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Una settimana fa The Blank Contemporary Art, un’organizzazione culturale che si occupa da una decina d’anni di arte contemporanea, organizzata da un gruppo di ragazze che adesso vanno per la quarantina, mi ha invitato al loro Festival ArtDate. L’argomento era il dono nelle opere di artisti contemporanei, anche stranieri, io dovevo invece parlare del dono dal punto di vista economico. A causa del Covid il festival per queste ragazze si è risolto in un bagno di sangue, molti artisti stranieri non sono potuti venire e ovviamente mancava il pubblico. Nonostante Bergamo non sia una città attualmente tranquillizzante (ma anche Milano è in “zona rossa”), ci sono andato per gratificare la serietà e lo sforzo di queste ragazze che mi avevano contattato già ai primi di maggio (e poi non datemi del misogino, stronze). Per me, che ero il solo presente fisicamente, c’erano addirittura due allampanate tipe che traducevano per i sordi.

Dunque il dono. Per migliaia di anni, dall’8000 al 3000 avanti Cristo circa, nel periodo paleolitico e poi neolitico, la sola forma accettabile di scambio è stata quella del dono e del controdono. Lo scambio, che era fra tribù, collettivo, non era quasi mai contestuale, avveniva in tempi diversi e non aveva un contenuto economico, né necessariamente il controdono andava alla tribù che l’aveva fatto. Forse nessuno meglio di Marcel Mauss ha spiegato il singolare circuito del dono e del controdono, in Melanesia chiamato kula, che significa circolo, ma abituale in quasi tutti i popoli che si affacciavano sul Pacifico: “Un anno una tribù parte dalla sua isola a bordo di una nave vuota e fa il giro dell’arcipelago tornando carica di doni. L’anno successivo un’altra tribù fa lo stesso giro in senso inverso. E così via. Non necessariamente la tribù dà i suoi doni  a quella da cui li ha in precedenza ricevuti, capita che li dia a una tribù terza, ciò che conta è che questa sia inserita nel giro del kula” (M. Mauss, Teoria generale della magia).

Lo scambio individuale, detto gimwali, è proibito o comunque malvisto perché incrina l’unità e la solidarietà del gruppo che in quelle società è il valore in assoluto primario. In tali società non esiste nemmeno il concetto di economia, perché l’economia nella vita tribale si diluisce, si confonde, si incorpora in una così fitta rete di rapporti sociali, religiosi, magici, interpersonali, di amicizia, che è pressoché impossibile isolarla ed enuclearla dal resto. Poiché il controdono è abitualmente superiore al dono, alcuni economisti classici hanno affermato che in realtà si tratterebbe di un prestito ad interesse. Ed in effetti i pellerossa dicono (o dicevano) che “il dono è un peso che si mette sul gobbo di colui che lo riceve”. Ma si tratta di una questione di onore e di prestigio che nulla ha a che fare con l’economia. Nulla illustra meglio questa concezione di quello straordinario istituto che è il potlach, dove un capo tribù distrugge quanto più può della propria ricchezza proprio per dimostrare la sua potenza (oppure l’intera tribù la sperpera – noi moderni che abbiamo il concetto di investimento diremmo così – in banchetti, feste nunziali o altro genere di gozzoviglie). Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che il primitivo non è un homo oeconomicus e che la storia non è una inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro i cui presupposti sarebbero stati presenti fin dalle età più antiche.

Col progredire dell’evoluzione, se vogliamo chiamarla così, le tribù e le stesse famiglie si sparpagliano, per cui il circuito del dono e del controdono man mano si disperde. Già Esiodo ne Le opere e i giorni (VIII-VII secolo a.C.), aveva notato un cambiamento essenziale, alla tribù, al clan, dove la solidarietà è implicita perché l’individuo progredisce o perisce con esso, si sostituisce il vicino di cui il poeta ha un giustificato orrore. Perché il vicino lo si aiuta pensando che a sua volta, quando saremo in una qualche difficoltà, aiuterà noi. C’è quindi un calcolo, che se non è ancora propriamente economico  in qualche modo gli assomiglia.

