“È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra… Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra. Fare il bagno nella vasca è di destra, far la doccia invece è di sinistra. Un pacchetto di Marlboro è di destra,
di contrabbando è di sinistra. Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra… Se la cioccolata svizzera è di destra la Nutella è ancora di sinistra… Il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra… È il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché con la scusa di un contrasto che non c'è. Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra. Destra, sinistra. Destra, sinistra. Destra, sinistra. Destra, sinistra. Basta!”.
(Destra Sinistra, Giorgio Gaber).
La canzone è del 1994. Gaber si rendeva conto, ma la questione era nata molto prima, che destra e sinistra erano due categorie che non esistevano più e che dividersi su esse era lasciato a dettagli inconsistenti se non ridicoli.
Destra e sinistra sono due ideologie nate con l’Illuminismo che cercò di razionalizzare quel grande evento epocale nato in Inghilterra a metà del XVIII secolo, la Rivoluzione industriale, che ha cambiato radicalmente le nostre vite e che a sua volta è preceduta dalla rivoluzione scientifica e, in modo più profondo, dall’avvento del mercante come forte e rispettata classe sociale, mentre fino ad allora il mercate occupava l’ultimo gradino nella gerarchia dei valori.
Destra e sinistra hanno quindi un’origine comune e molti tratti in comune. Sono entrambe positiviste, progressiste, ottimiste, moderniste, economiciste, entrambe hanno il mito del lavoro (per Marx è “l’essenza del valore”, per i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore”), sono industrialismi che pensano che l’industria e la tecnica creeranno una tale cornucopia di beni da dare la felicità a tutti (Marx) o, più realisticamente per i liberisti, al maggior numero di uomini. Fin qui ciò che hanno in comune. Divergono profondamente, invece, sul modo di produrre e soprattutto di distribuire la ricchezza.
Per semplificare le cose è lo scontro in atto dalla metà del XVIII secolo fra capitalismo e, al suo estremo opposto, il comunismo nelle sue varie declinazioni. Io vedo capitalismo e marxismo come due arcate di un ponte che per secoli si sono sostenute a vicenda. Ma il crollo del marxismo prelude, rifacendoci all’immagine del ponte, a quello del capitalismo per la mancanza di opposizione e di limiti. Come scrivo ne Il Ribelle dalla A alla Z: “Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo”. Ma per ora il capitalismo è pienamente in sella. Tutto il mondo oggi è organizzato secondo il libero mercato, che è l’essenza stessa del capitalismo. Anche paesi totalitari, come ad esempio la Cina, sono a libero mercato sia all’interno che all’esterno. E dove c’è il libero mercato non ci può essere comunismo o fascismo se non nella loro forma più deteriore che è quella della dittatura e della cancellazione di ogni libertà civile.
Anche la ricerca della famosa “terza via”, cioè di una composizione fra liberismo e diritti civili, su cui le sinistre storiche si sono divise mille volte, non ha dato risultato, perché dove c’è libero mercato non ci può essere quell’uguaglianza che è forse l’obiettivo principale del pensiero di Marx.
Per la verità una soluzione, almeno teorica, ci sarebbe e si chiama socialismo, che cerca di coniugare una ragionevole uguaglianza sociale con i diritti civili. Ma quel che resta del socialismo è combattuto in tutto il mondo dal capitalismo occidentale imperante e viene bollato come dittatura anche quando dittatura non è, come nel caso del socialismo bolivariano preso in mano in Venezuela da Chávez e poi da Maduro, o da Lula in Brasile, fatto fuori con un pretesto risibile (è chiaro che Bolsonaro è molto più funzionale) o la Serbia di Milosevic che aveva il gravissimo torto di essere rimasto l’ultimo paese socialcomunista d’Europa.
