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“Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.” Fabrizio De André

Le vicende del repentino collasso del governo di Ashraf Ghani ricordano da vicino quanto accadde durante “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”. Anche allora lo Zar non faceva che mandare truppe su truppe contro gli insorti, un pugno di uomini guidati daTrotskij e da Anton Ovseenko (Lenin se ne stava prudentemente nascosto, sotto una parrucca bionda, alla stazione di Finlandia). Ma le truppe dello Zar non arrivavano mai sul posto, si squagliavano prima. Così i 350.000 soldati dell’esercito di Ghani si sono arresi senza combattere, mentre i loro comandanti fuggivano. Era prevedibile che senza l’aiuto dei bombardieri americani l’esercito governativo non avrebbe retto all’urto dei Talebani, ma una presa così fulminea di Kabul è stata possibile perché i soldati arruolati dal governo non avevano alcuna voglia né motivazione per battersi.

Adesso le “anime belle” e democratiche occidentali paventano, o piuttosto si augurano per salvare la propria coscienza avendo sempre descritto i Talebani come ‘brutti, sporchi e cattivi’, chissà quali sfracelli e vendette in Afghanistan. In linea di massima non ci saranno né gli uni né le altre. I Talebani non infieriranno certamente sui soldati governativi perché sanno benissimo che si tratta di loro coetanei che, in un Afghanistan devastato economicamente e socialmente dall’occupazione occidentale, arruolarsi era uno dei pochi modi per avere un salario. Peraltro  l’ ‘Emirato islamico d’Afghanistan’ (così lo stato afghano è tornato ad avere il nome che gli aveva dato il Mullah Omar) ha già preannunciato un’amnistia generale , come aveva fatto nel 1996 Omar dopo aver sconfitto i “signori della guerra” che avevano fatto dell’Afghanistan terra di ogni genere di soprusi sulla povera gente. Nulla hanno da temere i civili sul cui sostegno i Talebani hanno potuto contare nella loro ventennale guerra di indipendenza. Nulla da temere, checché si strepiti, hanno le donne, almeno dal punto di vista di abusi fisici. I Talebani, proprio a causa della loro indubbia sessuofobia, non hanno mai toccato le donne come dimostra il trattamento più che corretto che hanno loro riservato quando le hanno avute prigioniere. I Talebani hanno assicurato che alle donne verranno garantiti il diritto allo studio e al lavoro, diritto che per la verità esisteva anche prima in linea di principio, ma non di fatto a causa delle convulsioni cui è stato sottoposto l’Afghanistan negli ultimi quarant’anni.

Resta la questione dei ‘collaborazionisti’, di coloro che , tradendo il proprio Paese  hanno lavorato per gli occupanti occidentali. Credo che i collaborazionisti di piccolo cabotaggio, interpreti e simili, verranno lasciati in pace. Per la corrottissima cricca di Ashraf Ghani, governo, governatori provinciali, alti gradi della Magistratura, l’unica soluzione possibile sia che l’ONU, se vuole avere ancora un ruolo positivo nella ‘questione afghana’ di cui si è sempre, colpevolmente disinteressata, fornisca un salvacondotto a costoro perché riparino negli Stati Uniti o in Iran che è sempre stato ostile alla rivoluzione talebana.

