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Il nostro ministro della Difesa Lorenzo Guerini, a proposito della questione ucraina, ha dichiarato due giorni fa: “La violazione dell’integrità territoriale di un Paese non è accettabile e costituisce una minaccia alla pacifica convivenza di popoli e Stati”. Ineccepibile. Ma come mai allora, la Nato o parte di essa, in realtà soprattutto gli americani che ne hanno l’assoluto controllo, hanno potuto violare impunemente, più volte, l’integrità territoriale di altri paesi, dalla Serbia nel 1999 all’Iraq nel 2003, per finire con la più sciagurata di tutte queste operazioni e cioè l’aggressione nel 2011 alla Libia del colonnello Mu’ ammar Gheddafi? Tutte queste aggressioni non solo non avevano la copertura dell’Onu ma furono fatte contro la volontà dell’Onu.

La questione ucraina è estremamente intricata e richiama parecchi precedenti della storia recente. Il parallelo più calzante è quello Serbia/Kosovo. Il Kosovo faceva parte della Serbia ed era considerato dai serbi la “culla” della loro Nazione. Ma nel frattempo si era affermata in Kosovo una maggioranza albanese che pretendeva l’indipendenza di quella regione dalla Serbia, dall’altra parte c’era il diritto della Serbia a preservare l’integrità del proprio territorio. Insomma: due ragioni a confronto che avrebbero dovuto essere risolte dal reale rapporto di forza fra i contendenti. Invece intervennero gli americani che decisero che la Serbia aveva torto, gli indipendentisti kosovari ragione e per 72 giorni bombardarono una grande capitale europea come Belgrado. A questa situazione che è della fine degli anni Novanta (del 1999 per la precisione) molto somiglia a quella attuale che vede lo scontro fra l’Ucraina e la regione auto dichiaratasi indipendente  del Donbass. L’Ucraina ha tutte le ragioni di difendere la propria integrità territoriale nei confronti di questa regione, così come le aveva la Serbia nei confronti del Kosovo e infatti i primi combattimenti di questa guerra di cui si conosce l’inizio ma non si può prevedere la fine, sono state fra le forze regolari dell’esercito ucraino e gli indipendentisti. Ma poi si è andati ben oltre. Perché in gioco c’è anche la Russia che ha le sue ragioni nel prendere la parte degli indipendentisti, che sono russofoni o addirittura russi propriamente detti, molto di più di quanto ne avessero gli americani in Kosovo di cui i cittadini yankee ignoravano addirittura l’esistenza  (Bill Clinton per spiegare ai propri concittadini cosa fosse mai questo misterioso Kosovo dovette distendere una grande carta geografica e, come un professore delle medie, indicare ai propri concittadini dove mai si trovasse il Kosovo). Con questo precedente è difficile pretendere che la Russia sia indifferente alle ragioni degli indipendentisti del Donbass. Seguendo l’esempio degli americani hanno attaccato l’Ucraina e bombardato Kiev. E se era inaccettabile che gli americani bombardassero Belgrado altrettanto e forse più inaccettabile è che i russi bombardino Kiev e abbiano addirittura cominciato a invadere quel Paese. Continuando a giocare, fra russi e americani, a chi ce l’ha più grosso si è arrivati a questo punto, estremamente pericoloso, che si poteva abbastanza facilmente evitare. Quel che premeva veramente a Putin e lo aveva dichiarato, era che l’Ucraina non entrasse nella Nato per non avere i missili americani ai propri confini. È, a posizioni invertite, quello che successe a Cuba  quando i sovietici schierarono dei missili sull’isola di Castro a 60 miglia di distanza dai confini statunitensi. Gli eventuali missili Nato in Ucraina sarebbero invece proprio ai confini del territorio russo. Nella crisi di Cuba prevalse il buonsenso, Chruscev ritirò i missili e gli americani respirarono, insieme al mondo intero perché è la volta in cui si è stati più vicini alla terza guerra mondiale.

