio dargli questa attenuante, alle proprie menzogne.

Sallusti è un uomo che si è ucciso a furia di vendere la propria dignità, peggio delle puttane da strada che peraltro oggi quasi non esistono più essendo entrate, in un modo o nell’altro, nei salotti buoni. Però. Come dice ancora Sallusti “quando è troppo è troppo”. Contro certi soggetti non c’è che la violenza. In “modica quantità” naturalmente (Marco “stai sereno”): un cazzotto sul grugno a spaccargli il naso e a fargli saltare la dentiera, un sinistro allo stomaco e, mentre si piega per il dolore, un destro alla mascella per rompergliela (“Ho un sinistro da un quintale e il destro, vi dirò, solo un altro ce l’ha uguale ma l’ho messo a k.o. Mi ricordo di sei mascelle rotte, ragazzi che botte, che notte quella notte”, Fred Buscaglione). Ma io non posso scazzottarmi alla pari con Sallusti perché, come Feltri, come Belpietro, ha alcune guardie del corpo pagate dai contribuenti e non si capisce in ragione di che poiché non sono personaggi istituzionali. Propongo quindi, come già una volta, qualcosa che è al limite della legalità ma che un tempo regolava i rapporti fra uomini d’onore: un duello. Alla pistola. A Sallusti lascio il primo colpo. Ma, a differenza della prima volta, se lo sbaglia, non tirerò, come mi ero ripromesso, in aria, non avrò misericordia. Non si trinceri vilmente il Sallusti come fece l’altra volta affermando che il match non sarebbe alla pari perché io ci vedo poco o nulla. In quest’anno di lockdown, annoiandomi a morte, andavo tre volte alla settimana al poligono di tiro e sono in grado di colpire un bersaglio a 30 metri, la distanza stabilita per un duello alla pistola, ad occhi chiusi, è il caso di dirlo. E quindi Alessandro Sallusti ci faccia vedere se oltre alla dignità ha perso anche le palle.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2021

 

"Chi ha troppa paura di morire crede di essere immortale" (Il Ribelle dalla A alla Z)