Sorvolando poi questa storia a volo d’uccello, inizia l’era dei grandi Imperi fluviali, mediorientali: Sumeri, Assiri, Babilonesi, Ittiti, Harappa, Egizi. Qui la ricchezza è accumulata nelle mani di un re, imperatore o faraone che sia, di origine divina o egli stesso un dio (sia detto di passata, in Oriente non si è mai concepita la figura di un capo supremo che non avesse origine divina, solo questa origine lo legittimava al comando, un riflesso moderno di questa concezione si ha nel Giappone dove il Mikado è stato un dio fino a quando gli Americani vincitori non lo costrinsero a dedivinizzarsi ) che, attraverso la sua burocrazia, distribuisce la ricchezza ai sudditi. Entra in campo però anche lo scambio individuale che è basato sul concetto di equivalenza. Poiché è diventato ormai in larga misura indispensabile lo scambio individuale, una volta osteggiato, è consentito ed è sottratto al regime faticoso e dispendioso del dono e controdono, ma deve avvenire secondo certe equivalenze prefissate fra bene e bene in modo che non ci sia profitto di una delle parti a scapito e con danno dell’altra. Oppure, se vogliamo vederla da un’altra angolazione, il guadagno deve essere uguale per entrambe. È insomma la condanna del mercante. IlA perché lo spiega bene Aristotele nell’Etica Nicomachea: “L’esistenza stessa dello Stato dipende da questi atti di reciprocità programmata… quando esse venga a mancare non è più possibile alcuna forma di compartecipazione, mentre è proprio tale compartecipazione che ci tiene uniti”. Come sottolinea il filosofo anche qui i valori primari restano l’unità e la solidarietà del gruppo. Questo modo di pensare lo si riscontra ancora in alcuni popoli che chiamiamo “tradizionali”, e che sono stati fra noi fino a epoche recentissime. Per  i Curdi, finché sono esistiti come tali, e gli Hunza, popolo dell’Asia centrale, il furto è punito più dell’omicidio, perché l’omicidio può avvenire in seguito a ira, onore, gelosia, cioè per i tradizionali moti dell’animo che, checché se ne dica oggi, non sono comprimibili, mentre il furto, a meno che non sia compiuto in stato di necessità, allora viene perdonato, incrina la fiducia e la solidarietà del gruppo.

La solidarietà oggi, in epoca di Covid, viene richiamata un po’ da tutte le Autorità proprio perché in epoche di calamità la solidarietà e l’unità di un popolo è particolarmente necessaria. Ma di questa solidarietà in giro, a dispetto di tutti gli altisonanti proclami, se n’è vista pochissima. Ha prevalso la paura reciproca (“noli me tangere”). In quanto agli uomini politici non fan altro che strumentalizzare la situazione per loro fini particolari e addirittura Silvio Berlusconi, il “delinquente naturale” come l’ha definito la Cassazione, si propone come “padre nobile” non solo della destra (chiamiamola in tal modo, anche se così si fa un insulto alla Destra), ma del Paese, proprio in nome di questa solidarietà.

Ribadisco un concetto che mi è proprio e caro: si stava meglio quando si stava peggio. Persino nel paleolitico.

 Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2020

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Donald Trump, detto familiarmente “The Donald”, fuor d’America  ha sempre goduto di pessima stampa sia quando era al potere sia, forse soprattutto, adesso che, pur recalcitrante, lo sta per abbandonare. Per me, devo dirlo, “The Donald” è stata una vera manna perché non ero più il solo a criticare i gloriosi United States of America. “The Donald” non piace all’impronta per il suo aspetto esteriore, per quei suoi capelli che sembrano, e probabilmente sono, posticci come i peli tirati di un gatto, con improbabili riflessi biondi (ma il Berlusca, che pur in Italia gode dell’appoggio di una buona metà della stampa, tanto che si candida alla Presidenza della Repubblica, non è rifatto da capo a piedi?) per la sua innata trivialità e per i suoi tweet che trasudano maschilismo, razzismo, omofobia.  Oggi in politica, e non solo, l’apparenza e il modo di comunicare sono tutto, o quasi, tanto che esiste una particolare specializzazione, quella del coach aziendale che insegna ai manager come fare i manager, non dal punto di vista pratico (e i risultati si vedono) ma estetico e del porgersi. Ho avuto una fidanzata, Chiara, che faceva questo mestiere, e lei e i suoi simili facevano fare ai manager degli esilaranti “giochi di ruolo” con biglie, calcetto ed altri esperimenti del genere. Io che con le donne sono vilissimo ascoltavo pazientemente, ma sbottai una volta che mi disse che una delle metodiche (“metodiche”, “tempistiche”, “problematiche” sono termini che oggi fan parte dello pseudo-italiano, ma non sarebbe più semplice dire metodi, tempi, problemi?) per valutare le capacità di leadership di un manager era metterlo davanti a un cavallo e osservare le sue reazioni, del tipo, non del cavallo. Le dissi: ”Scusa, Chiara, non credo che al-Baghdadi per conquistare la leadership si sia messo davanti a un cavallo, forse l’avrà montato, più probabilmente avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno”.