Destra e sinistra, cioè le ideologie, hanno avuto anche, per molto tempo, un’importante funzione psicologica. Hanno sostituito laicamente il vuoto lasciato dalla “morte di Dio” e più in generale del sacro, che l’Illuminismo, come ha scritto benissimo Nietzsche, aveva consumato. Ma a due secoli e mezzo di distanza possiamo dire, con amarezza, che questa utopia bifronte ha fallito. Oggi l’uomo è stato spossessato di se stesso dall’Economia, il cui tono non è più nemmeno industriale ma finanziario, dalla Tecnologia, dalla Scienza, idoli cui bisogna sacrificare senza obiezioni. Siamo tutti omologati. Destra e sinistra, categorie di cui non si può negare l’importanza storica, oggi son divenute obsolete perché non sono in grado di intercettare le esigenze più profonde dell’uomo contemporaneo, occidentale, che, al di là delle apparenze, non sono economiche ma esistenziali. Vale il distico di Gaber “la passione, l'ossessione della tua diversità, dove è andata non si sa”.
Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2021
Il destino degli Europei e dell’Italia, non solo calcistica, è legato a una caviglia. Quella di De Bruyne, il fortissimo centrocampista della Nazionale belga. Che De Bruyne fosse un fuoriclasse lo si sapeva, ma che sia assolutamente determinante per il Belgio, che con lui è una squadra e senza di lui un’altra squadra, se n’è avuta dimostrazione per due volte proprio in questa fase iniziale degli Europei. La prima volta quando il Belgio giocava con la Danimarca. I danesi stavano vincendo 1-0. De Bruyne era in panchina. Veniva da uno spaventoso incidente rimediato solo venti giorni prima nella finale di Champions: rottura del setto nasale e dell’arcata sopracciliare. L’allenatore Martinez lo teneva in panca per averlo a disposizione nelle partite decisive se il Belgio avesse superato il turno. Ma con quell’1-0 a sfavore il passaggio non era più così sicuro. Allora ha mandato in campo De Bruyne senza poter sapere quali fossero le sue condizioni. Un assist, un gol, 2-1 e partita chiusa.
Domenica si giocava Portogallo-Belgio. Il Portogallo è da sempre una squadra tignosa, ti irretisce con una serie infinita di passaggi e non ti fa giocare. Ma De Bruyne, che ha un ruolo fondamentale, dietro gli attaccanti, di raccordo con gli altri centrocampisti ma anche con la difesa, è uno che fa girare bene l’intera squadra. 1-0 per il Belgio. Si era verso la fine del primo tempo. C’è stato uno scontro fra il portoghese Palhinha e De Bruyne. Palhinha s’è rialzato, De Bruyne anche, ma zoppicava vistosamente. All’inizio del secondo tempo Martinez ha rimandato in campo De Bruyne. Ma dopo cinque minuti, facendogli un cenno da una parte all’altra del campo, De Bruyne ha fatto segno al suo allenatore che non ce la faceva a giocare. La partita, che il Belgio aveva governato con facilità, è cambiata di colpo. I portoghesi si sono lanciati all’attacco, i belgi non riuscivano più a superare la metà campo. Il Belgio si è salvato a stento grazie ai suoi difensori e in particolare a Vermaelen ripescato a 34 anni.
Da domenica sono passati cinque giorni. Sono stati sufficienti a De Bruyne per recuperare? Non si sa. Se gioca in buone condizioni l’Italia non ha speranza, se non gioca l’Italia passa e può vincere gli Europei.
