Il progetto di legge sulla “improcedibilità” dei processi prospettato dal ministro della Giustizia Marta Cartabia, una costituzionalista con tutte le carte in regola ma stretta tra le esigenze contrastanti dei partiti, quelli (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) che vogliono rendere di fatto non perseguibili i reati di corruzione, e gli altri (5stelle, Leu e nel suo modo tremebondo anche il Pd), somiglia molto da vicino al “calmiere del pane” di manzoniana memoria. Nella prima metà del Seicento poiché il pane scarseggiava il suo prezzo salì alle stelle. Le autorità spagnole pensarono allora di imporre per decreto un prezzo ufficiale del pane molto più basso di quello di mercato. Risultato: anche quel poco pane sparì dalla circolazione, si comprava a prezzi ancora più alti al mercato nero oppure causava rivolte popolari di cui, nel romanzo del Manzoni, è protagonista anche Renzo Tramaglino.
Ora imporre per legge che se fra la sentenza di primo grado e la decisione d’Appello passano più di due anni o fra la sentenza d’appello e quella di Cassazione non possono passare più di 18 mesi, ha lo stesso senso. Infatti, data la lunghezza delle nostre procedure, è pressoché impossibile rispettare questi tempi. Quindi sarà facilissimo per gli imputati, soprattutto per quelli che dispongono di un robusto collegio di difesa, arrivare alla “improcedibilità”, cioè al fatto che i reati che hanno commesso non sono più perseguibili. La precedente legge Bonafede che annullava i tempi della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado scontava anch’essa i tempi lunghi, abnormi del nostro processo, però prima o poi a una sentenza si sarebbe arrivati e l’imputato, se colpevole, sarebbe stato punito e le vittime risarcite. Con la legge Cartabia tutto finisce in cavalleria, gli imputati, colpevoli o innocenti che siano, non possono essere più giudicati e le eventuali vittime dei loro reati non possono essere più risarcite.
Per ritornare all’immagine del “calmiere del pane” è inutile, e in questo caso per nulla innocente, decretare per legge l’impossibile.
Qual è allora il vero problema della giustizia italiana? Con tutta evidenza i suoi tempi abnormi. E’ un tasto su cui batto da quando, come cronista giudiziario, faccio il giornalista, diciamo, ahimè da cinquant’anni. Si tratta quindi di semplificare le procedure. Purtroppo il retaggio storico non ci aiuta. Mentre il diritto anglosassone prende da quello romano, un diritto pratico, diciamo così contadino, che sacrifica l’assoluta certezza del giudizio alla velocità, noi abbiamo ereditato invece il diritto bizantino che con la pretesa di arrivare a una certezza assoluta prevede una serie di ricorsi e controricorsi, misure e contromisure, pesi e contrappesi, che finiscono per fallire l’obiettivo. Perché a distanza di anni i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite o addirittura illeggibili.
Su questa base già compromessa si sono aggiunte negli ultimi trent’anni, in era cioè berlusconiana, leggi cosiddette “garantiste” che appesantiscono ulteriormente l’iter del processo. In realtà si tratta di un “garantismo” peloso perché danneggia proprio l’imputato innocente. Qual è l’interesse dell’imputato innocente? Quello di essere giudicato il prima possibile. Qual è quello del colpevole? Di essere giudicato il più tardi possibile o, meglio ancora, mai. E’ la storia di Berlusconi e di tutti i ‘berluscones’, cioè dei corruttori e dei corrotti degli ultimi decenni.
Sveltire le procedure non è facile ma è possibile. Siamo, credo, l’unico Paese al mondo ad avere tre gradi di giudizio: primo grado, appello, Cassazione. Ora i primi due gradi si occupano del merito della causa, la Cassazione dovrebbe limitarsi a controllare che tutto si sia svolto secondo le regole. Senonché la Cassazione, col grimaldello che il dispositivo deve essere coerente con le motivazioni, si è trasformata a sua volta in un giudizio di merito. Quindi infinite sono le volte in cui la Cassazione rinvia il processo alla Corte d’appello che deve riesaminare tutto ripartendo da capo. E non è finita qui perché rinviando il suo secondo giudizio alla Cassazione questa può di nuovo bocciarglielo, rimandarglielo, innescando una procedura che non ha mai fine e che porta inevitabilmente alla prescrizione dei reati, senza che si sappia se l’imputato è innocente o colpevole e senza che le vittime, se tali sono, abbiamo il risarcimento che è loro dovuto.
