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“Hey Freddy, tu bevi da morir, non pensi all'avvenir? (…) Sono Freddy dal whisky facile, son criticabile ma son fatto così. Non credete, non sono un debole, m'han fatto abile. E la guerra finì. Se c'è una cosa che mi fa tanto male è l'acqua minerale, miracolosa sarà, ma per piacere io non la posso bere (…) Non mi correggo, no, non mi tentate, altre persone si son provate, scusate tanto se ho il whisky facile”. (Whisky facile, Fred Buscaglione).

Buscaglione è morto il 3 febbraio del 1960 a quarant’anni, non di cirrosi, ma in un incidente stradale all'alba. Buscaglione ha portato nella canzone italiana un’ironia del tutto sconosciuta alla melensa musica leggera dei suoi tempi ma anche al cantautorato successivo (Paoli, Tenco, Bindi ed Endrigo, oggi il più potabile) certamente più pregevole ma lagnoso la sua parte (“un vecchio bambino che gioca con un pettirosso, un vecchio bambino in un giardino…” insopportabile, Gino Paoli). Iannacci e Gaber verranno dopo.

“Ehi, ehi ,ehi, le grido, piccola, dai, dai, dai, non far la stupida, sai, sai, sai, io son volubile, se non mi baci subito tu perdi una occasion” Che bambola! “Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, arrivato fresco fresco da Sing Sing. Io ho avuto da bambino Al Capone per padrino e mia madre mi allattava a whisky e gin (…) Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, deputato del distretto di Sing Sing (…) Sono il dritto di Chicago Sugar Bing, ho una villa riservata giù a Sing Sing” Il dritto di Chicago.

Il lettore dirà che da qualche tempo la pretendo a critico musicale. No, io rivivo semplicemente le sensazioni che certe canzoni mi diedero nei miei anni giovanili e comunque se Luzzato Fegiz è un critico musicale lo posso fare anch’io.

Non ho mai bevuto l’acqua minerale e detesto le bollicine, champagne compreso, tanto care alle ragazze convinte che facciano meno male di un buon rosso. In compenso ho bevuto whisky in termini di Lago di Garda. E il whisky non mi è mai piaciuto, ma giocando a poker, fra mille sigarette, era indispensabile. E poi vodka, Carlos Primero, il micidiale Alexander, tequila, gin.

Non credo di avere un fisico particolarmente robusto. Mio padre è morto a 61 anni, di infarto. Penso che la mia resistenza all’alcol derivi da mia madre che è russa (ebrea, lo dico a pro di quegli ebrei stronzi che mi danno dell’antisemita). E in Russia bere è una necessità. Fa troppo freddo. Ci provò per primo Trotskij a debellare l’alcolismo in Russia. Stroncò la rivolta dei marinai di Kronstadt, ma sull’alcolismo dovette alzare bandiera bianca. Settant’anni dopo ci riprovò Gorbaciov (distruggi un Impero e andrai a Sanremo). Ordinò che nei ristoranti non si servisse alcol prima delle due del pomeriggio. E prima delle due nei ristoranti non c’era nessuno. Ordinò che negli spacci la vodka (e gli altri liquori) fosse venduta solo fra le due e le quattro. Mezz’ora prima delle due si formavano file interminabili che si arrotolavano per interi isolati intorno ai brutti grattaceli di Mosca. Il primo che ce la faceva usciva con tre bottiglie di vodka, una se la teneva, le altre le dava agli amici in attesa e tutti andavano a sbronzarsi nel giardinetto più vicino.

I giovani di oggi, quando non si drogano, sono salutisti. Bevono in modica quantità, non fumano, spesso sono vegetariani, vegani, se hanno un dolorino al mignolo del piede si fiondano subito dal medico. Li conosco abbastanza bene perché ho un pubblico di giovani (se posso evito di frequentare i miei coetanei, mi ammosciano, perché mi rispecchio in loro e perché parlano solo di medicine, malattie, iniezioni). Se fossi giovane non mi farei tante turbe. Nel suo libro De senectute Norberto Bobbio, che in quel momento è ultraottantenne, nota che molto è dovuto al Caso e che per arrivare alla sua età bisogna dribblare mille ostacoli di cui neanche ci accorgiamo. Siamo alle solite: per evitare rischi ipotetici, e comunque imprevedibili, è sciocco rinunciare a vivere.

