“La musica contemporanea mi butta giù” (Franco Battiato)
A me “buttano giù“ altre cose. Non ne posso più degli integralismi che attraversano la nostra società. Il primo è l’integralismo sul Covid o, per essere più precisi, sulle misure anticovid. Intanto le comunicazioni del Governo (mi spiace per il ministro Speranza che è una brava persona) e del suo Comitato scientifico sono così farraginose, complesse e contraddittorie che sfido qualsiasi persona normale a capirci qualcosa. Il Green pass ne è l’ultimo esempio. Se costoro pensano di trascinarci ancora per anni con vaccini, richiami dei vaccini e richiami dei richiami si sbagliano. Lo stress che sopportiamo da due anni non è più sostenibile . Non che noi si abbia la forza di ribellarci in modo attivo, lo faremo per omissione rifiutandoci di farci vaccinare. Oltre tutto è abbastanza chiaro, almeno così a me sembra, che il Covid 19 sfugge ai vaccini, preparati troppo in fretta e sulle cui conseguenze a medio e lungo termine non possiamo saper nulla, perché muta in continuazione. Tra l’altro opponendoci in modo così ottuso al Covid noi in realtà ne prolunghiamo l’esistenza. Se avessimo lasciato fare alla Natura quello che alla natura compete, cioè sfoltire la popolazione quando è in sovrabbondanza, il Covid sarebbe morto per inedia e sarebbe durato un paio di anni. L’epidemia si sarebbe ripresentata in forma diversa dopo qualche decennio com’è stato per tutte le epidemie del passato. Inoltre io non capisco proprio perché per salvare dei settuagenari od ottuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, si sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il Covid non poteva far nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa farsa tragica. “Settanta sono gli anni della vita dell’uomo” dice la Bibbia e padre Dante fissa il “mezzo del cammin di nostra vita” a 35 anni , il che vuol dire che gli uomini del Medioevo pensavano che una vita media, normale, avesse quella durata. Non ci si deve far fuorviare dal fatto che gli scienziati e gli storici, in perfetta malafede, affermano che la vita media dell’uomo del Medioevo era di trent’anni o poco più. Il dato è falso perché sconta l’alta mortalità natale e perinatale che lasciava in vita solo i più robusti. Il raffronto va fatto non con la vita media ma con l’aspettativa di vita dell’adulto. Da questo punto di vista, è vero, abbiamo guadagnato alcuni anni poiché questa aspettativa, secondo dati del 2016, è di 80,6 per gli uomini e di 85 per le donne. Ma bisogna poi vedere qual è la qualità della vita in questi anni che abbiamo strappato. Fatta ogni debita eccezione, tutti noi abbiamo esperienza di anziani che trascinano una vita che non è più una vita in interminabili e penose agonie cui sarebbe di gran lunga preferibile la morte. In fondo la morte, se non si trascinano le cose oltre ogni limite di decenza, è una cosa pulita. Infine noi stiamo creando, artificiosamente, un mondo di vecchi che pesa sulle generazioni più giovani e vitali. Lo psicoanalista Cesare Musatti, a novant’anni, e quindi al di sopra di ogni sospetto, disse: <<Un mondo popolato in prevalenza da vecchi mi farebbe orrore>>.
La seconda intollerabile intransigenza è quella del cosiddetto metoo. Il reato di molestie sessuali è il solo, mi pare, che prevede un’immediata presunzione di colpevolezza invece della presunzione di innocenza che, dal punto di vista giuridico, è il caposaldo di ogni democrazia che voglia definirsi tale. Adesso sotto il torchio di metoo, ma è solo l’ultimo di moltissimi casi analoghi, c’è il Governatore di New York, Andrew Cuomo, accusato di “comportamenti inopportuni” e pressioni da undici donne. Il presidente Joe Biden ne ha chiesto le immediate dimissioni e la stessa richiesta l’ha fatta in una conferenza stampa la Procuratrice generale di New York, Letitia James, che è un Pm non un giudice. Vogliamo almeno aspettare una sentenza? In questi casi, come ho già scritto, io consiglio una querela per diffamazione, perché secondo le regole del diritto è l’accusa a dover provare l’esistenza del reato, non la difesa del presunto colpevole a dover provare la propria innocenza. E poi le “molestie sessuali” hanno assunto contorni sempre più estesi e sempre meno definiti. Che cos’è infatti un “comportamento inopportuno”? Tutto può essere “inopportuno”. Se io seduto sul mio divano abbraccio le spalle della donna che mi sta a fianco è un comportamento “inopportuno”? Se la guardo con troppa intensità è un comportamento “inopportuno”? Ma allora come faccio a farle capire che mi piace e che la desidero? Dovrò forse presentarle una richiesta scritta, come già si fa in America? In quanto a lei ha mille modi per farmi capire che la cosa non le va. Il primo, e il più eloquente, è alzarsi e prendere la porta di casa.
