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Guarda chi si rivede. L’Avv., Prof., Granduff, Gaetano Pecorella riemerso l’altro giorno sulle colonne del Giornale. Per far che? Per attaccare la magistratura, prendendo spunto da un libro di Stefano Zurlo (anche lui del Giornale) intitolato “Il libro nero della magistratura”. Come avvocato, ma anche come qualsiasi cittadino, ne ha tutti i diritti. Però l’intervento di Pecorella si inserisce nell’attuale, e più generale, attacco alla magistratura che non si ravvede mai e si ostina ad inquisire anche gli uomini politici (vedi inchiesta Farmabusiness). Si comincia con Matteo Renzi, candido giglio, è il caso di dirlo, che ha aperto un suo sito anti Pm “GuerraaRenzi.it” e si prosegue con Pigi Battista che sul Corriere parla di “Flop di una stagione politico-giudiziaria”. Intendiamoci, la magistratura, nel tempo corrottasi a sua volta, sembra voler far di tutto per prestare il fianco a questi attacchi. Ce lo dice il “caso Palamara” dove in uno scambio di favori tipicamente mafioso sono coinvolti numerosi magistrati della Capitale e non. Ma fa piacere constatare che non c’è alcun magistrato milanese e tantomeno qualcuno che fece parte del pool Mani Pulite (Francesco Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro, Francesco Greco). Il punto è poi sempre lo stesso, mettere in discussione, sia pure a vent’anni di distanza, la stagione di Mani Pulite e di Tangentopoli, quando ai magistrati milanesi cui in seguito a una serie di avvenimenti storici e meno storici, il collasso dell’URSS, la fine del consorziativismo per il quale il Pci da forza di opposizione era entrato a pieno titolo nella gestione del potere, l’avvento della Lega di Bossi, erano state tolte le manette dei partiti e osavano richiamare la classe dirigente, politica e imprenditoriale al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo chiamati ad osservare. Quelle inchieste, basate su carte, documenti bancari, confessioni, non furono affatto un “flop”. Di fatto venimmo a scoprire, come mi aveva detto una volta, ma molti anni prima di Mani Pulite Massimo De Carolis, leader della “maggioranza silenziosa”, che non c’era appalto senza tangente politica. Prima queste inchieste non erano possibili. Ho raccontato più volte come Angelo Milana, pretore a Piacenza, fece qualche anno prima di Di Pietro and company le stesse inchieste mettendo al gabbio il sindaco comunista e quello socialista di Piacenza, l'importante imprenditore Vincenzo Romagnoli. Apriti cielo, si sollevò tutto l’”arco costituzionale” e non, e persino il santissimo Arcivescovo di Piacenza. Manovrando il CSM, corrotto già allora, Milana fu proposto per un trasferimento a Trieste che non è proprio dietro l’angolo della città lombarda. Milana era un vecchio magistrato e disse: “se le cose vi stan bene così, sapete qual è la novità, io me ne vado in pensione”.

Mani Pulite è stato un momento cruciale della storia, politica, sociale, giudiziaria, italiana. Sarebbe stata l’occasione perché la classe dirigente, riconoscendo i propri errori ma sarebbe meglio dire i propri reati, si emendasse. Invece nel giro di soli due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, i magistrati divennero i colpevoli (fra le tante, non innocenti, sciocchezze, si disse che danneggiavano l’immagine internazionale dell’Italia) e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Non ci si può quindi meravigliare se oggi, con un simile precedente alle spalle, quasi l’intera popolazione italiana è corrotta. Anche un cittadino comune, diciamo un cittadino perché non dovrebbero esserci distinzioni di sorta fra i Vip e gli altri, dice a se stesso “ma devo essere solo io il più fesso del bigoncio?”. È quindi con legittimo entusiasmo che salutiamo il risveglio, dopo anni di assopimento nel suo lucroso riposo, dell’Avv., Prof., Granduff, Gaetano Pecorella. Un “uomo fragile” come mi disse il suo e anche mio maestro Giandomenico Pisapia. Ma a furia di esser  tutti “fragili”, avvocati, magistrati, imprenditori, politici, giornalisti, ecco in che condizioni ci siamo ridotti.

Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2020

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Paolo Rossi, per tutti Pablito, è stato sempre molto amato dagli Italiani, e continuerà a esserlo, perché principale artefice della vittoria della nostra Nazionale ai Mondiali del 1982 in Spagna che riportò il nostro calcio ai massimi livelli internazionali dopo più di quarant’anni di digiuno (le vittorie del ’34 e del ’38 della Nazionale di Pozzo, che però, poiché ottenute durante il regime fascista, non si ama molto ricordare). Vittoria che aprì un ciclo che ci portò a trionfare di nuovo nel 2006, anche se questa volta il protagonista non fu un attaccante, ma un difensore, Fabio Cannavaro. In realtà alla vittoria in Spagna contribuirono vari fattori, l’allenatore Enzo Bearzot (quello che sull’aereo del ritorno giocava a carte con Sandro Pertini che, da consumata  sanguisuga, si attribuì il merito di quella vittoria), una squadra straordinaria (oggi si dice “gruppo”) e su tutti quel grande campione e grande uomo, oserei dire galantuomo, che risponde al nome di Dino Zoff (parata a terra nel decisivo incontro col Brasile su un tiro da tre metri di Falcao quando lui, il portiere, Zoff quindi, nel momento in cui quello calciava a colpo sicuro era ancora in piedi, un tempo di reazione straordinario). È indubbio comunque che i Mondiali del 1982 sono legati soprattutto al nome di Paolo Rossi.

Vedo però che anche con Rossi si sta ripetendo l’errore fatto con Diego Armando Maradona. Nei ritratti che vengono dedicati oggi dai media all’uomo e non al calciatore lo si descrive innanzitutto come “uomo probo”. Bene, Rossi fu uno dei protagonisti del calcioscommesse nel quale noti malviventi si mettevano d’accordo con i calciatori per truccare le partite. All’epoca mi colpì in particolare un episodio, uno di questi malviventi era andato nel ritiro del Perugia, dove allora giocava Rossi. Avvicinò un giocatore perugino per trovare un accordo e quello gli disse “chiedilo al ‘nove’, è lui che decide”. E il ‘nove’ era Paolo Rossi, “l’uomo probo”. Fu squalificato per due anni e forse fu proprio questo lungo digiuno che lo rese, lui che aveva come massima dote grandi riflessi, non la tecnica, ancora più reattivo del solito.

Ma qui si entra in un girone più largo che non riguarda i vip di casa nostra su cui pur si potrebbe e si dovrebbe fare un discorso (il simpaticissimo Valentino Rossi grande evasore fiscale, idem Pavarotti e così via). Ogni volta che muore qualcuno per un qualche accidente umano che arriva alla cronaca coloro che conoscevano il “caro estinto”, e con essi i media riportanti, lo descrivono sempre come “marito esemplare”, “padre affettuosissimo”, “gran lavoratore”. Ora se così è non si capisce perché mai siamo immersi in un mondo di canaglie. Ma così van le cose qui da noi. Dove un “uomo probo”, anzi il più probo di tutti i probi, condannato in via definitiva per una colossale evasione fiscale, salvato da nove prescrizioni, con tre o quattro processi in corso, briga per diventare, senza che nessuno soffi un fiato, presidente del Repubblica italiana. Che d’ora in poi sarebbe più conveniente chiamare Granducato di Curlandia.

Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2020

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Non c’è solo il fascismo degli antifascisti, ma anche il razzismo degli antirazzisti. È ormai noto ciò che è successo  l’altroieri a Parigi durante la partita fra il borioso Paris Saint-Germain (conosciuto più che altro per aver acquistato dal Barcellona per 250 milioni di euro Neymar, uno pseudocampione che a Barca non serviva e poco di più ha fatto al Paris)e la squadra turca Basaksehir. Lo riassumiamo qui, in sintesi, per chi eventualmente non lo conoscesse. Si era attorno al quarto d’ora del primo tempo, un calciatore francese Kimpembe commette un fallo, dalla panchina turca si protesta chiedendo un’ammonizione, si agita in particolare Achille Webo, il vice dell’allenatore. Il “quarto uomo”, rumeno come tutta la quaterna arbitrale, che ha fra gli altri compiti quello di tenere a bada le panchine surriscaldate, si rivolge all’arbitro, il suo compatriota Hategan, per segnalargli il comportamento scorretto della panchina turca. L’arbitro chiede in rumeno chi sia il principale responsabile.  “È quel negru”, risponde il quarto uomo. Apriti cielo. Un panchinaro turco grida “Why say negro!”, “Why say negro!”, “Why say negro!”, il poveraccio cerca di spiegare che “negru” in rumeno non ha alcun connotato spregiativo. Inoltre la panchina del Basaksehir è occupata da una maggioranza di giocatori bianchi e quindi l’espressione del quarto uomo va valutata come se fra un gruppo di tricofanti avesse indicato l’unico calvo. Niente da fare. Ne nasce un parapiglia, i calciatori turchi seguiti da quelli del Paris lasciano lo stadio per protesta. Il caso diventa politico e internazionale, interviene anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che condanna “l’episodio di razzismo”. Fa a dir poco sorridere, o per meglio dire pena, che questi candidi gigli dei giocatori turchi, che in patria accettano che il loro premier sbatta in galera decine di migliaia di oppositori (senza badare al loro colore, in questo il noto tagliagole è equanime) si scandalizzino per un insulto che non c’è mai stato.

Le due squadre si sono ritirate dal terreno di gioco senza il consenso dell’arbitro. Un fatto inaudito nella storia del calcio mondiale a livello professionistico. Uno scherzetto del genere costò al grande Milan del pur potentissimo Berlusconi un anno di squalifica da tutte le competizioni Uefa. Altro che rifare la partita.

Il rapporto calcio/razzismo è di lunga data. Il buon Bruno Pizzul, l’ultimo nostro grande telecronista che sapeva dare pathos alle partite senza scomporsi a ogni gol o parata, fu massacrato perché durante una partita a proposito di un’ala di colore disse: “gioca bene quel negretto”. In realtà era un’espressione affettuosa in cui non c’era nulla di spregiativo.

Va bene, adesso tutti abbiamo imparato che si dice “persona di colore”. Però di fatto, nel libero Occidente, ormai non si può più dire nulla. Viene in mente uno sketch di Sordi dove l’Albertone nazionale sbeffeggiando il Duce gli fa dire: “Tutto si può dire e nulla si può fare”. Va capovolto: tutto si può fare, anche violare l’intero Codice penale, ma nulla si può più dire.

Per tornare al calcio questo gioco ha assunto dimensioni così enfiate, economiche e tecnologiche, che qualsiasi cosa anche la più innocente può essere strumentalizzata ideologicamente (se un giocatore dopo un tremendo pestone dà in una sacrosanta bestemmia, la tecno ne riprende il labiale). Qualche giorno fa una calciatrice spagnola si rifiutò di aderire al minuto di silenzio in onore di Maradona. In linea teorica un gesto giusto, coraggioso, perché Maradona, fuori dal campo, non era da portare ad esempio. Ma, secondo me, l’ideologia dovrebbe restare fuori dai terreni di gioco. Sul campo si gioca e basta, altrimenti si perde il senso stesso del gioco. Il calcio a differenza del rugby, della pallavolo, dell’hockey, s’è gonfiato come la rana di Esopo e, come l’intera nostra società, farà la stessa fine.

Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2020