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Restituisco la versione integrale del pezzo su Afghanistan pubblicato dal Fatto il 15 giugno che ha dovuto essere tagliato necessariamente per l’eccessiva lunghezza.

Devo dire che da quando seguo la vicenda afghana, cioè dal 1979, anno dell’invasione sovietica, non ho mai letto, a meno che non riguardassero le nefandezze dei russi, una sola parola di verità su quella vicenda o solo delle mezze verità che sono peggio di una menzogna. Anche in questi giorni, dopo il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, le televisioni e le radio italiane hanno intervistato tutti, ma proprio tutti, anche commentatori e giornalisti che a malapena sapevano dove si trova l’Afghanistan, ma per quel che mi riguarda mi hanno ignorato. Eppure da anni scrivevo che l’aggressione all’Afghanistan, oltre a causare tutti i tragici drammi che ha causato, sarebbe finita nella più ingloriosa delle sconfitte. Ed è proprio per questo che sono stato ignorato se non da emittenti web molto marginali.

E, a parte l’Afghanistan, devo dire che quasi tutta l’informazione italiana, salvo rare eccezioni come il Fatto pur con le sue faziosità, è fatta in questo modo.

m.f.

 

Nell’“addio alle armi” degli eserciti occidentali in Afghanistan i media italiani ma anche i nostri Comandi militari hanno dato il meglio di sé. Ma mentre i Comandi avevano almeno l’attenuante di dover in qualche modo giustificare un’operazione sciagurata, devastante e in definitiva criminale, durata oltre vent’anni e finita nella più disonorevole delle sconfitte, quest’obbligo la libera stampa, se fosse tale, non l’aveva.

È stata fatta un’incredibile confusione, non si capisce se volontaria o per ignoranza, ma in questo secondo caso sarebbe ancora peggio, fra Talebani, Al Qaeda, Isis. I Talebani con Al Qaeda, Bin Laden e gli attentati alle Torri Gemelle non avevano e non hanno nulla a che fare. Bin Laden i Talebani se lo sono trovati in casa quando il Mullah Omar, nel 1996, prese il potere. Ce lo aveva portato, dal Sudan, il nobile Massud, molto appoggiato dalla stampa occidentale come se in Tagikistan la condizione della donna fosse diversa da quella che c’era nell’Emirato islamico d’Afghanistan (il nome dato dal Mullah Omar al suo Stato), perché lo aiutasse a combattere un altro “signore della guerra”, Gulbuddin Hekmatyar. Il Mullah Omar non aveva nessuna considerazione di Bin Laden, lo definiva un “piccolo uomo”, ma doveva tener conto che il Califfo saudita, con le sue ricchezze personali, aveva contribuito a costruire strade, ponti, case, cioè quello che avremmo dovuto fare noi, e godeva di un certo prestigio fra la popolazione. Ma quando Bill Clinton gli propose di far fuori Bin Laden, Omar si disse favorevole e mandò il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, a Washington per trattare la cosa, che gli interessava perché gli americani nel tentativo di colpire Bin Laden stavano bombardando a tappeto la regione di Khost senza raggiungere l’obiettivo ma uccidendo centinaia di civili afghani. Ci furono due incontri a Washington nell’inverno del 1998. Attraverso Muttawakil il Mullah Omar fece due proposte: o sarebbero stati i talebani a dare al Pentagono la posizione esatta in cui si trovava Bin Laden o gli americani avrebbero fornito i missili necessari ai Talebani per a sbrigare la faccenda. Ma pose una condizione: in un caso o nell’altro l’omicidio di Osama dovevano attribuirselo gli americani senza coinvolgere il governo talebano. Alla fine Clinton, che pur era stato il latore della proposta, si tirò indietro e non si è mai saputo il perché. Questi sono documenti del Dipartimento di Stato Usa dell’agosto 2005. Ora, i colleghi hanno tutto il diritto di ignorare quello che scrivo io, che posso essere invitato dall’Università di Kyoto per tenere una conferenza su “Americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell’Europa”, ma non da Lilly Gruber, però documenti ufficiali di questa importanza avrebbero almeno il dovere di leggerli. Comunque è stato chiarito in modo definitivo che la dirigenza afghana, cioè talebana, dell’epoca, era del tutto all’oscuro degli attentati dell’11 settembre. E il Washington Post e il New York Times, meno servili verso il governo americano dei media italiani, hanno denunciato che l’attacco all’Afghanistan era stato progettato sei mesi prima dell’11 settembre per prendere in quel paese il posto che era stato dell’Unione Sovietica.

