Cento anni fa sarebbe stato possibile a un Governo democratico, e anche non democratico, imporre a un’intera popolazione di non uscire di casa se non per andare a lavorare, contingentare i rapporti fra i famigliari, annullare di fatto cerimonie religiose o altri riti consolidati? Fra il 1918 e il 1920 la “spagnola” uccise solo in Europa un numero di persone imprecisato, comunque milioni. Ma nessun governo dell’epoca pensò di applicare misure come quelle che vediamo oggi. Eppure le capacità devastanti delle pandemie erano ben note visti i precedenti (la peste nera del 1300, la peste del 1600 di manzoniana memoria, per dire solo di alcune). Del resto nemmeno in seguito, anche in un’epoca relativamente recente, penso all’“asiatica” del 1957, furono prese precauzioni che ricordino nemmeno lontanamente quelle utilizzate per il Covid 19, per il quale da quasi un anno viviamo in una sorta di lager sovietico o nazista, con la differenza che siamo reclusi a casa nostra e non in baracche fatiscenti.
Cos’è cambiato? Un maggior potere dei governi, una loro maggiore capacità di persuasione, lo spirito di un gregge che non osa ribellarsi più a nulla, un maggiore senso di responsabilità, una maggiore paura della morte? Tutti questi elementi concorrono, ma a mio parere l’ultimo, la paura della morte, è il più incisivo. La morte, la morte biologica intendo, quella che prima o poi tocca tutti, non sta nella società del benessere e in una cultura che ha sancito il “diritto alla ricerca della felicità” (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, 1776) che però l’edonismo straccione contemporaneo ha metabolizzato in un diritto alla felicità tout court rendendo con ciò, ipso facto, l’essere umano più infelice di quanto lo sia normalmente. Che felicità ci può mai essere se poi, a conti fatti, si muore lo stesso? E quindi nella nostra società la morte, quella biologica, è stata interdetta, proibita, scomunicata.
Ai primi del Novecento, benché la Rivoluzione industriale fosse in atto già da un secolo e mezzo, la società rimaneva ancora largamente contadina ed era ancora assorbita da quella mentalità. L’uomo-contadino che viveva a contatto con la natura sapeva bene, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, che la morte non è solo la conclusione inevitabile di ogni vita, ma ne è la precondizione. Non ci sarebbe la vita senza la morte. Inoltre quell’uomo viveva in famiglie allargate, in comunità coese, a stretto contatto con la natura di cui si sentiva parte. Noi viviamo invece attorniati da oggetti che non si riproducono ma sono sostituibili, alla cui sorte ci sentiamo sinistramente omologhi, e quindi la nostra morte ci appare come un evento radicale, strettamente individuale e quindi inaccettabile. In realtà questa favolosa società del benessere che abbiamo inseguito e creato sembra essersi paradossalmente e dolorosamente capovolta in uno straordinario malessere. Nel 1650, un secolo prima del take off industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti, nel 1850, con statistiche certamente più accurate, erano 6,9 per centomila abitanti, triplicati, oggi sono mediamente 20 per centomila abitanti, decuplicati. E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto più profondo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Negli Stati Uniti, il Paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di posizione che gli derivano dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, più di un americano su due (560 su mille) fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella propria pelle. Il fenomeno devastante della droga, una volta riservata alle élite ma che oggi coinvolge soprattutto i giovani, è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottuso ottimismo di Candide, di vivere nel “migliore dei mondi possibili”.
Da quasi un anno quindi noi, e non intendo in particolare gli italiani, viviamo in un sistema da lager. Fino a quando potremo reggere questa situazione? Si confida nei vaccini ma è dubbio che possano essere risolutivi, perché il virus, che non è cretino, in dieci mesi è già mutato, per quel che ne sappiamo, quattro volte, e se i vari vaccini riescano a coprire queste mutazioni è una questione ancora aperta nella comunità scientifica. Un altro anno di questa vita solipsistica, masturbatoria e innaturale non è pensabile. Prima o poi, per dirla con Ortega y Gasset, ci sarà una “ribellione delle masse”. Per la paura di morire ci stiamo rifiutando di vivere.
Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2021
Poiché a noi anziani le Autorità, politiche, scientifiche, mediche impediscono ogni socialità, per tutelarci naturalmente, facendoci così morir di inedia, il giorno dell’Epifania, non avendo null’altro da fare, mi sono messo a rivedere le cassette di alcuni vecchi talk. Fra gli altri mi è capitato fra le mani uno “Speciale Sottovoce” dell’ottobre 2002 condotto da Gigi Marzullo. C’erano due scrittrici, Barbara Alberti e Patrizia Carrano, che presentava il suo libro “Le armi e gli amori”, la bella, affascinante e simpatica Moran Atias, di origine israeliana, conduttrice televisiva, Katia Pietrobelli, attrice, Rossana Casale, cantante, Paola Rivetta, anch’essa conduttrice Tv, il giovanissimo Diaco, e il sociologo Sabino Acquaviva l’unico prof della compagnia. Io presentavo “Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità”. Poiché si dava già per certo l’attacco americano all’Iraq, responsabile di possedere armi chimiche (che per la verità gli avevano fornito gli americani, i francesi e, via Germania Est, i sovietici in funzione anticurda e antiraniana e che non aveva più, per la semplice ragione che le aveva già usate, nel silenzio generale, sulla cittadina curda di Halabya – 5.000 morti in un sol colpo – e contro l’esercito iraniano) il discorso collettivo s’è fatalmente concentrato sul mio libro. Quindi su questioni storiche, sociali, culturali cruciali: la liceità di portare la Democrazia e i nostri valori in Paesi “altri”, il rispetto di culture diverse dalle nostre, fino a che punto può spingersi questo rispetto quando vengono lesi diritti considerati universali, eccetera. Come ho detto non c’erano specialisti, storici, filosofi, ideologi, ma a parte le due scrittrici, gente dello show business. Eppure il dibattito, sotto la mano leggera di Marzullo, oltre che molto educato è stato di grande spessore. La cosa mi ha colpito confrontando quel vecchio dibattito con la maggior parte dei talk di oggi, non tutti ovviamente: gazzarre, quasi sempre prive di contenuto, fra politici di parte avversa, fra politici e giornalisti, fra giornalisti e giornalisti, a moine reciproche, mai una domanda che sia una domanda. Gigi Marzullo era allora considerato, ingiustamente, poco più che un frillo, eppure era in grado di produrre e condurre una trasmissione di prim’ordine con ospiti, diciamo così, normali. In un intermezzo dedicato a Bova anche il bel Raul faceva, intellettualmente, la sua porca figura. In vent’anni, che tutto sommato non son molti, siamo precipitati.
Io mi sento di dir grazie a Donald Trump. Per alcuni motivi. Perché almeno per un po’ ci toglierà dalle palle il Covid, l’ossessivo e ossessionante parlar di Covid su tutte le Tv e tutti i giornali. Perché mi sono sbellicato dalle risa davanti all’ipocrita orrore che ha colto tutte le “anime belle” difronte a quanto stava succedendo a Capitol Hill. Per il velo che The Donald ha tolto alla mitica democrazia americana, quella che vorremmo esportare nel mondo intero, e, sia pur con gradazioni diverse, anche alle altre democrazie occidentali. Persino Recep Tayyip Erdoğan e il cinese Xi Jinping hanno osato darci lezioni in proposito. Siccome è da parecchio tempo che si parla di “crisi della Democrazia”, sia pur in modo obliquo e vellutato senza mai andare alle origini del problema, chissà che la lezioncina di Trump non ci induca a promuovere qualche “Speciale” su questa questione fondante. Magari condotto da un sia pur invecchiato Gigi Marzullo.
Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2021
In ogni occasione solenne papa Francesco invoca, come da ragione inditta, la pace e deplora i tantissimi conflitti in atto nel mondo. Cita la Libia, la Siria, l’Iraq, la Somalia, lo Yemen, il Sudan, con un po’ più di prudenza la Palestina, e di recente il conflitto apertosi per il Nagorno Karabakh. Ma non nomina mai l’Afghanistan. Strano, perché la guerra all’Afghanistan, e non “in Afghanistan” come ipocritamente si dice, dura da 19 anni, da quando nel 2001 gli americani con i loro alleati occidentali invasero quel Paese ed è la più lunga guerra moderna. Come mai? Per dirla alla Marzullo fatevi una domanda e datevi una risposta. La risposta è che i principali responsabili di quella guerra, che ha distrutto l’economia di un Paese già povero, la sua socialità, la sua cultura, la sua etica e fatto un numero incalcolabile di morti, incalcolabile perché mai calcolato nemmeno da alcuna organizzazione internazionale, siamo senza se e senza ma, noi occidentali.