Le partite degli Europei hanno un interesse che va oltre il gioco, che è sociale perché danno il carattere di una nazione. Mentre negli incontri fra le squadre di club sono mischiati francesi, italiani, olandesi, belgi, brasiliani, agli Europei in campo ci sono la Francia, l’Italia, la Germania, l’Inghilterra, il Belgio, la Svizzera. Lunedì si giocava Francia-Svizzera, con i francesi favoritissimi. Io ho puntato sulla Svizzera, contando proprio sulla notoria boria dei francesi. Boria che, fuori dal calcio, non ha nessuna ragion d’essere, soprattutto in campo militare dove le han sempre prese, a Sedan dai tedeschi, nella Prima guerra mondiale salvati dagli inglesi, nella Seconda, dove la famosa “linea Maginot” è stata aggirata dai tedeschi e dopo due settimane Hitler passeggiava sugli Champs Elysees. Ma al momento dell’incontro con la Svizzera erano i campioni del mondo, erano la squadra più forte ed erano francesi. Ma è stato proprio l’esser francesi che li ha fregati. Sono entrati in campo con troppa sicumera. Ma al 19° del primo tempo è successo un miracolo, anzi un doppio miracolo. Il primo è che la Svizzera ha segnato. Il secondo è come ha segnato. Dai tempi di Chapuisat la Svizzera non ha un centravanti. Ci mette per disperazione Seferovic, che è uno che sa giocare ma la porta non la vede proprio mai. Invece su un cross Seferovic, appoggiandosi al centrale francese, è salito in cielo inviando il pallone nell’angolo. Un gol alla Lewandowski che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. Nel secondo tempo il modesto Zuber è stato fermato in area di rigore con un fallo dubbio. Mentre l’insopportabile Var valutava la situazione, io mi auguravo che il calcio di rigore non fosse concesso alla Svizzera perché se lo avesse sbagliato si sarebbe invertita l’inerzia della partita. Come puntualmente è avvenuto. La psicologia è fondamentale nel calcio. Dopo 180 secondi la Francia, ringalluzzita dallo scampato pericolo, con i grandi giocatori che ha, era già 2-1. Che dopo poco è diventato 3-1. Svizzera spacciata. Ma l’allenatore della Svizzera Petkovic ha mandato in campo di tutto, terzini trasformati in attaccanti, uomini di classe sostituiti da gente fisica e gli svizzerotti ce l’hanno messa proprio tutta. Ha segnato ancora Seferovic, cui il primo gol aveva dato la sensazione di essere anche lui un centravanti, e poi Gavranovic. 3-3. A questo punto, sempre per una questione psicologica, era la Francia a essere spacciata. Sei campione del mondo, vincevi 3-1, e sei ai supplementari con la Svizzera. L’inerzia era tutta dalla parte elvetica. Nei supplementari non ci sono stati gol. Si è andati ai rigori. E a questo punto, per le stesse ragioni, la Francia era superspacciata. E qui Deschamps ha commesso l’ennesimo errore. Ha affidato il rigore decisivo a Mbappé, uno dei suoi fuoriclasse, o considerato tale, che aveva giocato male, che ha 22 anni e s’è fatto sopraffare dall’emozione e dal portiere svizzero Sommer che è piccolo ma ha grandissimi riflessi. Del resto Mbappé non mi ha mai convinto, nemmeno quando è diventato campione del mondo con la Francia. È uno a cui piace irridere gli avversari. E, storicamente, giocatori del genere non vanno mai troppo avanti. Così era anche Ronaldo agli inizi. Finché un giorno van Nistelrooij, che ci giocava insieme nel Manchester United ed era già una stella, stufo di passare sempre la palla a Cristiano quando lo vedeva meglio piazzato e di non riceverla mai, gli diede un cazzotto in faccia. Una lezione salutare. Da allora Cristiano ha cambiato atteggiamento ed è diventato Cristiano Ronaldo.
Dicevo che le Nazionali esprimono il carattere e lo spirito di un Paese. Noi italiani, fatte le debite eccezioni, siamo antisportivi e sleali. Lo abbiamo dimostrato nell’ultima guerra mondiale quando abbiamo tradito l’alleato passando dalla parte dei vincitori. Con quell’alleato non bisognava allearsi ma abbandonarlo in una lotta per la vita o per la morte è una cosa ripugnante. L’abbiamo dimostrato in Afghanistan dove abbiamo tradito gli alleati facendo patti con i Talebani. Lo abbiamo dimostrato adesso nella vicenda De Bruyne. Quando il centrocampista belga s’è fatto male, tutta l’equipe di Sky, a cominciare dall’insopportabile Caressa, ne ha gioito. Solo il simpatico Billy Costacurta, che è stato un grande giocatore e ha conservato il senso della lealtà sportiva, ha detto: “Beh, adesso non esageriamo, non mettiamoci a gufare”. Inoltre da parecchi giorni il nostro premier sta cercando, molto sportivamente, di spostare la finale degli Europei da Londra a Roma con la scusa della variante Delta e la speranza che l’Italia abbia un ulteriore vantaggio per vincere il torneo.