Perché il Mullah Omar non consegnò Bin Laden agli Stati Uniti che lo avevano richiesto? Omar chiese agli americani di fornire delle prove o quantomeno degli indizi consistenti che Osama era effettivamente alle spalle degli attentati dell’11 settembre. Gli americani risposero arrogantemente: “le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. Il Mullah replicò che a quelle condizioni non poteva consegnare un uomo che era comunque sul suo territorio. Come avrebbe fatto qualsiasi altro capo di stato. In realtà come non avrebbe fatto qualsiasi altro capo di stato perché nessuno avrebbe avuto il coraggio di giocarsi il potere e la vita per una questione di principio. Ma il Mullah Omar, qualsiasi cosa si voglia pensare di lui, era un uomo di principi come ha dimostrato in tutta la sua vita.

Ancora più grottesca è la confusione fra Talebani e Isis. C’è una ‘lettera aperta’, e quindi da tutti verificabile, del 2015 del Mullah Omar diretta ad Al Baghdadi in cui gli intima di non tentare di penetrare in Afghanistan perché, dice, la nostra è una guerra di indipendenza che non ha nulla a che fare con i tuoi deliri geopolitici. E aggiunge “tu stai dividendo pericolosamente il mondo musulmano”. Il che vuol dire che il Mullah Omar, pashtun e sunnita, come quasi tutti i suoi seguaci, non vedeva di buon occhio la storica divisione fra sunniti e sciiti e non per nulla durante i sei anni del suo governo la consistente minoranza sciita in Afghanistan non fu minimamente toccata. Nell’Afghanistan del Mullah Omar tutti erano uguali davanti alla legge, sia pur la dura legge della Sharia. Comunque sia gli unici a combattere l’Isis in Afghanistan sono stati proprio i Talebani. E se finora non sono riusciti a sconfiggere i guerriglieri dello Stato Islamico è perché contemporaneamente dovevano tener testa agli occupanti e all’esercito “regolare” del quisling Ashraf Ghani. Sbarazzatisi dei primi e fra non molto anche del secondo si sbarazzeranno anche dell’Isis.

Non è del tutto vero che nell’Afghanistan talebano le donne non avessero il diritto di studiare, tasto su cui si batte ossessivamente in Occidente. Le cose stanno in modo un po’ diverso. In un decreto talebano è scritto: “nel caso sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali (…)”. Il fatto è che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, non volevano solo che fossero divise le aule fra ragazzi e ragazze (come del resto era anche da noi negli anni Sessanta, dove le classi miste erano rare) ma che gli edifici che ospitavano gli uni e le altre fossero separati e ben lontani fra di loro. Ma, impegnati da Massud che non accettava la sconfitta (cosa che è all’origine della sua tragica, e direi anche vile, decisione di appoggiare l’invasione americana) non ebbero il tempo di costruirli. Avevano altre priorità. Si può anche capirli.

È ancora più falso che i Talebani fossero appoggiati militarmente dal Pakistan o quantomeno dai suoi servizi segreti, l’ISI. Il Pakistan, fra l’altro alleato degli stati Uniti, si limitò ad un aiuto diplomatico riconoscendo l’Emirato islamico d’Afghanistan e, all’inizio, a ricostruire la rete radiofonica distrutta dai Sovietici. Peraltro il più devastante attacco militare alle popolazioni tribali, afghane e pakistane, che vivono nella valle di Swat fu condotto dall’esercito pakistano, teleguidato dal generale David Petraeus. Due milioni di profughi, in due giorni (il Corriere della Sera titolò “Un milione in fuga dai Talebani”, invece erano in fuga dall’esercito pakistano). Se i Talebani avessero avuto l’appoggio dell’ISI sarebbero stati in possesso di missili terra-aria Stinger che convinsero i Sovietici ad abbandonare il campo (“Quando vedemmo che cominciavano a cadere gli elicotteri e gli aerei decidemmo di abbandonare l’Afghanistan”).