Il direttore dell’Orchestra Reale di Amsterdam, l’italiano Daniele Gatti, nel 2018 è stato licenziato in tronco per “comportamenti inappropriati”. Poi si sono aperte le cateratte che hanno investito, fra gli altri, Depardieu, poi assolto per “insufficienza di prove”, Placido Domingo, Vittorio Grigolo e da ultimo Kevin Spacey eliminato brutalmente dal cast di un film di Ridley Scott, carriera finita. Al ministro gallese, Carl Sargeant, non è bastato dimettersi, investito da una campagna stampa si è suicidato a 46 anni. Fin dove vogliamo arrivare?
Quando io ero giovane c’era tra noi ragazzi un codice non scritto. Faccio il solito esempio del ballo, “il ballo del mattone” come canta Rita Pavone. Se lei ti metteva il braccio sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere, se ti metteva la mano sulla spalla il segnale era neutro, se ti metteva il braccio attorno al collo era incoraggiante ma non aveva nulla di decisivo, sarebbero seguite altre schermaglie. Era l’eterno gioco della seduzione.
Oggi pare che i sessi, o generi, chiamateli come vi pare, non siano più capaci di intendersi. E comincia a diventare sinistramente vera un’affermazione del solito Nietzsche: <<L’amore? L’eterno odio tra i sessi>>.
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2021
"L'amore è un disturbo psicosomatico creato dalla Natura per costringere a congiungersi due sessi altrimenti incompatibili" (m.f.)
Al vertice organizzato a Roma dalla FAO il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha affermato: <<La povertà, la disparità di reddito e l’alto costo del cibo continuano a tenere le diete sane fuori dalla portata di circa tre miliardi di persone>> . Di rincalzo è venuta l’assistente di Guterres, Agnes Kalibata, per i problemi alimentari nel mondo: << I sistemi alimentari sono locali, ogni Paese deve definire come cambiarli. Per questo ho insistito per coinvolgere i piccoli agricoltori e le comunità indigene che producono il 60/80 per cento di cibo nel mondo>>.
Anche se l’ONU non conta ormai più nulla, almeno qualcuno, a quel livello, ha capito che i problemi alimentari dei paesi dell’Africa subsahariana – perché di questi soprattutto si tratta – non si risolvono con un’ipocrita “aiutiamoli a casa loro” ma lasciando come dice Agnes Kalibata che siano gli indigeni a decidere come risolvere i propri problemi alimentari seguendo le tradizioni delle colture autoctone.
Non è infatti che negli ultimi decenni i neri africani siano rimasti fermi. Secondo dati FAO, un po’ datati ma nella sostanza ancora validi, negli ultimi quarant’anni la produzione dei cereali base, riso, grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50 per cento. E a questa crescita hanno contribuito in modo preponderante proprio le comunità indigene dei paesi cosiddetti sottosviluppati se è vero come dice Agnes Kalibata che costoro producono ”il 60/80 per cento del cibo nel mondo”. E allora perché queste comunità sono alla fame, come è drammaticamente documentato dalle migrazioni bibliche che ci vengono soprattutto dall’Africa centrale? Perché in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei paesi industrializzati (sempre secondo dati FAO il 66 per cento della produzione mondiale dei cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei paesi industrializzati). Cioè i poveri del terzo mondo non producono cibo per sfamare se stessi , ma per nutrire i maiali occidentali, dove per “maiali” non si intendono solo le bestie in senso proprio, ma in modo più lato gli occidentali stessi, italiani ovviamente compresi.
La fame in Africa Nera, come ho documentato nel mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente, è stata provocata dall’intrusione in quel mondo, con le buone o con le cattive, del nostro modello di sviluppo. Fino agli inizi degli anni Sessanta l’Africa Nera era alimentarmente autosufficiente ma era un mercato troppo povero perché potesse interessare i paesi industrializzati. Ma più o meno in quel periodo questi Paesi, poiché i loro mercati, alimentari e non, sono saturi, dovettero cercarne altri e l’Africa, allora animista e non ancora ideologizzata in senso islamico, non ebbe la capacità e la forza di difendersi da questa invasione economica. E qui inizia il patatrac.