Ci sono poi due questioni particolari. E’ stato Massud, il leader dei Tagiki, ad aprire l’Afghanistan agli americani offrendo la collaborazione dei suoi uomini sul terreno. Gli americani non avrebbero mai potuto conquistare l’Afghanistan talebano solo con i bombardieri. Avevano assolutamente bisogno di un appoggio sul terreno e Massud, che non tollerava di essere stato sconfitto dai giovani e allora militarmente inesperti “studenti del Corano”, gliel’ha offerto. Ora sarà bene che i Tagiki non si oppongano ancora una volta alla vittoria talebana, come sembra emergere da una dichiarazione del figlio di Massud da poco tornato dalla Gran Bretagna. Se così dovesse essere sarà di nuovo guerra civile. In quanto a Dostum, che fino a qualche tempo fa aveva il ruolo di vicepresidente nel governo dell’Afghanistan, è stato protagonista di due tra i più efferati misfatti di una guerra pur crudelissima. <<A Mazar fece rinchiudere in dei container e portare nel deserto, sotto il sole, 1250 talebani. “Quando scaricavamo i corpi dai container erano diventati neri per il calore e la mancanza di ossigeno”. Racconterà uno dei carnefici.>>  (Il Mullah Omar, p. 44). Quando gli americani occuparono l’Afghanistan Dostum, allora loro alleato, fece parecchi prigionieri talebani costretti a vivere in una situazione talmente disumana che decisero di ribellarsi. Questa è la scena: << Dopo una quindicina di giorni i prigionieri decisero che tanto valeva morire e si ribellarono. Più che una rivolta fu un suicidio collettivo. I talebani, insieme a ceceni e turchi che li avevano raggiunti quando era iniziata l’invasione, si precipitavano a mani nude, urlando, sugli uzbeki di Dostum che gli svuotavano addosso le cartucciere dei Kalashnikov. Ma la furia dei prigionieri era tale che gli uzbeki non facevano in tempo a ricaricarli prima che quelli che venivano da dietro, scavalcando i morti, gli fossero sopra... Dei prigionieri ne rimasero in vita una ventina. Amnesty International chiese ufficialmente un’inchiesta, anche perché quando si poté fare un sopralluogo molti cadaveri vennero trovati con i polsi e i piedi legati. Erano prigionieri che non avevano partecipato alla rivolta. Altri erano stati mutilati. “Li abbiamo trattati in modo fraterno” dirà, ghignando, Dostum.>>  (Il Mullah Omar, p. 64). Bene, i Talebani non sono usi a torturare i prigionieri, alla moda di Guantanamo, ma non vorrei essere nei panni di Dostum se gli mettono le mani addosso prima che riesca a fuggire, come al solito, in Uzbekistan.

Ma una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela anche gli Stati, i governi occidentali e i loro media e giornalisti che hanno seguito la ventennale vicenda afghana senza mai sollevare non dico un flatus di protesta ma di dubbio su ciò che stavamo facendo. E poiché siamo in Italia, purtroppo per dirla con Gaber, tre anni fa, alla Versiliana  chiesi a Luigi Di Maio in procinto di diventare Ministro degli Esteri che cosa mai ci facessero 800 nostri militari in Afghanistan. Di Maio promise pubblicamente di impegnarsi. Lo abbiamo visto. Adesso preferisce strusciarsi alla famiglia Bisignani. In quanto al ministro della difesa Lorenzo Guerini disse che noi italiani non potevamo disimpegnarci dall’Afghanistan in quanto alleati Nato. E’ una menzogna. Gli olandesi, che fanno anch’essi parte della Nato e che in Afghanistan, a differenza nostra, si eran battuti bene, perdendo anche il figlio del loro comandante, lasciarono l’Afghanistan nell’agosto del 2010. E l’Emirato Islamico d’Afghanistan ringraziò il governo e il popolo olandese per quella decisione.

Ma una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela tutti gli italiani (oltre al Papa che non ha mai speso una parola su Afghanistan ) che non hanno mai alzato una voce né fatto una qualsivoglia manifestazione, a differenza di quanto avvenne per il Vietnam, per i misfatti che, noi complici, sono stati compiuti in Afghanistan. Una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela anche i lettori del Fatto, perché per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.

Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2021

 

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Lionel Messi ha lasciato il Barcellona per andare a giocare al Paris Saint-Germain. Chi si è allontanato dal mondo del calcio, giustamente perché è ormai diventato un groviglio economico e tecnologico insopportabile, ha criticato Messi perché avrebbe lasciato il Barça, dove era dall’età di 14 anni, per brama di denaro. Le cose non stanno così. Messi ha lasciato il Barça, dove ha percorso tutta la sua carriera e dove avrebbe voluto rimanere fino all’ultimo giorno, per una ragione che con il calcio giocato non ha nulla a che vedere e che si chiama “fair play economico”. Secondo il quale in nome del pareggio di bilancio la società catalana non avrebbe potuto permettersi Messi. La politica del Barcellona in questi anni è stata disastrosa. Ha acquistato per cifre enormi, totalmente fuori mercato, mezzi campioni tipo Neymar (poi fortunatamente riciclato proprio al Paris Saint-Germain dov’è altrettanto inutile come lo era al Barça). Ma anche quando era al massimo non riuscì ad accaparrarsi  nell’unico ruolo in cui non era forte,  quello di terzino destro, un giocatore all’altezza, dovendo così adattare in quella posizione Sergi Roberto che è un centrocampista. Sarebbe bastato un onesto Danilo D’Ambrosio, terzino dell’Inter. La stessa squadra nerazzurra è incappata nel fair play economico e ha dovuto cedere Lukaku al Chelsea. Lukaku era un peso per la nazionale belga perché accentrava troppo su di sé il gioco in una squadra che con Kevin De Bruyne e gli altri che gli giravano attorno aveva bisogno di un respiro diverso, nell’Inter era invece importante avendo trovato un’ottima intesa con Lautaro Martinez. Ma la proprietà cinese della società nerazzurra ha deciso che Lukaku era di troppo.