I vizi poi sono necessari, quasi un segno di equilibrio. In un uomo senza alcun vizio, soprattutto se ha le mani curatissime e le unghie perfettamente arrotondate si nasconde un potenziale serial killer.

Evvabbé, adesso ho 77 anni, un’età “spaventosa” come la chiama Grillo che pur ne ha alcuni meno di me. E sono ancora qua a scrivere cazzate. Molti miei coetanei e anche persone parecchio più giovani hanno già raggiunto l’Antologia di Spoon River, “dormono, dormono sulla collina”. E quasi ogni giorno cade qualcuno dei superstiti. Sembra di essere in una battaglia, ma senza nemmeno la battaglia.

Il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2021

 

"Non si può più nemmeno darsi ai vizi: li hanno tutti" (Il Ribelle dalla A alla Z).

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Domenica si è giocata la partita Napoli-Verona decisiva per la partecipazione alla Champions non solo della squadra partenopea ma anche, per uno straordinario intreccio di combinazioni, del Milan e persino della Juventus che dopo nove scudetti a fila rischiava addirittura di non entrare nelle prime quattro squadre del Campionato italiano (a dimostrazione che essere stato un grande giocatore, come Pirlo, non è una garanzia per essere un buon allenatore, del resto c’è il disastroso precedente di Van Basten e dubbi ci sono anche su Zidane molto contestato a Madrid).

Nella partita al Diego Maradona, bloccata sullo 0 a 0, il calciatore partenopeo Rrahmani, cosovaro, segna un gol importantissimo perché significa per il Napoli la partecipazione matematica alla Champions. Ma non esulta. Nel Verona ha giocato, molti dei calciatori veneti sono suoi amici, della città conserva un buon ricordo. Nel talk post-partita di Sky l’ineffabile Fabio Caressa commenta: “È intollerabile, inaccettabile. Il giocatore è pagato dal Napoli, un comportamento del genere è inammissibile”. Una squadra di calcio compra le qualità tecniche, tattiche, fisiche di un giocatore, non compra, né può, i suoi sentimenti, non compra le sue passioni, non compra la sua anima ("Ni se compra ni se vende el cariño verdadero" dice una canzone spagnola). Del resto l’esultanza o meno esce dal perimetro del campo di calcio ed entra in quello dei diritti costituzionalmente garantiti, cioè nella libertà di esprimere il proprio pensiero, la propria sensibilità, la propria personalità (art. 21). Il giocatore deve rendere per quanto è pagato. Il resto sono fatti suoi. Rrahmani ha segnato il gol? Si. E questo deve bastare.

Peraltro di moralisti viscidi alla Fabio Caressa (che più che di calcio si intende di regole del Var) il mondo del pallone è zeppo. Fabio Quagliarella, cresciuto nel vivaio granata, è un vero “cuore Toro”, ha portato la Primavera a due finali, poi ha giocato un pio d’anni in A. Ma era troppo forte e il Torino, squadra outsider per eccellenza che allora non aveva il becco di un quattrino, dovette cederlo. Girò varie squadre fra cui la Juventus e il Napoli di cui è originario (è nato a Castellamare di Stabia). Poi in finale di carriera torna alla “casa madre”, il Torino.  Proprio il primo anno in un Toro-Napoli ai granata viene assegnato un rigore. Tira ovviamente Quagliarella che dal dischetto è infallibile. Segna. Ma non esulta. Il Napoli è stata una delle sue squadre e poi lui di Napoli è. Apriti cielo. Gli scagliarono contro i tifosi (che pur di passioni dovrebbero saperne qualcosa), l’allenatore, la Società e il Presidente, quell’Urbano Cairo che vorrebbe fare il Berlusconi ma lui, che i quattrini li ha ma paga i collaboratori del Corriere 20 euro a pezzo, i migliori giocatori li vende: l’Inter gioca con i due terzini del Torino, D’Ambrosio e Darmian, Benassi, ex capitano dell’‘under 21’, l’ha dato alla Fiorentina, Immobile alla Lazio, se poi si tratta di giocatori di classe proprio non li tollera, Ljajić lo ha ceduto al Beşiktaş, di Iago Falque si è persa traccia, eppure erano i due soli a poter dialogare tecnicamente con Belotti che oggi è costretto a farsi tutto il campo per ricevere un pallone. Risultato dell’“operazione Quagliarella” che Caressa avrebbe volentieri deferito a qualche tribunale sportivo: Quaglia è passato alla Samp dove in una squadra modesta continua a segnare a grappoli, anche quest’anno è in “doppia cifra”, 13 gol, 2 soli su rigore, e peraltro a 38 anni, con 205 gol, è il più prolifico attaccante italiano in attività. Pur con caratteristiche fisiche diverse, meno robusto, è il nostro Robert Lewandoski. Una bella lezione per Caressa e tutti i Caressa che riconoscono solo la legge del denaro e si impipano dei sentimenti.