Una buona mediazione l’aveva offerta il cancelliere tedesco Scholz quando ha incontrato Putin a Mosca, e disse: “L’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è all’ordine del giorno”, rimandando quindi tutto alle calende greche. Prefigurando quindi, come ha scritto l’ambasciatore Sergio Romano, un’Ucraina versione Svizzera.  Ma non è bastato. L’aggressività degli americani ha incarognito ulteriormente Putin per ragioni che con l’indipendentismo del Donbass ha poco a che fare. La realtà è che né a Putin né tantomeno agli americani importa un fico secco del Donbass e anche dell’Ucraina, quelli che sono in gioco sono i rapporti di forza fra le due superpotenze di cui gode solo la Cina che se ne sta a guardare. Nel mezzo di questo scontro c’è un’ Unione europea che è un gigante economico ma che è un nano militare perché a differenza delle due Superpotenze non possiede, Francia a parte, quell’arma di deterrenza decisiva che è l’Atomica. Bisognerebbe togliere alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere la Bomba visto che ce l’hanno paesi molto meno rilevanti come il Pakistan, il Sudafrica, Israele. Ma questa possibilità è molto di là da venire con 80 basi militari, anche nucleari, Nato – americane in Germania e 60 in Italia, ma soprattutto perché l’Europa oltre che un nano militare è anche un nano politico non riuscendo a trovare una unità d’intenti fra gli Stati, con storie così diverse, che la compongono. Nel mezzo del mezzo c’è l’Italia che è un nano militare, un nano politico, ma non un nano economico perché è un Paese, pandemia a parte, di forti consumatori. Anche noi abbiamo i nostri interessi nazionali. Alla luce di questi interessi a chi dobbiamo essere più vicini in questo confronto mondiale:  agli Stati Uniti o alla Russia? A me pare che, sia pur con tutte le cautele del caso, noi si abbia interesse ad avere più buoni rapporti con la Russia che con gli Stati Uniti: per ragioni energetiche (secondo il ministro Cingolani il 45 per cento del gas ci arriva dalla Russia), per vicinanza geografica e, se me lo permettete, anche culturale perché Dostoevskij, Tolstoj, Gogol, Cechov fanno parte della cultura europea, e quindi anche italiana, molto più delle “serie” con cui le grandi produzioni americane stanno inondando da anni le nostre televisioni. Quindi sarebbe quanto mai opportuno che il nostro premier, Mario Draghi non si sdraiasse, appiattito come una sogliola, ai piedi di Joe Biden.

Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2022

Io sono d'accordo nel sostenere l'Ucraina contro l'aggressione russa. Ma non sono per niente d'accordo con l'accordo, pressoché unanime, nel condannare la Russia e sostenere l'Ucraina, perché da questi improvvisi sostenitori della intangibilità del territorio di un popolo o una Nazione non ho mai sentito una voce, una sola, in Occidente condannare l'aggressione Nato-americana all'Afghanistan. Eppure ci sono stati vent'anni di tempo. Nemmeno il Papa che piange per ogni vittima di prepotenze in qualsiasi parte del mondo si trovi ha mai speso una parola, una sola, per l'Afghanistan. Eppure qui le vittime civili per mano occidentale sono state, con un calcolo per difetto, 230mila, non contando ovviamente i morti talebani (circa 70mila) perché i Talebani erano guerriglieri quindi come ogni soldato sapevano e accettavano i rischi che correvano. Quindi sì al sostegno all'Ucraina contro lo strapotente aggressore russo, no alla consueta ipocrisia occidentale, al suo ormai storico doppiopesismo, che con grande clamore si strappa i capelli per l'Ucraina per una guerra che è appena agli inizi e tace per vent'anni e addirittura ancora continua a tacere, sull'Afghanistan, non distinguendo l'aggressore dall'aggredito, anzi addebitando a quest'ultimo ogni responsabilità.

m.f.

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“Un giorno in pretura“, un programma che andava su Rai 3 era nato nel 1988. Dava in diretta i processi di competenza pretorile, per reati cioè la cui pena massima non superi i quattro anni. Insomma reati quasi bagattellari.