Spiace per Lionel Messi un fine carriera così mesto (a 34 anni non credo che nella squadra francese, di cui è proprietario un emiro del Qatar, zeppa di mezzi campioni sopravvalutati e boriosi, tant’è che spendendo una valanga di soldi il Paris non è riuscito mai a vincere la Champions, Messi possa combinare molto).

Lionel Messi non è solo un grandissimo campione è, secondo la definizione di Fabio Capello, il mister di tutti i mister, la cui parola nel calcio fa Cassazione, un “genio” insieme a Maradona e Pelé. Meritava quindi un ”addio alle armi” diverso.

Ma se andiamo a ben guardare Messi è stato grande soprattutto col Barcellona, avendo alle spalle Iniesta e Xavi. Col Barcellona ha vinto tutto, con l’Argentina pur potendo contare su un altro grande campione Angel Di Maria, “El Fideo”, si è dovuto accontentare di un secondo posto ai Campionati del mondo del 2014.

Del tutto diversa, anche se in parallelo, è la storia di Andrea Iniesta, “don Andrés”. Iniesta è stato un campione in campo e fuori. Quando era all’apice della carriera e tutti i più grandi club europei lo volevano, uscendo da un incontro con i dirigenti del Barça per il rinnovo del suo contratto disse: << Non devo essere moto bravo a trattare perché gli ho detto che, comunque vadano le cose, voglio finire la mia carriera al Barça>>. Iniesta è un tipo molto strano, modesto, che ha l’aspetto di un impiegatuccio anche un poco sofferente. I giocatori del Barça quando volevano prendersi in giro dicevano: << sei pallido come Iniesta>>. Ma in campo senza mai darsi arie da fenomeno lo era. Era chiamato “l’illusionista” perché quando aveva la palla fra i piedi la faceva sparire. Ma non era questa la sua dote principale, è che era capace di trovare nel groviglio dei difensori avversari quei trenta centimetri di spazio che mettevano il compagno solo davanti alla porta.

Ho assistito alla partita d’addio di Iniesta il 20 maggio 2018 contro il Villa Real. Mi trovavo per caso a Barcellona, il Camp Nou era zeppo all’inverosimile, non perché la partita col Villa Real contasse qualcosa ma perché era l’ultima partita di don Andrés. Ho trovato due posti per miracolo grazie a mio figlio che nella città catalana è di casa. L’allenatore del Barça, Valverde, fece uscire Iniesta a quindici minuti dalla fine per concedergli la standing ovation che durò per tutto il tempo in cui Iniesta, lentamente,  lasciò il campo di gioco. Tempo che l’arbitro non pensò nemmeno di dover recuperare perché non era la partita che contava ma l’addio di Iniesta.  La folla cantava “infinit Iniesta”. Fu un momento di grande commozione. Le telecamere dello stadio inquadravano Iniesta seduto in panchina. Era pallido come al solito, più del solito. Si capiva chiaramente che stava pensando ai 22 anni in cui era stato al Barça dove era entrato, come Messi, a 14 anni.

A proposito di addii mi piace ricordare quello di Ruud Van Nistelrooy al Madrid. <<Tutti i calciatori del Real, comprese le riserve, erano schierati a centrocampo in tenuta da gioco. Van Nistelrooy entrò in campo in abiti civili, si diresse verso quelli che erano diventati i suoi ex compagni. Tutti lo salutarono. Anche Cristiano Ronaldo, dimenticati gli antichi dissapori, alzo i pollici come per dire “good luck”. Ruud uscì senza tenere discorsi, non era il tipo. Ma alla fine della partita il pubblico del Bernabeu lo richiamò a gran voce. Non era ancora sazio. Voleva tributargli un’ultima standing ovation>>.