Parlando a RadioTre Gianni Riotta ha definito positiva l’operazione occidentale in Afghanistan. L’occupazione occidentale dell’Afghanistan è stata ancor più devastante di quella sovietica. I sovietici hanno fatto grandi danni materiali, ma non si erano messi in testa, a differenza di quanto abbiamo fatto noi, di corrompere gli afghani a suon di dollari per portarli dalla nostra parte. Quando non era diventato ancora presidente dell’Afghanistan, al posto dell’indifendibile Karzai, Ashfar Ghani, medico che ha fatto il dottorato alla Columbia University, che ha insegnato per otto anni a Berkeley e alla Johns Hopkins, che è stato funzionario della Banca Mondiale, e quindi non sospettabile di simpatie talebane, disse: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l’integrità, la fiducia l’uno nell’altro”. Riotta ha anche affermato che la nostra occupazione è stata determinante per la ricostruzione dell’Afghanistan. Se proprio non vuol leggersi l’ultimo capitolo del mio libro Il Mullah Omar (tra l’altro, curiosamente, il solo libro italiano, in vent’anni, sulla questione afghana) intitolato Come si distrugge un Paese, si vada a leggere per lo meno Caos Asia (2008) dello scrittore pakistano Ahmed Rashid, il maggior esperto delle questioni dell’Asia centrale. Riotta punta il dito sul fatto che l’Afghanistan è oggi il maggior esportatore mondiale di stupefacenti. Vero. Ma si dimentica di ricordare che fu proprio il Mullah Omar a proibire nel 2000/01 la coltivazione del papavero e a stroncare così il commercio dell’oppio, che cadde quasi a zero, cosa che non è mai riuscita a nessuno né in Afghanistan né altrove.

In Afghanistan noi italiani ci siamo comportati da alleati fedeli come cani degli Stati Uniti, seguendoli sino alla fine, ma allo stesso tempo, come sempre, sleali. Fin dall’inizio abbiamo fatto questo accordo con i comandanti talebani: loro non ci avrebbero attaccato e noi avremmo solo fatto finta di controllare il territorio (e questo spiega il numero relativamente basso di morti, solo 31 in combattimento, rispetto agli altri contingenti). Il nostro ministro della difesa Guerini ha affermato che era nostro dovere di alleati Nato stare con gli americani fino alla fine. Anche questo è un falso: gli olandesi, che pur si erano battuti bene, hanno lasciato l’Afghanistan nel 2010 senza che questo avesse minimamente ripercussioni sull’alleanza atlantica. All’epoca l’Emirato ringraziò il governo e il popolo olandese per questa decisione. L’accordo con i Talebani si fece quasi da subito: “Quando nell’aprile del 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si installa nella base di Khost, dando il cambio agli americani, il generale di brigata Giorgio Battisti, che ne è capo, capisce subito che aria tira. E, attraverso un intermediario italiano di una ong presente nella zona, chiede un incontro con il comandante talebano del luogo, Pacha Khan… l’accordo viene trovato quasi subito: gli alpini faranno solo finta di controllare la zona e i Talebani li lasceranno tranquilli, limitandosi a qualche azione dimostrativa per non insospettire gli alleati anglosassoni” (Il Mullah Omar). Tanti furono gli accordi felloni di questo tipo. Il più clamoroso viene a galla nel 2008 a Sorobi. I militari francesi sostituiscono quelli italiani che però non li avvertono dell’accordo sotterraneo con i Talebani. Poiché la zona è stata fino allora tranquilla i francesi non adottano le consuete precauzioni e, attaccati di sorpresa dai Talebani, subiranno la peggiore sconfitta dei cugini d’Oltralpe in Afghanistan.