Per noi che apparteniamo al passato, e fra breve al trapassato, più che di queste sciocchezze ci importa la sostanza. E se guardiamo l’attività di “The Donald” da questo punto di vista il giudizio diventa un poco diverso. E’ con Trump che è iniziato il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan ed è sotto la sua presidenza che è stato annunciato quello dall’Iraq (sia detto di passata: una guerra costata, in modo diretto o indiretto, 650mila morti infintamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam Hussein, secondo un calcolo molto semplice fatto da una rivista medica britannica che ha messo a raffronto i morti durante gli anni del potere del raìs di Baghdad e lo stesso numero di anni dell’occupazione yankee). Sia pure nel suo modo goliardico, giocando a chi “ce l’ha più grosso”, Trump ha trovato il modo di allentare l’eterna tensione con la Corea del Nord.

Storicamente gli americani sono “isolazionisti” e Donald Trump, che pur è un repubblicano anomalo, sembra continuare questa tradizione, spezzata brutalmente da George W. Bush che ha disseminato il mondo, soprattutto quello mediorientale, di guerre che sono venute regolarmente in culo all’Europa finendo per creare il “mostro” Isis (ma neanche i democraticissimi Clinton, guerra alla Serbia del 1999, e Obama, guerra alla Libia in supporto ai francesi, hanno scherzato).

Per quel che si può giudicare da qui Joe Biden sembra una brava persona, certamente molto meno urticante di Trump che però aveva un pregio proprio nella sua brutale schiettezza che, a mio modo di vedere, è meglio dell’ipocrisia. Non credo però che con Biden possa cambiare la sostanza delle cose. L’America è un paese imperiale e imperialista. Gli americani si sentono e si credono ancora i padroni del mondo. Il Novecento è stato il “secolo americano”, ma il futuro non è più “iuessei”, è della Cina che senza fare stupide guerre con droni e bombardieri punta sull’economia e ha già conquistato mezza Africa e parti dell’Europa e anche del mondo islamico, radicale e non, o forse, dell’Isis.

Il Fatto Quotidiano, 21/11/2020

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Siamo in guerra, si dice, contro il Covid19. E’ proprio questo “stato di guerra” che ha reso possibile al Governo, peraltro condizionato fortemente nelle sue scelte non solo nel campo medico ma anche, indirettamente, economico, quindi in un area molto vasta,  da un gruppo di tecnici (Ma non si era sempre detto che un governo di tecnici o informato dai tecnici era il contrario della Democrazia? Mah) di calpestare una serie di diritti costituzionalmente garantiti a cominciare da quello della libera circolazione dei cittadini inserito nel titolo I, Rapporti civili (art. 16 Cost.). Uno scempio che dovrebbe far ululare o per lo meno guaire gli idolatri della Costituzione. Ma siamo in guerra, è vero, e quindi sono legittime misure emergenziali e anticostituzionali. Del resto anche nel Diritto romano, il padre di tutti i Diritti, era lecito sospendere le abituali garanzie repubblicane affidando tutto il potere a un Dictator, quale fu per esempio Quinto Fabio Massimo Cunctator che costrinse Annibale a una guerra, o per meglio dire a una non guerra, di logoramento. Ma il Dictator durava in carica un anno, qui invece non si sa bene quando finirà la dittatura politico-scientifica. Gli idolatri della Costituzione non si sono accorti peraltro che la Costituzione così come fu concepita e dettata dai nostri Padri fondatori non esiste più da tempo, sostituita da una “costituzione materiale” che si viene via via elaborando basandosi sui fatti nel loro incessante cambiare, fottendosene dei principi, così come scrive Giovanni Sartori sulla cui democraticità non è ammissibile avere dubbi (Democrazia e definizioni). Anche Norberto Bobbio che ha dedicato tutta la sua lunga vita allo studio della Democrazia, essendone un fervente partigiano, ammette che la Democrazia non è una democrazia, ma una poliarchia, cioè l’organizzazione di gruppi di potere di vario genere sui quali l’influenza dei cittadini è minima se non nulla. Un esempio di questa trasformazione della Costituzione propriamente detta in “costituzione materiale” e della Democrazia in poliarchia è dato dal potere assunto nel tempo dai partiti. Dei partiti si occupa un solo articolo della Costituzione, il 49, che così recita: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E’ esperienza di tutti noi che i partiti partendo da questo unico articolo hanno debordato in quasi tutti gli altri 139, assumendo poteri fuorvianti in tutto il settore pubblico, ma anche in parte di quello privato. Senza l’appoggio di un partito, quale che sia, non si vive in Italia. Quello che era un diritto è diventato un obbligo. Non si tratta naturalmente di prendere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, ma di dichiarare la propria fedeltà a un capo partito o a un sottocapo, così come in altri ambiti di quel potere “poliarchico” di cui parla Bobbio, a clan diversi, a lobby, a mafie di ogni genere, allo stesso modo in cui in epoca medievale il valvassore dichiarava la propria fedeltà al feudatario e costui al Re.