Nel bacchettonismo italiano è diventato normale che le società di calcio controllino la vita privata dei giocatori. E anche questa è una violazione, oltre che della privacy, della libertà personale. Se uno gioca male lo mandi in panca, in tribuna, lo escludi dalla rosa. Cosa fa fuori dal campo sono fatti suoi. Idem se gioca bene. Con questa mentalità da preti non ci sarebbe mai stato Maradona.

Per contratto gli allenatori e i giocatori devono prestarsi alle interviste di Sky nel dopopartita. Ne esce una melassa indigeribile. Uno ha segnato cinque gol? “È merito del gruppo”. La squadra ha preso cinque gol? “I ragazzi sono stati bravissimi, questa sconfitta sta nel nostro progetto di crescita” e altre banalità del genere (da qualche tempo nel mondo del pallone c’è un ossessivo parlar di “progetto”, ora secondo me il termine “progetto” si adatta più a un’azienda che a una squadra di calcio). Peraltro un allenatore non può dire che Caio ha giocato bene altrimenti il giorno dopo i media sportivi, che riescono a essere anche peggiori di quelli, diciamo così, normali, titolano che tutti gli altri hanno giocato male. È tutto un complimentarsi a vicenda. E a Sky Caressa si è anche lamentato che un giocatore, come domenica Cristiano Ronaldo, rilasci interviste a un altro network. Oltre che il monopolio del gioco vorrebbero avere anche quello delle opinioni. Però proprio domenica Jurić e Mihajlović hanno rotto quest’ammoina insopportabile. Jurić ha letteralmente mandato affanculo il suo intervistatore e Mihajlović ha detto che la sua squadra, il Bologna, era fatta di brocchi ed era già tanto che si fosse salvata. Ci volevano due balcanici per uscire dai soliti schemi.

Ma il problema di fondo è un altro e riguarda le “pay-per-view”. Il calcio è un grande sport nazionalpopolare come il ciclismo. È giusto, è equo, è sociale che le partite in tv le possano vedere solo quelli che hanno il denaro per pagarsele? Il ciclismo lo dà la Rai e lo possono vedere tutti, ma è uno sport povero che dal punto di vista economico interessa poco. Il calcio televisivo muove miliardi di euro e proprio questa sua abnorme enfiagione è all’origine del suo collasso prossimo venturo. Ma i Caressa e tutti i Caressa del mondo del pallone, e non solo, questo collasso che li travolgerà non lo vedono o non lo vogliono vedere. Deus dementat quos vult perdere. Io ho scritto Denaro. Sterco del demonio, Papa Francesco, che ha un po’ più autorità di me, ha detto che oggi esistono solo due Iddii: il Dio del sacro, che è in caduta verticale, e, sono parole sue, “il Dio Denaro”.

Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2021

 

"Date e vi sarà tolto" (Il Ribelle dalla A alla Z).

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Flamenco. “Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna terra di matador e di grandi toreri / Ormai anche laggiù nella caliente Spagna non si ballano più passi doppi o boleri ora ballano il flamenco roack, ora ballano il flamenco roack / Espagna, paradiso di sogni e di donne ardenti d'amore, hai tradito anche tu le più belle canzoni del cuore per il frenetico roack / Alle cinque della sera non c'è il toro nell'arena, alle cinque della sera sono a letto i matador, alle cinque della sera non si vede una mantilla sui bastioni di Siviglia fanno il roack, sì fanno il roack / Espagna, anche tu hai un disco dei Platters in tutte le case dove ballano a ritmo sfrenato le belle andaluse con il frenetico roack / Alle cinque della sera i ragazzi di Granada, alle cinque della sera vanno in giro coi bluejeans, alle cinque della sera i jukebox a voce piena a Madrid e a Barcellona fanno il roack, sì fanno il roack / Mi piacerebbe tanto visitar la Spagna e ballare con te questo flamenco roack.” (Flamenco Rock, Milva).