Stasera la partita Italia-Belgio, con o senza De Bruyne, ci dirà molte verità sul nostro calcio, su noi stessi e sul nostro futuro.
Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2021
Correva la metà degli anni Settanta. Una mattina Tommaso Giglio, il mitico direttore dell’Europeo, mi convocò nel suo ufficio. Giglio, ciociaro, aveva il viso di un Totò triste e perennemente corrucciato. Ma quella mattina la sua mascella era particolarmente contratta. “E allora” disse “adesso prendiamo una smentita ad ogni pezzo?”. Ero da cinque anni all’Europeo e quella era la prima smentita, querele non ne avevo avute mai.
Forse Giglio era eccessivo nel suo rigore, ma credo che al fondo avesse ragione. Per lui la credibilità del giornale era fondamentale. “L’ha scritto l’Europeo” doveva suonare come una sentenza della Cassazione. Per questo facevamo un giornale meno aggressivo dei concorrenti dell’Espresso, ma più attendibile.
Ma la di là dell’Europeo di quegli anni il rigore ha, o dovrebbe avere, un ruolo centrale nel nostro mestiere. Che è un mestiere delicato. Più che una professione come un’altra dovrebbe essere una vocazione, solo un gradino sotto quella del medico o del magistrato. Noi andiamo a ficcare il naso nelle vite, nei panni e a volte nei letti altrui. Possiamo rovinare la reputazione di una persona senza motivo. La cosa è aggravata da quel micidiale istituto che si chiama ‘avviso di garanzia’. Lo vollero qualche decennio fa le sinistre e con le migliori intenzioni: se un cittadino è indagato è giusto che lo sappia per potersi difendere. Solo che, com’è noto, l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Oggi basta essere raggiunti da un ‘avviso di garanzia’ per essere stritolati da quello che, non per nulla, si chiama il “tritacarne massmediatico”. Il principio, fondamentale in diritto, della presunzione di innocenza si trasforma di fatto in una “presunzione di colpevolezza” di cui non sono responsabili i magistrati, che applicano semplicemente la legge, ma i media, nel loro complesso, che sono lontanissimi da quel rigore predicato tanti anni fa da Tommaso Giglio. Ma qui si apre un altro discorso che non riguarda in particolare i giornalisti ma il nostro sistema giudiziario. L’abnorme lunghezza delle nostre procedure fa sì che la presunzione di innocenza si trasformi, in virtù della prescrizione, in una sostanziale impunità anche per soggetti di cui la Cassazione ha accertato la colpevolezza (Berlusconi docet). Il vero e irrisolto problema della Giustizia italiana è l’estenuante lunghezza delle sue procedure, sia nel penale che nel civile. Avere giustizia, quando ci si arriva, dopo vent’anni, non è rendere giustizia.