Siamo in guerra dunque. Ma allora dovrebbero valere anche le leggi di guerra e i diritti di guerra. Uno dei più importanti è il diritto alla censura. Per la verità il primo ad autocensurarsi dovrebbe essere proprio il governo politico-tecnico. Non si capisce che senso abbia dare ogni giorno l’elenco dei morti per Covid se non quello di terrorizzare una popolazione già terrorizzata. Lo stesso accadrebbe se si desse ogni giorno la lista dei morti per tumore che attualmente, in Italia, sono circa 180mila l’anno, cioè molti di più dei morti per Covid, anche se per completare questa macabra conta bisognerà aspettare Febbraio quando, almeno ufficialmente, iniziò la pandemia.

La censura dovrebbe colpire epidemiologi, infettivologi, virologi e altri specialisti, chiamiamoli così, che sostengono una linea diversa da quella del Governo o la mettono in dubbio, mandando così in ulteriore confusione i cittadini. In tempo di guerra questo si chiama “disfattismo” e i disfattisti finiscono dritto e di filato in gattabuia.

Finita che sarà la pandemia bisognerà poi mettere in conto i “danni collaterali” provocati non dal Covid ma dai vari lockdown che oltretutto basculando “stop and go” sono particolarmente stressanti per tutti, sia dal punto della tenuta nervosa delle persone che economico. Molte persone sono cadute in uno stato di depressione che, com’è noto, abbassa le difese immunitarie e apre la strada non solo al Covid ma ad altre malattie ben più pericolose. C’è poi un’indagine dell’Iss, Istituto superiore della sanità, che ha rilevato l’aumento di un terzo nell’uso di psicofarmaci, di alcolismo, di droghe leggere e pesanti. E se per questo uso, o abuso, di stimolanti qualcuno ci lascerà la pelle, anche questi morti andranno messi in conto ai lockdown. Agli anziani è stato in pratica interdetto l’avvicinamento di qualsiasi persona, è stata cioè loro imposta una particolare solitudine sociale e la solitudine, anche questo è noto, uccide più del fumo, inoltre essendo stata proibita a questi soggetti ogni attività motoria che non sia un angoscioso giro del palazzo, poiché il moto è decisivo per la salute degli anziani, anche le morti di costoro dovranno essere messe in conto ai lockdown. Ci sono infine persone che soffrono di patologie ben più gravi del Covid19 che in questo periodo e nei mesi a venire non sono e non potranno essere curate adeguatamente. E anche questi morti dovranno essere messi in conto ai lockdown.

I morti per Covid in Italia sono, per ora, 45mila, cioè lo 0,075% della popolazione italiana. Stroncare le strutture nervose, sociali ed economiche di un Paese per una percentuale di morti quasi irrilevante a me sembra irrazionale. Ma naturalmente anche questa è un’opinione che potrebbe cadere sotto la mannaia della censura.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2020