Nel 2002, quando Hamid Karzai diventa presidente dell’Afghanistan, sotto il diretto controllo Usa, la rivista Time mette la sua fotografia in copertina eleggendolo come “uomo più chic del mondo”. È con questa superficialità da stilisti che siamo andati in Afghanistan. Ed è per questa superficialità che abbiamo giustamente, molto giustamente, perso la guerra.

 

 

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Nell’“addio alle armi” degli eserciti occidentali in Afghanistan i media italiani ma anche i nostri Comandi militari hanno dato il meglio di sé. Ma mentre i Comandi avevano almeno l’attenuante di dover in qualche modo giustificare un’operazione sciagurata, devastante e in definitiva criminale, finita nella più disonorevole delle sconfitte, quest’obbligo la libera stampa non l’aveva.

È stata fatta un’incredibile confusione fra Talebani, Al Qaeda, Isis. I Talebani con Al Qaeda, Bin Laden e gli attentati alle Torri Gemelle non avevano nulla a che fare. Bin Laden i Talebani se lo sono trovati in casa quando il Mullah Omar, nel 1996, prese il potere. Ce lo aveva portato, dal Sudan, Massud, perché lo aiutasse a combattere un altro “signore della guerra”, Hekmatyar. Il Mullah Omar non aveva nessuna considerazione di Bin Laden, lo definiva un “piccolo uomo”, ma doveva tener conto che il Califfo saudita, con le sue ricchezze, aveva contribuito a costruire strade, ponti, case, e godeva di un certo prestigio fra la popolazione. Ma quando Clinton gli propose di far fuori Bin Laden Omar si disse favorevole e mandò il suo ministro degli Esteri, Muttawakil, a Washington per trattare la cosa, che gli interessava perché gli americani nel tentativo di colpire Bin Laden stavano bombardando a tappeto la regione di Khost uccidendo centinaia di civili afghani. Ci furono due incontri a Washington nell’inverno del 1998. Muttawakil fece due proposte: o sarebbero stati i talebani a dare al Pentagono la posizione esatta in cui si trovava Bin Laden o gli americani avrebbero fornito i missili necessari ai Talebani per sbrigare la faccenda. Ma pose una condizione: in un caso o nell’altro l’omicidio di Osama dovevano attribuirselo gli americani senza coinvolgere il governo talebano. Alla fine Clinton si tirò indietro. Questi sono documenti del Dipartimento di Stato Usa dell’agosto 2005. Ora, i colleghi hanno tutto il diritto di ignorare quello che scrivo io, però documenti ufficiali di questa importanza avrebbero almeno il dovere di leggerli. Comunque è stato chiarito in modo definitivo che la dirigenza talebana dell’epoca era del tutto all’oscuro degli attentati dell’11 settembre. E il Washington Post e il New York Times, meno servili verso il governo americano dei media italiani, hanno denunciato che l’attacco all’Afghanistan era stato progettato sei mesi prima dell’11 settembre.

Ancora più grottesca è la confusione fra Talebani e Isis. C’è una ‘lettera aperta’ del 2015 del Mullah Omar ad Al Baghdadi in cui gli intima di non tentare di penetrare in Afghanistan perché, dice, la nostra è una guerra di indipendenza che non ha nulla a che fare con i tuoi deliri geopolitici. Comunque sia, gli unici a combattere l’Isis in Afghanistan sono stati proprio i Talebani. E se finora non sono riusciti a sconfiggerlo del tutto è perché contemporaneamente dovevano tener testa agli occupanti e all’esercito “regolare” di Ashraf Ghani. Sbarazzatisi dei primi e fra non molto anche del secondo si sbarazzeranno anche dell’Isis.