Ma queste sono questioni che riguardano il nostro sistema giudiziario in generale e non il rapporto in particolare fra i giornalisti e la legge penale per i reati di diffamazione. Si dibatte in questi giorni fra Consulta, Corte europea dei diritti dell’uomo e la corporazione dei giornalisti schierata a coorte in propria difesa, se sia giusto che il giornalista possa finire in carcere. Premettiamo che, a parte il caso di cui dirò, da che esiste la Repubblica nessun giornalista è mai andato in galera per un reato di diffamazione. Restiamo ai casi più recenti. Alessandro Sallusti, direttore all’epoca del Giornale, fu condannato all’arresto ai “domiciliari” (altra distinzione classista: ai “domiciliari” vengono mandati i vip di vario genere, per gli stracci va bene la galera, magari anche senza processo, “in galera subito e buttare via le chiavi” come affermò la “garantista” madama Santanchè) ma disse che preferiva fare il martire in gattabuia. Comunque fu immediatamente graziato dal Presidente della Repubblica, il vituperatissimo Giorgio Napolitano. Lino Jannuzzi, un diffamatore seriale, fu condannato ai “domiciliari” per la reiterazione del reato. Venne infine graziato da un altro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Siamo una casta privilegiata, inutile nasconderlo, ammanicata a quella politica che continuamente attacchiamo.
L’unico caso di un giornalista che abbia scontato per intero la condanna al carcere è quello di Giovannino Guareschi che, in un intricatissimo caso di politica internazionale (siamo nei primi anni ‘50), pubblicò, ritenendole in buona fede vere, due lettere apocrife di Alcide De Gasperi. Guareschi, coerente con se stesso come sempre, rinunciò all’appello e scontò 409 giorni di carcere.
Noi giornalisti, soprattutto quando facciamo i cronisti, possiamo sbagliare. A volte, diciamo così, legittimamente. Nei primi anni ’90 ebbi un insidioso processo per una querela intentatami dal trio Ligresti-Cutrera-Brenta, “la banda di viale Elvezia”, che stava saccheggiando l’edilizia milanese. Su tre punti il giudice mi assolse con formula piena perché fu accertato che avevo scritto il vero, su un quarto punto mi assolse perché “le circostanze erano tali che il giornalista poteva essere tratto legittimamente in inganno” (come si chiami tecnicamente questa formula assolutoria non ricordo, chiedete a Travaglio).
Ci sono altri casi invece in cui diffamiamo, senza nocciolo di verità, per colpa nostra, perché non abbiamo controllato a dovere le fonti. Se la diffamazione è di “eccezionale gravità”, come prevede la norma attuale che si vorrebbe riformare, non vedo per quale ragione mai al giornalista dovrebbe essere risparmiato il carcere. Il giornalista è un cittadino come tutti gli altri e deve essere sottoposto alla legge come tutti gli altri, soprattutto se vogliamo continuare a fare la morale all’universo mondo.
Due riforme invece vanno fatte, questa volta a favore del giornalista. Noi siamo investiti di continuo da querele palesemente inconsistenti. Sono le cosiddette querele “temerarie”, a volte per milioni di euro. Ma benché si tratti di querele fasulle ci costringono, per difenderci, a perdere denari in avvocati e soprattutto tempo. Chi querela dovrebbe fare un deposito cauzionale pari a un decimo della somma richiesta. Secondo Travaglio e altri se il querelante perde la causa perderebbe anche quella somma che dovrebbe essere data al giornalista o al suo giornale. Questo, secondo me, non è giusto perché impedirebbe al cittadino che chiamiamo comune, che quei soldi non li ha, di ricorrere in giudizio anche quando sa di aver ragione. Il deposito, e l’ovvio pagamento delle spese legali, sarebbero un deterrente sufficiente.
L’altra questione che ci riguarda da vicino è la famigerata “continenza”. Se definisco “ladro” un ladro, che è accertato esser tale, posso essere condannato per diffamazione se non ho usato termini “continenti”. Ora, se io passo col rosso so di aver commesso un’infrazione, se uccido una persona so di aver commesso un omicidio, ma quali siano i termini “continenti” è cosa vaghissima per cui chi scrive anche il vero è costretto a camminare sulle uova. Questa sì è una discrezionalità che dovrebbe essere tolta al giudice.
Quindi, in definitiva, sì al carcere del giornalista quando la legge lo prevede, no alla filastrocca delle querele farlocche che i berluscones, e tutti i berluscones della terra, possono permettersi perché loro i soldi li hanno e noi, se abbiamo fatto con onestà il nostro mestiere, no.
Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2021