Fine febbraio 1992. Io lavoravo all’Indipendente di Feltri, ma in quei giorni ero in vacanza nella casa di proprietà dei genitori della mia fidanzata. Una sera il padre di lei, che come tutti gli anziani passava ore davanti al piccolo schermo, mi venne a cercare e mi disse: “Vieni a vedere la tv, c’è una trasmissione interessante, curiosa”. Andai e vidi qualcosa che allora aveva dell’incredibile. Un noto politico democristiano alla sbarra, messo sotto il torchio da un tipo massiccio, atticciato, dall’aria contadina, il Pubblico ministero. Era Antonio Di Pietro. Fu una trovata geniale quella di Francesco Saverio Borrelli, che dirigeva la Procura di Milano e il gruppo di magistrati che sarebbe stato poi chiamato “il Pool di Mani Pulite”, che allora comprendeva solo Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro (Ilda Boccassini, Davigo, Greco si aggiunsero dopo) di affidare gli interrogatori in aula, tutti quelli che potemmo vedere in tv, proprio a Di Pietro. Agli indagati che cercavano di difendersi col solito, fumoso, politichese Di Pietro opponeva il suo buonsenso contadino e a quel politichese totalmente fuori dalla materia del contendere replicava col suo famoso: “che c’azzecca”? Vedemmo sfilare una serie di intoccabili con tutta la loro miseria. A me colpì molto l’interrogatorio di Claudio Martelli uscito dalla casa di Carlo Sama con 500 milioni in contanti nascosti in un giornale. Claudio era stato mio compagno di banco al liceo classico Carducci. Ma come, dicevo fra me, noi siamo stati educati nei migliori licei di Milano per diventare classe dirigente  e tu sgattaioli con 500 milioni in tasca come un malandrino qualunque. Ricordo lo sguardo di Martelli rivolto a Di Pietro. Era di ghiaccio. Se avesse potuto ucciderlo, almeno col pensiero, l’avrebbe fatto. Martelli aggravò la sua posizione affermando che pensava che quei 500 milioni non fossero della Montedison ma personali di Sama. Martelli ne uscirà con un “patteggiamento” restituendo quei 500 milioni. 

Mani Pulite ebbe all’inizio un grande consenso da parte della popolazione, stufa dell’arroganza impunita della classe dirigente, e anche della grande stampa che aveva la coda di paglia per aver taciuto e assecondato il regime. Ma ebbe anche un eco internazionale . Si plaudiva all’Italia che aveva il coraggio di ripulire in pubblico i propri panni sporchi.

Certamente ci furono degli eccessi in quei due anni. Ma non da parte della Magistratura. Ma da parte di una popolazione inferocita presa dalla sindrome ben descritta da Buzzati in: “Non aspettavano altro” (le monetine lanciate a Craxi davanti al Raphael, l’inseguimento del ministro degli Esteri Gianni De Michelis fra le calli di Venezia). Per accanimento forcaiolo si distinse proprio Feltri (diventerà “ipergarantista” quando passerà alla corte di Berlusconi): la foto di Enzo Carra in manette sbattuta in prima pagina, l’appellativo di “cinghialone” affibbiato a Bettino Craxi trasformando così una legittima inchiesta della magistratura in una “caccia sadica”, il coinvolgimento dei figli di Craxi. Toccò a me, sempre sull’Indipendente difenderli (Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi - L’Indipendente, 11-5-1992 ) e in qualche modo lo stesso Craxi nel momento della sua caduta quando improvvisati fiocinatori, fra cui eccellevano alcuni suoi amici, si accanivano sulla balena ferita a sangue (Vi racconto il lato buono di Bettino – L’Indipendente, 17-12-1992).

Uno dei tanti errori di Craxi fu di definire Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante il 17 febbraio 1992 mentre buttava una mazzetta nel cesso, un “mariuolo” come se si trattasse di una mela bacata in un cesto di mele immacolate. Se avesse fatto in quel momento la chiamata di correità di tutti i partiti avrebbe avuto un valore, farla in Parlamento cinque mesi dopo nel luglio del 1992, quando era stato pescato lui stesso con le mani sul tagliere, era troppo comodo.