Questa è la prima stortura che potrebbe essere facilmente eliminata riportando la Cassazione ai suoi compiti formali. Il secondo intervento che si potrebbe fare riguarda la cosiddetta “reformatio in peius”. Attualmente se uno ricorre contro una sentenza di primo grado, il giudice d’Appello non può infliggergli una pena superiore a quella che gli è stata comminata in primo grado. E’ chiaro che in questo modo tutti hanno interesse a fare appello, tanto peggio di come gli è andata non gli può andare, intasando così ulteriormente i Tribunali.
La lunghezza del processo penale italiano ha poi altre ricadute pesantissime. Sulla detenzione preventiva. Se le istruttorie durano all’infinito l’imputato che è stato incarcerato può rimanere anni in gattabuia (non è necessario ricorrere al clamoroso ‘caso Naria’, un presunto terrorista rosso che rimase in carcere nove anni per essere poi riconosciuto innocente), ci sono altri infiniti casi del genere (ricordiamo per tutti la vicenda Valpreda rimasto in carcere quattro anni prima di arrivare a un processo che lo dichiarò innocente). In Gran Bretagna, che dista da noi un’ora e mezza di volo, la detenzione preventiva dell’indagato, di cui peraltro non può essere fatto nemmeno il nome se non “come persona informata dei fatti”, non può durare più di ventotto o trentadue giorni, a seconda della diversa composizione del Giurì cioè della gravità del reato. Immediatamente dopo segue il dibattimento. Se l’indagato risulterà innocente il suo sarà stato uno spiacevole incidente di percorso ma non la distruzione di una vita come avviene quando la detenzione preventiva dura anni.
Il problema si interseca anche con la libertà di stampa. In Italia basta un avviso di garanzia per innescare quello che si chiama “il tritacarne massmediatico”. La sacrosanta presunzione di innocenza si capovolge, di fatto, in una “presunzione di colpevolezza”. Nel vecchio codice di Alfredo Rocco, che sarà stato anche un fascista ma era un giurista di prim’ordine, le istruttorie erano segrete, perché nella fase delicata delle indagini preliminari in cui la polizia giudiziaria e i Pm vanno a tentoni possono rimanere impigliate persone che nulla hanno a che fare con il reato. Attraverso il vaglio del Gip, il giudice delle indagini preliminari, arriveranno al dibattimento solo gli elementi che sono realmente utili al processo. Insomma in uno stato democratico le istruttorie sono segrete, il dibattimento è pubblico. In uno totalitario anche il dibattimento è segreto. Ma se le istruttorie durano anni come da noi chiedere alla stampa il silenzio vuol dire di fatto metterle la mordacchia.
E’ quindi sulla devastante lunghezza delle nostre procedure penali e civili che bisognerebbe insistere, più che sulla composizione del Csm o le correnti dei magistrati, che sono problemi certamente importanti ma di secondo grado rispetto al primo. Ma non lo si farà mai per ragioni che con la Giustizia non hanno nulla a che vedere. E mi pare patetico il tentativo di Marco Travaglio, che in questo come in tanti altri casi, cerca di riportare la logica in un Paese in cui la logica, diciamo il principio aristotelico di non contraddizione su cui è basato, tra l’altro, quel computer di cui facciamo quotidianamente uso, è completamente saltata.
In Italia ci sarebbero così tante cose da fare, che ormai non c’è più nulla da fare.
Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2021
“Nel mondo oggi più di ieri domina l'ingiustizia” (Don Chisciotte, Francesco Guccini)
Pubblico la lunga intervista che mi è stata chiesta dalla rivista "controculturale" francese Rébellion. Evidentemente all'estero mi si considera un po' più che in Italia. Non c'è solo Rébellion, ovviamente, non ricordo se il New York Times o il New Yorker, andando un po' oltre il segno, mi ha definito uno dei pochi filosofi italiani contemporanei. Nemo profeta in patria, come si suol dire. (m.f.)
Rébellion, 15 Luglio 2021
Intervista disponibile qui in francese, qui in italiano, qui in tedesco.
D’ora in poi scriverò solo per Der Spiegel, in italiano naturalmente, e per il Novel Observateur (col francese me la cavo un po’ meglio) visto che da quelle parti ritengono che ciò che scrivo abbia un senso. (m.f.)
Il generale americano Austin Miller, comandante della missione in Afghanistan, ha affermato che prepara raid aerei se i Talebani non fermeranno la loro offensiva. Ma come? Gli americani non hanno appena firmato a Doha un accordo con i Talebani in cui si impegnano a por fine a una belligeranza che dura da più di vent’anni? Ma che fine della belligeranza è mai se una parte decide sì di abbandonare fisicamente, con i propri uomini, l’Afghanistan, ma poi continua a bombardare il nemico dalle sue basi in Pakistan o magari dal Nevada? Che valore possono avere, non solo per i Talebani che sono i diretti interessati, ma per chiunque, gli impegni, le parole, l’onore degli americani?