Passi d’addio per grandi campioni che lasciano in modo definitivo la carriera sono stati organizzati molte volte (mi pare per Baggio e Del Piero, fra gli altri) ma non era questo il caso di Van Nistelrooy che passava all’Amburgo e quindi a una potenziale avversaria in Champions. Oggi Van Nistelrooy, la mia passione di tutte le passioni dopo il Mullah Omar, è piuttosto dimenticato. Ma non si può dimenticare che Ruud è quarto in Champions per media fra partite giocate e gol segnati con lo 0,74, dopo Messi, Ronaldo e Robert Lewandowski che lo ha appena raggiunto. Ed è in Champions che si misura il vero valore di un attaccante. Motivo per cui tipi come Higuain, “il Pipita”, ma è solo un esempio, molto sopravvalutati hanno chiuso in modo assai modesto la loro carriera e la Juventus se n’è volentieri liberata. Mi piacerebbe anche che Capello si ricordasse ogni tanto di Van Nistelrooy che gli ha fatto vincere un campionato spagnolo col peggior Madrid di tutti i tempi, dove c’erano appena tre grandi giocatori, Ruud appunto, Sergio Ramos e il portiere Iker Casillas, non a caso soprannominato “san Iker”. Come centrocampista c’era Gago, figuriamoci. Oggi il centravanti che più somiglia a Van Nistelrooy è Robert Lewandowski, non solo perché è un grande cannoniere, 553 reti in 822 partite, media 0,67, ma perché, come Ruud, apre il gioco agli altri e ha la generosità di servire il compagno meglio piazzato (in antiquo Cristiano Ronaldo) anche quando potrebbe tirar lui.

Comunque, tornando all’addio di van Nistelrooy, ci piace ricordare ciò che scrisse il corrispondente da Madrid della Gazzetta dello Sport Filippo Maria Ricci: <<Gli ultras hanno inneggiato a lungo Van Nistelrooy che aveva salutato il Bernabeu prima dell’inizio e che torna fuori alla fine per rispondere alla chiamata dei tifosi. Per i nuovi eroi ci sarà tempo>>.

Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2021

I Talebani trionfano a Kabul. Che Allah ti abbia sempre in gloria Omar. Non so se scriverò ancora su Afghanistan. Il mio dovere l'ho fatto per 25 anni cercando di smascherare le fandonie, le menzogne e mezze verità, che sono ancor peggio, che i media occidentali hanno riversato sul movimento talebano. Adesso, nonostante la vergognosa sconfitta o forse proprio per essa, i soliti media cercano di dipingere i Talebani come "brutti, sporchi e cattivi" dimenticando chi in questa vicenda sono stati gli aggressori e chi gli aggrediti e soprattutto senza cercar minimamente di capire quali sono state, e quali sono, le ragioni del movimento talebano, ragioni che invece aveva ben inteso uno dei nostri soldati là impegnati, Matteo Miotto, a cui ho dedicato il mio libro Il Mullah Omar. E a questo libro, che è del 2011 ma in cui c'è già in nuce tutto quello che accadrà fino a oggi, rimando il lettore che voglia saperne di più. (m.f.)

 

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Se Marco Travaglio in un articolo del 6 agosto non avesse sollevato il caso di Renato Farina, in arte Betulla, arruolato, con 18.000 euri l’anno,  come “consulente giuridico” nello staff del ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, la cosa sarebbe rimasta del tutto inosservata. Del resto anche quando si venne a sapere che il Farina, che allora lavorava al Giornale, faceva due lavori, uno come giornalista, si fa per dire, e l’altro come informatore del Sismi, prendendo soldi dagli uni e dagli altri, ci fu chi lo difese perché in questo paese di corrotti e corruttori c’è sempre qualcuno più corrotto degli altri. Giuliano Ferrara, che a suo tempo era stato informatore della Cia, non si sa se pagato con denari sonanti o altro tipo di favoritismi, scrisse: <<Prende due stipendi? E che male c’è, fa due lavori>>. E’ come se un poliziotto prendesse uno stipendio dallo Stato e un altro se lo intascasse come refurtiva.