Passata la prima buriana la classe politica cercò di reagire, col famoso decreto “salvaladri” del ministro della Giustizia Biondi (primo governo Berlusconi) che metteva in libertà numerosi detenuti di Tangentopoli. Ma era troppo presto. Il decreto fu ritirato per la reazione popolare e perché quattro magistrati Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in tv affermando che se le cose stavano così avrebbero chiesto di essere assegnati ad altro incarico.

Il più astuto a cercare di approfittare della situazione fu Berlusconi. Prima cercò di lisciare il pelo ai magistrati offrendo a Di Pietro, che la rifiutò, la carica di ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro diverrà poi nel linguaggio berlusconiano “un uomo che mi fa orrore”) poi, inquisito a sua volta, innescherà la reazione attaccando senza soste i magistrati di Mani Pulite e la Magistratura in generale e suonando la grancassa dell’anticomunismo perché a essere spazzati via dalle inchieste furono la Dc, il Psi, il Pli, il Pri, mentre il Pci si era in qualche modo salvato, perché il compagno Primo Greganti arrestato si rifiutò, in perfetto e coerente stile vecchio Pci, di fare qualsiasi nome, di imprenditori e tantomeno di uomini del suo partito. Durante gli anni della reazione berlusconiana il fuoco di fila si concentrò soprattutto su Antonio Di Pietro messo sette volte sotto processo e sette volte assolto.

Perché fu possibile Mani Pulite? I suoi presupposti vengono da lontano. Col collasso dell’URSS era venuta meno la paura dell’”orso russo” e quindi anche il detto di Montanelli secondo il quale era necessario votare la Dc (“turatevi il naso”). Nel frattempo era nata la Lega di Umberto Bossi, il primo, vero, partito d’opposizione dopo anni di consociativismo perché il Pci era stato appunto associato al potere. Se quindi prima era possibile innocuizzare i magistrati che cercavano di ficcare il naso nella corruzione politico-imprenditoriale senza che nessuno osasse alzare una voce, adesso questa voce c’era e si chiamava Lega. E al Nord, che era particolarmente colpito dalla corruzione, la Lega prendeva il 40 per cento dei consensi, non solo provenienti dalla Dc,  e non si poteva ignorarla.  Prima della nascita della Lega il sistema per paralizzare le inchieste era quello di farle finire alla Procura di Roma, non a caso chiamata “il porto delle nebbie”, che  regolarmente le insabbiava.

Oggi, a trent’anni di distanza, si cerca di capovolgere completamente la storia di Mani Pulite. S’inventano tesi molto fantasiose come quella che vede dietro Mani Pulite gli americani. Non si vede proprio perché mai gli americani volessero la distruzione di partiti atlantisti a favore dell’unico partito che atlantista non era, il Pci- Pds. E ci fermiamo qui perché le fake in materia sono innumerevoli.

È vero invece che Mani Pulite non ha cambiato l’Italia in meglio, ma in peggio. Ma questa non è responsabilità dei magistrati di Mani Pulite, ma della politica. Mani Pulite, che richiamava anche la classe dirigente al rispetto di quella legge che noi tutti siamo tenuti ad osservare, avrebbe potuto essere una lezione e un’occasione per questa stessa classe dirigente per emendarsi dalla propria corruzione. E invece nel giro di pochi anni, per la politica ma anche per i grandi giornali, i veri colpevoli divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici.

Non c’è quindi da stupirsi se, con simili esempi, la corruzione discendendo giù per li rami abbia finito per coinvolgere quasi tutti, anche cittadini che per loro natura sarebbero onesti ma che non vogliono passare per “i più cretini del bigoncio”, e insinuarsi in ogni ambito della nostra vita istituzionale e sociale, compresa la stessa Magistratura. E così il cerchio si chiude.

Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2022

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Camminate sullo stretto sentiero di un bosco. È scesa la sera, è iniziata la notte. Il buio e il silenzio, abbastanza impressionante per chi viene dalla città, inducono alla meditazione. Ma man mano che procedete e le vostre orecchie si fanno più attente sentite un rumore di sottofondo un po’ inquietante. Che cos’è? Acufene? O venite da una lettura recente di un racconto di Buzzati dove tutto, anche le più normali cose, assume un aspetto angosciante? O è forse il ronzio delle api che, anche nottetempo, stanno organizzando, in modo militare, il loro alveare con ordini precisi e inderogabili che riguardano le operaie, le infermiere, i fuchi destinati alla morte,  sia quelli che perderanno la partita sia il solo che riuscirà a fecondare l’Ape Regina soccombendo subito dopo l’amplesso, o l’Ape Regina stessa? Ordini che nessuno ha dato, ma rispondono a quella che l’entomologo Jean-Henri Fabre ha definito “la Legge” e che noi chiameremo più semplicemente l’istinto. No, quello che sentiamo in sottofondo non è il classico ronzio delle industriose api. È piuttosto un cric, crac, uno sbocconcellare di qualcuno, migliaia di qualcuno, nascosto nel tronco degli alberi o nelle loro radici. Sono “i divoratori della foresta”, un cerambice eroe, cioè un tarlo, un cervo volante, uno scolito, una saperda, un sirice. Questi insetti, minuscoli, sbocconcellano il legno dell’albero o la sua cellulosa, sia per alimentarsi sia per trovare cavità più profonde dove starsene al sicuro. Sbocconcella un giorno, sbocconcella un altro, l’albero, dai e ridai, cadrebbe stecchito a terra. Ed in effetti qualche vecchio pioppo, abitato dalla saperda, ogni tanto crolla a terra, come ben sappiamo. Ma in linea di massima i boschi e le foreste rimangono intatti. Com’è possibile? È possibile perché questi insetti, e mille altri che si potrebbero nominare, hanno un antagonista, un parassita chiamato icneumone che distrugge i “distruggitori”. Se non esistesse l’icneumone, le piante, i boschi, le foreste, rase al suolo, non potrebbero mettere in atto la loro vitale funzione dello scambio fra anidride carbonica e ossigeno. E quindi senza il minuscolo icneumone non perirebbero solo le foreste ma anche l’uomo cui l’ossigeno è indispensabile come l’ossigeno.

Questa favoletta, che favoletta non è, ci racconta dello straordinario equilibrio con cui la Natura, di cui l’uomo fa parte, tiene se stessa (“un equilibrio sopra una follia” per dirla con Vasco).

“La Natura ci parla e sa” scrive Fabre. Ma è da quel dì che noi non ascoltiamo più la Natura. Da quando la rivoluzione  scientifica del Cinquecento / Seicento (Copernico, Keplero, Galilei, Newton) ha innescato quella industriale di metà del XVIII secolo, razionalizzata poi nell’Ottocento dall’Illuminismo sia in versione liberista che marxista. Da allora l’uomo è stato preso da un ubris, da un delirio di onnipotenza incontenibile, al cui centro c’è la domanda: che cosa dobbiamo fare per dominare tecnicamente la Natura e la vita? Ma che senso, e quale, abbia questo dominio la Scienza, come già notava Max Weber intorno al 1920 (Il lavoro intellettuale come professione), non ce lo dice, lo dà solo come presupposto, un “a priori” incontestabile. E invece un senso ce l’ha, purtroppo. Ed è quello di portarci il più rapidamente possibile, alterando costantemente i delicati meccanismi della Natura (che in realtà è la Tecnica che sovraintende a tutte le tecniche), verso l’autodistruzione.

La biodiversità (come peraltro ogni diversità) è fondamentale per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. È stato calcolato, in modo ovviamente approssimativo, che le specie vitali, non solo animali evidentemente (perché tutto ciò che è vivo, che non è minerale, fa parte dell’ecosistema) fossero circa 11 milioni. Negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo distrutto l’83 per cento. Finora la Natura è riuscita a metterci, in qualche modo, una pezza. Di questo ciclo vitale le industriose api sono un elemento fondamentale e le api stanno via via scomparendo  a causa delle pratiche agricole intensive, l’uso dei fertilizzanti, l’inquinamento e le elevate temperature dovute al cambiamento climatico. Tout se tient. Diceva Albert Einstein che il giorno in cui non ci saranno più le api sarà anche l’ultimo giorno della vita dell’uomo sulla Terra.