Non è del tutto vero che nell’Afghanistan talebano le donne non avessero il diritto di studiare, tasto su cui si batte ossessivamente in Occidente. Le cose stanno in modo un po’ diverso. In un decreto talebano è scritto: “Nel caso sia necessario che le donne escano di casa per scopi di istruzione, esigenze sociali o servizi sociali (…)”. Il fatto è che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, non volevano solo che fossero divise le aule fra ragazzi e ragazze, ma che gli edifici che ospitavano gli uni e le altre fossero separati e ben lontani. Ma, impegnati da Massud che non accettava la sconfitta, non ebbero il tempo di costruirli. Avevano altre priorità. Si può anche capirli.

È ancora più falso che i Talebani fossero appoggiati militarmente dal Pakistan o quantomeno dai suoi servizi segreti, l’ISI. Il Pakistan si limitò ad un aiuto diplomatico riconoscendo l’Emirato islamico d’Afghanistan. Peraltro il più devastante attacco militare alle popolazioni tribali, afghane e pakistane, che vivono nella valle di Swat, fu condotto dall’esercito pakistano, teleguidato dal generale Petraeus. Due milioni di profughi in due giorni. Se i Talebani avessero avuto l’appoggio dell’ISI sarebbero stati in possesso di missili terra-aria Stinger che convinsero i sovietici ad abbandonare il campo (“Quando vedemmo che cominciavano a cadere gli elicotteri e gli aerei decidemmo di lasciare l’Afghanistan”).

Parlando a RadioTre Gianni Riotta ha definito positiva l’operazione occidentale in Afghanistan. L’occupazione occidentale dell’Afghanistan è stata ancor più devastante di quella sovietica. I sovietici hanno fatto grandi danni materiali, ma non si erano messi in testa, a differenza di quanto abbiamo fatto noi, di corrompere gli afghani a suon di dollari per portarli dalla nostra parte. Quando non era ancora presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani, che non può essere sospettato di simpatie talebane, disse: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l’integrità, la fiducia l’uno nell’altro”. Riotta ha anche affermato che la nostra occupazione è stata determinante per la ricostruzione dell’Afghanistan. Se proprio non vuol leggersi l’ultimo capitolo del mio libro Il Mullah Omar (Come si distrugge un Paese), si vada a leggere per lo meno Caos Asia (2008) dello scrittore pakistano Ahmed Rashid. Riotta punta il dito sul fatto che l’Afghanistan è oggi il maggior esportatore mondiale di stupefacenti. Ma si dimentica di ricordare che fu proprio il Mullah Omar a proibire nel 2000/01 la coltivazione del papavero e a stroncare così il commercio dell’oppio, che cadde quasi a zero.

In Afghanistan noi italiani ci siamo comportati da alleati fedeli come cani degli Stati Uniti, seguendoli sino alla fine, ma allo stesso tempo, come sempre, sleali. Fin dall’inizio abbiamo fatto questo accordo con i comandanti talebani: loro non ci avrebbero attaccato e noi avremmo solo fatto finta di controllare il territorio. Il nostro ministro della difesa Guerini ha affermato che era nostro dovere di alleati Nato stare con gli americani fino alla fine. Anche questo è un falso. Gli olandesi hanno lasciato l’Afghanistan nel 2010. L’accordo con i Talebani si fece quasi da subito: “Quando nell’aprile del 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si installa nella base di Khost, dando il cambio agli americani, il brigadiere generale Giorgio Battisti, che ne è capo, capisce subito che aria tira. E, attraverso un intermediario italiano di una ong chiede un incontro con il comandante talebano del luogo, Pacha Khan (…) l’accordo viene trovato: gli alpini faranno solo finta di controllare la zona e i Talebani li lasceranno tranquilli” (Il Mullah Omar). Tanti furono gli accordi felloni di questo tipo. Il più clamoroso viene a galla nel 2008 a Sorobi. I militari francesi sostituiscono quelli italiani che però non li avvertono dell’accordo sotterraneo. Poiché la zona è stata fino allora tranquilla i francesi non adottano precauzioni e, attaccati di sorpresa, subiranno la peggiore sconfitta dei cugini d’Oltralpe in Afghanistan. Il colonnello dei marines Tim Grattan dirà: “Stringere patti con i comandanti talebani è perdente. I nemici si combattono e basta”.