Quella guerra aveva all’inizio una sua giustificazione: nel territorio dell’Afghanistan, governato allora dai Talebani, si trovava Bin Laden, considerato il responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle, anche se in seguito è stato appurato senza ombra di dubbio che la dirigenza talebana nulla sapeva di quell’attentato e nulla c’entrava.
Adesso che gli americani, su iniziativa dell’infamato Trump che non ci stava a spendere 45 miliardi l’anno per una guerra che, secondo gli stessi esperti del Pentagono, “non si può vincere”, si stanno ritirando, mentre noi italiani rimaniamo là non si capisce a far che spendendo 6,3 miliardi l’anno con i quali non si risana un bilancio ma che, soprattutto in epoca di pandemia, sarebbero molto utili qui, come utili sarebbero gli ottocento nostri militari che rimangono in quel Paese (domanda che ho posto tre volte al ministro degli esteri Di Maio non con degli articoli ma parlandogli vis a vis) la guerra, questa volta sì “in Afghanistan”, continua. Solo nel 2019/2020 i morti sono stati 34 mila. Chi si batte attualmente in Afghanistan? I Talebani contro il governo collaborazionista imposto dagli americani e il cosiddetto “esercito regolare”, ancora i Talebani contro l’Isis penetrato da cinque anni in quel Paese per responsabilità indiretta degli stessi occupanti che non hanno capito che Isis era il pericolo principale e hanno invece costretto i Talebani a battersi su due fronti (occupanti e Isis), e lo stesso Isis che gioca al macello colpendo indiscriminatamente i civili.
Come si esce da questa situazione? Con gli americani un accordo è stato trovato e gli yankee se ne stanno andando, ma resta lo spinoso problema del rapporto fra il governo di Kabul e i Talebani che controllano ormai quasi il 90% del Paese. Un dialogo fra queste forze sperequate è stato aperto da alcuni mesi a Doha in Qatar. Ma trovare un accordo è difficilissimo. Ashraf Ghani, l’attuale presidente dell’Afghanistan, e i suoi vogliono conservare il potere ma i Talebani non potranno mai accettarlo, non hanno combattuto vent’anni, lasciando sul campo decine di migliaia di guerriglieri, per trovarsi punto e a capo, con sulla testa un governo collaborazionista come lo era quello di Najibullah alle dirette dipendenze dei sovietici. Nel 1996, quando il Mullah Omar conquistò il potere, fece giustiziare Najibullah e il giorno dopo concesse un’amnistia generale che rispettò per tutti gli anni del suo governo. Ma adesso la situazione è molto diversa. La vecchia generazione talebana che aveva contribuito a sconfiggere i sovietici, che aveva sconfitto e cacciato dal Paese i “signori della guerra”, Dostum, Hekmatyar, Ismael Khan, Massud, non c’è più. I suoi dirigenti sono morti in battaglia (solo Omar, stroncato da 25 anni di combattimenti vissuti in condizioni impossibili è morto, per tubercolosi, nel suo letto nel 2015). I nuovi Talebani, incarogniti da vent’anni di guerra, non hanno la saggezza né di Omar né del suo numero due Mansur ucciso da un drone americano. Se Ashraf Ghani e i suoi, la sua polizia corrotta, la sua magistratura corrotta, la sua pubblica amministrazione corrotta, non capiscono che devono cedere il passo in fretta si profila in Afghanistan un bagno di sangue non diverso, anzi un po’ peggiore, di quello che ci fu in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale (e infatti Togliatti, allora ministro della Giustizia, concesse saggiamente un’amnistia così come Omar aveva fatto nel 1996). Non credo che i Talebani si accaniranno contro i soldati dell’esercito “regolare” afghano, sono ragazzi come loro che si sono arruolati per disperazione, per avere un salario in un Paese che da povero era diventato poverissimo. Ai principali collaborazionisti non si darà requie. La soluzione sarebbe munirli di un salvacondotto in modo che possano riparare negli Stati Uniti o in qualche altro Paese loro amico come l’Iran sciita. Ma se le cose andranno in questo modo lo potremo sapere, sempre che Isis venga nel frattempo sconfitto, solo nei mesi e negli anni a venire.
Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2021