Mi ricordo che all’epoca di quei fatti Valeria Braghieri, che lavorava e ancora lavora al Giornale mi raccontò di aver trovato il Farina affranto, appoggiato a uno stipite, che piagnucolava: <<Sì, è vero, ho preso dei soldi dal Sismi, ma li ho dati in beneficenza>>. E’ tipico di questo genere di cattolici salvarsi la coscienza con i nostri soldi.

Ora il Farina si è dimesso. Ma il problema di fondo resta perché non riguarda questo povero straccio, ma il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta. Perché è stato lui che, con dispregio del pericolo, del ridicolo ma anche dei suoi concittadini, ha assunto un soggetto che era stato condannato a sei mesi (poi patteggiati) per  “favoreggiamento in sequestro di persona”. Quindi non è il Farina, che scappati ormai i buoi dalla stalla, doveva dimettersi,  ma semmai Renato Brunetta. E ci piacerebbe che su questa questione che non è affatto risolta con le dimissioni del Farina ci fosse almeno un’interpellanza dell’opposizione, in particolare di Giorgia Meloni a cui abbiamo sempre riconosciuto, nonostante noi la si pensi molto diversamente, un’autentica passione politica. Ma anche gli altri partiti, 5stelle, Pd, Leu, Lega e quei radicali che ai bei tempi di Marco Pannella erano molto attenti alla cosiddetta “questione morale”, non rimanessero indifferenti. Non ci possiamo appellare invece agli uomini di Forza Italia non solo perché Renato Brunetta è al centro della questione, ma perché a un partito che ha come leader un tale che ha avuto lo stomaco di truffare una minorenne orfana di entrambi i genitori non può interessare in alcun modo l’etica. Sia detto con buona pace del cattolico Renato Farina.

A sostegno del Farina è venuto in questi giorni Piero Sansonetti, uno che ha avuto un altro tipo di stomaco passando dall’Unità, quando i comunisti erano forti, al Riformista, oggi che a essere forti sono le cosiddette destre (chiedo scusa alla Destra). Ha scritto infatti il Sansonetti, paragonando i giornalisti del Fatto  alle squadracce fasciste: <<Gli squadristi facevano così. Andavano in sette otto, prendevano un avversario solo solo e lo bastonavano con ferocia>>. A parte che questo è un oltraggio agli autentici martiri dell’antifascismo, da Matteotti ai fratelli Rosselli, non mi pare che si possa definire “solo solo” un tale che è stato parlamentare per il Popolo della Libertà e che è ben incistato nel mondo berlusconiano che, fra le altre cose, gli ha permesso di fare un mestiere, quello del giornalista, per il quale non è per nulla tagliato.

Adesso il Farina, non sapendo dove altro appigliarsi, se la prende con me su Libero per un articolo che ho scritto sul Fatto a proposito degli “integralismi” Covid e MeToo. Lasciamo pur perdere che quel pezzo è in totale contrasto con la linea del Fatto, ma Marco Travaglio lo ha pubblicato ugualmente perché, a differenza del Farina, abituato a mettersi a bucopunzoni davanti a qualsivoglia potere purchessia, è un giornalista e un autentico “liberale montanelliano”, a Renato Farina non rispondo,  non perché la sua prosa sgangherata non possa essere confutata punto per punto, non per supercigliosità, ma perché col Farina ho avuto già a che fare. In un anno che non ricordo Vittorio Feltri, direttore allora di Libero, mi mandò a casa il Farina per una lunga intervista. Nelle intenzioni di Feltri era una gentilezza nei miei confronti. Purtroppo su due pagine solo le prime dieci righe, scritte peraltro in un italiano penoso, erano veritiere, per il resto erano domande inventate e risposte altrettanto inventate. Mi ricordo che, stupito, mandai un biglietto a Vittorio  che diceva pressappoco:  <<A tipi così, ai nostri tempi, si sarebbero affidati, e sarebbe stata ancora cara grazia, solo i “Taccuini”>>. E allora che credito posso mai dare al Farina che oltre tutto, molto cattolicamente, mi da già per defunto?

Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2021