Nel 2002, quando Hamid Karzai diventa presidente dell’Afghanistan, sotto il diretto controllo Usa, la rivista Time mette la sua fotografia in copertina eleggendolo come “uomo più chic del mondo”. È con questa superficialità da stilisti che siamo andati in Afghanistan. Ed è per questa superficialità che abbiamo giustamente, molto giustamente, perso la guerra.

Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2021

 

"Nulla si crea e tutto si distrugge" (Il Ribelle dalla A alla Z).

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Quella che fino a qualche mese fa poteva sembrare solo una boutade, o piuttosto un incubo, “Berlusconi for President”, fra un anno potrebbe diventare una concreta, concretissima realtà. Il Corriere ne ha parlato più volte in questi giorni senza peraltro dar mostra di scandalizzarsi per questa indecenza, segno che evidentemente non la ritiene tale per i suoi lettori così come, probabilmente, non lo è per buona parte degli italiani.

Tutto parte dall’iniziativa di Matteo Salvini di formare una Federazione o un consorzio o quel che l’è fra le destre italiane. In realtà l’obiettivo di Salvini è di stoppare Giorgia Meloni che lo sta superando nei sondaggi. Mai, sia detto di passata, che i nostri uomini politici si muovano per quel “bene del Paese” che hanno sempre sulla bocca; le grandi parole, le grandi iniziative mascherano quasi sempre, per non dir sempre, manovre da sottobosco, manovre “tattiche” si dice, per nobilitarle, nel loro gergo poi assunto dai giornalisti.

Si sarebbe pensato che Silvio Berlusconi sarebbe stato contrario a un partito unico, o a qualcosa che gli assomiglia molto, perché farebbe la fine che lui ha fato fare a Gianfranco Fini. In un partito dove c’è un personaggio di gran lunga dominante per voti chi ne entra ne viene fatalmente fagocitato e perde ogni rilevanza. Fu così per Fini nei confronti di Berlusconi, così sarebbe per Berlusconi nei confronti di Salvini. Il prezzo che Berlusconi pagherebbe per questa mossa che lo cancellerebbe come partito (da qui le forti resistenze di molti importanti membri di Forza Italia) è un ‘patto di ferro’ fra le destre che lo porterebbe al Quirinale. E la cosa può riuscire perché Giorgia Meloni, pur essendo il vero obiettivo della mossa di Salvini, ha comunque già dichiarato: “Non mi metterei mai contro la candidatura di Berlusconi al Quirinale”. I voti quindi ci sono o potrebbero esserci andando a pescare i 50 che mancano, convincendoli, offrendogli, o anche all’occorrenza pagandoli, cosa non certo nuova per Forza Italia (caso De Gregorio), fra ex grillini, già adusi a ogni tradimento, renziani o ex renziani e peones vari della Camera e del Senato.

Berlusconi è stato condannato in via definitiva a quattro anni, poi ridotti, via condono, a uno e mezzo, scontato nel modo ridicolo che sappiamo, per una colossale evasione fiscale. Berlusconi, con la sua coorte di avvocati, è ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo lamentando che nel processo sarebbero stati lesi i suoi diritti. Strasburgo ha inviato otto quesiti al Governo italiano perché verifichi queste circostanze. Strasburgo si è rivolta all’indirizzo sbagliato, perché il Governo è un organo politico che non può entrare in alcun modo nelle decisioni della Magistratura a meno di non violare anche, oltre a tutto il resto, quella separazione dei Poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario, che è il cardine di ogni Democrazia. I quesiti vanno rivolti a un organo giudiziario, in questo caso la Cassazione, che non potrà che respingerli, per la lapalissiana ragione che il suo ruolo è proprio la verifica di legittimità.