La canzone è del 1961. Mi colpisce e mi commuove l’ingenuità, la naivitè, la semplicità di Milva che è poi quella della generazione pre-boom e della mia di pochi anni successiva. Milva era allora “la pantera di Goro” in contrapposizione alla “tigre di Cremona”, Mina. Ed era rimasta ancora “la pantera di Goro” una decina di anni dopo quando andai a intervistarla dalle sue parti, mi pare per Amica. Mi fece l’impressione di una domestica in libera uscita. Mi sbagliavo. Si affinò con Strehler e, senza lasciare la musica, divenne un’attrice di teatro di livello internazionale. Per un certo periodo si trasferì in Germania. Mi ricordo una sua intervista in cui diceva di preferire il mondo e il rigore tedesco alla emergente sciatteria italiana, anche se poi è in Italia che è venuta a morire un mese fa senza che la stampa le facesse quell’omaggio che le era dovuto.

Il rock che già furoreggiava negli States almeno dalla metà degli anni Cinquanta, con Jerry Lee Lewis, Little Richard, “Elvis the pelvis”, era approdato in Italia da pochissimo, tanto che Milva lo pronuncia male, “roack”. Musica di rottura, anche se negli anni diventerà la più consumistica, era scandalosa soprattutto per la destra, ma non solo. Mi ricordo un titolo preoccupato de La Nottedi pochissimi anni prima “Ma arriverà anche da noi?”. Per diventare accettabile il rock aveva avuto bisognodell’intermediazione della musica meno aggressiva dei Platters(“Only you”) e di Paul Anka (“Diana” un successo mondiale, 9 milioni di copie e molte bimbe furono battezzate proprio con quel nome, fra le quali anche la sfortunata moglie del principe Carlo). Eppoi allora c’era di mezzo l’Oceano. La globalizzazione era di là da venire.

“Vorrei tanto visitar la Spagna”. La Spagna appariva come una terra esotica e lontana. Oggi la Spagna è a un’ora e mezza di volo che costa, a seconda delle circostanze, dai 29 a un massimo di 200 euro. Oggi non si possono più avere le ingenue curiosità della “pantera di Goro”, la globalizzazione ha omologato tutto: igrattaceli di Manhattan valgono quelli di Abu Dhabi o della Milano degli ultimi anni. La possibilità dei viaggi invece di aver allargato il mondo lo ha ristretto. Per la verità l’Italia resta ancora un po’ speciale. Lucca e Pisa, che distano una ventina di chilometri, non sono la stessa cosa a causa di quel monte per cui, come dice Dante, “i Pisan veder Lucca non ponno”. E anche se quel monte è oggi attraversato da un tunnel Pisa e Lucca restano molto diverse. Più tosca, più sanguigna, Pisa, più delicata, malinconica, quasi umbra Lucca. E queste diversità, nel temperamento, nel modo di vivere, nei dialetti, sono rimaste in molte altre città italiane pur fra loro vicinissime: Ferrara non è Verona, Verona non è Vicenza, Vicenza non è Padova, per non parlare di Venezia che fa storia a sé. Questa è la vera ricchezza italiana. Ma a lungo andare l’omologazione portata dalla televisione, da internet, dai social network, spazzerà via tutto questo.

Inoltre la società globale è troppo complessa (e anche pericolosa, come il Covid ci dovrebbe aver insegnato). Per me l’IBAN con i suoi 27 caratteri e quei quattro 0 che ti confondono gli occhi è un obiezione sufficiente alla società contemporanea.

Chi mi conosce, chi mi segue, chi mi legge sa che io sono un antimoderno, che considero questi i veri “secoli bui” e non quelli demonizzati dall’Illuminismo trionfante. Ma so anche che tornare al Medioevo è impossibile. Sono un reazionario, è vero, ma per il “qui e ora”  resto un socialista libertario perché coniugare una ragionevole eguaglianza sociale e le libertà civili mi sembra ancora, nella Modernità, l’idea più bella.

Mi accontenterei di tornare a un mondo in fondo non lontanissimo, più semplice, più ingenuo, meno frenetico e di poter ballare un “flamenco roack”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2021