Intanto americani e turchi stanno discutendo fra di loro su chi debba gestire l’aeroporto di Kabul. E questo senza consultare non dico i Talebani ma quello che gli stessi americani ritengono il governo legittimo dell’Afghanistan, quello di Ashraf Ghani. Cioè non rispettano nemmeno quello che loro stessi hanno deciso. A questo punto non si riesce più nemmeno a trovare le parole per descrivere una situazione che viola non solo ogni norma di diritto internazionale, ma la correttezza più elementare, il rapporto di fiducia più elementare, la morale più elementare.
Sono almeno vent’anni che i governi americani, democratici o repubblicani che siano, violano costantemente quello che dovrebbe essere il diritto internazionale: l’aggressione alla Serbia del 1999, quella all’Iraq del 2003, quella alla Libia del 2011 sono state condotte non solo senza l’approvazione dell’Onu ma contro la sua volontà. A questo punto ci si chiede cosa conti l’Onu. Con tutta evidenza: niente.
In tutto questo aggiungiamo, per sola misura di contorno, che la stampa italiana riesce a essere più serva di qualsiasi servo. Sul Corriere della Sera la collega Marta Serafini ci fa un lacrimevole ritratto dell’Afghanistan in questi vent’anni di guerra: civili uccisi, bimbi uccisi, donne uccise. Si dimentica però di dire chi ha causato queste vittime. Non certo i Talebani. Per due motivi. Uno formale, l’altro sostanziale. Nel Libretto Azzurro, naturalmente irriso in Occidente, il Mullah Omar dettava precise indicazioni ai suoi comandanti militari: “Il sacrificio dei valorosi figli dell’Islam è lecito soltanto se il bersaglio è importante, vale a dire solo per obiettivi militari e politici cha abbiano una certa rilevanza, col massimo impegno per scongiurare vittime civili”. E il Mullah Omar aveva il prestigio sufficiente per imporsi, ammesso ce ne fosse stato bisogno, ai suoi combattenti che rispettarono puntualmente quelle consegne. Motivo sostanziale, come ho scritto e ripetuto alcune centinaia di volte, è che i Talebani non avevano alcun interesse a inimicarsi la popolazione civile sul cui sostegno hanno potuto condurre, in totale inferiorità per mezzi tecnici, una vittoriosa guerra di indipendenza ventennale. Per quanto possa sembrar strano ad orecchie occidentali, bombardate dagli articoli della Serafini e di tutte le Serafini, il Mullah Omar era un uomo etico, di principi, come dimostra, in modo inequivocabile e non contestabile, il trattamento che i Talebani han sempre riservato ai loro prigionieri, considerandoli correttamente prigionieri di guerra e non trattandoli alla Guantanamo. Lasciamo anche perdere, per carità di patria, la consueta confusione che si fa, volutamente o per ignoranza, fra Talebani e Isis.
Il destino del governo “regolare” di Ashraf Ghani è segnato. I soldati regolari accettarono a suo tempo l’ingaggio per avere, in una Kabul che aveva raggiunto la dimensione mostruosa di cinque milioni di abitanti e dove era stato distrutto anche l’artigianato locale, un salario purchessia, ma adesso disertano: o si uniscono ai Talebani o si rifugiano, cercando protezione, presso i rispettivi clan.
Il generale Miller si dice preoccupato che l’Afghanistan sia sconvolto da una guerra civile che veda contrapposti pashtun, tagichi, uzbechi. Questo è possibile. Peccato che nella loro travolgente avanzata fra il 1994 e il 1996 , i Talebani, in maggioranza pashtun, avessero sconfitto i leggendari “signori della guerra”, Dostum, Heckmatyar, Ismail Khan, che si erano messi a capo delle rispettive etnie per pure ragioni di potere personale, riportando per sei anni l’ordine, la pace e la legge in quel Paese (in Uzbekistan fu ricacciato Dostum, che attualmente è vicepresidente del governo afghano, un tale pendaglio da forca che gli stessi americani gli hanno negato il visto per gli Stati Uniti, Heckmatyar e Ismail Khan si rifugiarono nell’Iran sciita, in quanto a Massud, che aveva tradito il suo Paese chiedendo l’aiuto americano, s’è fatto fuori da solo perché i servizi segreti USA, ritenendolo troppo ingombrante, lo avevano a suo tempo eliminato).
Sì, è possibile che in Afghanistan ritorni la guerra civile che si era scatenata, fra il 1990 e il 1996, dopo il ritiro degli invasori sovietici e a cui l’avvento dei Talebani aveva posto fine. In questo caso avremmo fatto tornare indietro l’orologio della storia afghana di trent’anni. Complimenti.
Il Fatto Quotidiano, 14 Luglio 2021
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