Berlusconi ha usufruito di nove prescrizioni e in tre casi la Cassazione ha accertato che i reati che gli venivano attribuiti li aveva effettivamente commessi ma era passato il tempo utile per sanzionarli. Berlusconi ha tre processi in corso per corruzione di testimoni, reato in cui sembra essere specializzato. Certo si potrebbe aggirare l’ostacolo varando in tutta fretta una legge ‘alla Putin’ per cui il Capo dello Stato è sottratto ai processi per tutto il tempo del suo mandato e anche oltre, magari almeno fino a quando l’ex Cavaliere avrà compiuto gli agognati 120 anni.

Una recente sentenza della Magistratura mi ha assolto dal reato di diffamazione ai danni di Berlusconi, che aveva proposto azione civile contro di me, affermando che sulla base della straordinaria carriera giudiziaria, chiamiamola così, dell’ex Cavaliere, era lecito definirlo “delinquente naturale, pregiudicato, un uomo nefasto, terrorista, corruttore di magistrati, colossale evasore fiscale, specialista nella compravendita di parlamentari a suon di milioni di euro”.

Inoltre questa sentenza ne ribadisce un’altra della Corte di Appello di Roma, quella del 2/5/2008, sempre di assoluzione, a riguardo di Berlusconi e Previti, avendo io raccontato che i due, in combutta fra di loro, avevano truffato, per miliardi, Anna Maria Casati Stampa, minorenne, orfana di entrambi i genitori, morti in circostanze tragiche. Quella sentenza diceva testualmente che ciò che aveva raccontato il coraggioso giornalista Giovanni Ruggeri nel libro Gli affari del Presidente, e in seguito da me raccolto, si basava “sulla sostanziale veridicità putativa dei fatti”. Ora si può capire, anche se in nessun modo giustificare, l’imprenditore che corrompe la guardia di Finanza, corrompe i testimoni, corrompe i magistrati, ma essere l’artefice di una truffa miliardaria ai danni di un’orfana minorenne, di una persona inerme e totalmente indifesa, dà l’esatta misura della statura morale dell’uomo.

Ce ne dovrebbe essere abbastanza per escludere che un soggetto del genere possa diventare Presidente della Repubblica Italiana. Totalmente in subordine ci sono poi dei corollari, comunque gravi, che rendono Silvio Berlusconi inadatto a ricoprire quel ruolo. Il Presidente della Repubblica rappresenta l’Italia anche all’estero. Berlusconi ha al suo attivo una serie di memorabili gaffe commesse in sedi internazionali, coprendoci di ridicolo. La più clamorosa è quella ai danni del capo della Spd Martin Schulz definito, in pieno Parlamento europeo, “un kapò”. Io mi trovavo in Corsica in quel momento. La cosa era così grottesca che persino Corse Matin, che si occupa abitualmente di itinerari turistici, di Festival estivi, di corse di cavalli, di pétanque, sentì il bisogno di sbattere la notizia in prima pagina. I miei amici corsi mi guardavano e ridevano. Poi ci sono state le corna fatte alle spalle di un ministro spagnolo durante un convegno internazionale. In altra occasione alle spalle di Putin e Obama ne prende le teste e tenta di avvicinarle come a dire che solo lui, il “Superuomo Silvio”, può far fare pace agli eterni nemici. Una cosa da asilo infantile o più precisamente da oratorio dei salesiani dove Berlusconi giocava, malissimo, a calcio.

Il Presidente della Repubblica ha importanti e pesanti impegni a livello internazionale. Come potrebbe onorarli uno che attualmente sta sotto una tenda a ossigeno, o qualcosa di similare, comparendo solo saltuariamente su Skype?

“Berlusconi for President”. Una cosa così grottesca non sarebbe possibile in nessun altro paese al mondo, occidentale, non occidentale, democratico, totalitario. Da noi invece tutto questo passa sotto il segno dell’indifferenza. Ma sì, cosa vuoi che sia, lascia perdere, pensa alla salute, tira a campà.

Giorgio Gaber cantava nel 2003 “Io non mi sento italiano”. Oggi molto probabilmente direbbe: “io mi vergogno di essere italiano”.

Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2021