Va posto innanzi tutto un problema teorico ma che ha effetti drammaticamente pratici. Le aziende dei paesi industrializzati possono o no andare a cercarsi il luogo del mondo dove il loro capitale è meglio remunerato? Sì, possono. E allora lo stesso diritto non dovrebbe spettare agli uomini che spesso sono ridotti alla fame proprio dall’introduzione nella loro vita del nostro modello? Cioè il denaro, ha più diritti degli uomini? E’ una tesi che farebbe arrossire anche il vecchio Adolf, ma è ciò che in realtà avviene.
Per salvarsi la coscienza si dice che, in fondo gli immigrati ci sono utili perché surrogano la nostra mancanza di vitalità (in Italia il tasso di fertilità per donna è 1,3, il più basso al mondo dopo il Giappone, in Medio Oriente è del 2,5, nell’Africa subsahariana è del 5) e fanno lavori a cui i nostri giovani non sono più disposti. A parte che paghiamo a questi immigrati cifre irrisorie per un lavoro durissimo (la Puglia del caporalato ne è uno sconcio esempio) questo discorso, indubbiamente pragmatico, io non l’accetto. Perché guarda al dramma delle immigrazioni, ormai migrazioni, sempre e solo dal nostro punto di vista, dal punto di vista dei vantaggi osceni che ne possiamo ricavare.
Matteo Salvini, credendosi ancora ministro degli Interni, mentre è solo uno dei parlamentari che sostiene questa caotica maggioranza, spara a zero sull’attuale ministro Luciana Lamorgese perché ha lasciato sbarcare 800 migranti a Lampedusa. Ora, se Salvini e tutti gli imprenditori, le aziende,i bottegai che rappresenta sono disposti a ritirare le loro devastanti attività dall’Africa centrale allora ha anche il diritto di sparare sui migranti, altrimenti deve accettare (prendo ovviamente Salvini come il più miserabile degli esempi) che la bomba che lui stesso ha innescato gli scoppi fra i piedi.
Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2021
"Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo" (Il Ribelle dalla A alla Z). In realtà le vittime del capitalismo non sono i capitalisti, ma, per dirla con Nietzsche, gli "schiavi salariati" che lavorano al loro servizio e soprattutto gli abitanti dei mondi "altri" (m.f.)
Indro Montanelli, il ‘bastian contrario’ per eccellenza negli anni che partono dal dopoguerra e arrivano quasi ai nostri giorni, è ancora ben presente nel dibattito pubblico italiano. Su di lui si scrivono libri e tutti cercano di tirarlo dalla loro parte come se una figura come la sua fosse inquadrabile in questa o quella corrente di pensiero.
Invece su Curzio Malaparte, che per quarant’anni fu il suo grande rivale, è sceso da tempo il silenzio. E si capisce facilmente il perché. Montanelli, morto nel 2001, ebbe il tempo di vedere e denunciare magagne che tuttora pesano sul nostro Paese, a cominciare da quel berlusconismo che non accenna a voler morire, che anzi pare destinato a seppellirci tutti. Malaparte è morto nel 1957 quando “il delinquente naturale”, per la fortuna di tutti, non era ancora comparso all’orizzonte.
La rivalità fra i due, Curzio e Indro, era tale che sul letto di morte, mentre i comunisti e i gesuiti si contendevano la sua anima, Malaparte gridava: <<No, non posso morire prima di Montanelli!>> . Da questo punto di vista si era scelto l’avversario sbagliato: Montanelli è morto a novantadue anni , Malaparte a cinquantanove per un tumore (“lo stramaledetto” come lo chiamava lui) conseguenza dell’iprite che aveva respirato quando nella prima guerra mondiale, giovanissimo, sedicenne, era andato a combattere, come volontario, nelle Ardenne.
Il peggior affronto che si possa fare a Curzio Malaparte è ignorarlo, dimenticarlo. Fu uno scandalo politico e letterario durato quasi quarant’anni. Dal 1920 anno in cui pubblicò il suo primo libro, La rivolta dei santi maledetti, fino al giorno della sua morte, Malaparte ha seminato intorno a sé, alla propria opera di scrittore e al suo personaggio, scalpore, fascino, odio, amore, invidia. Tutto si può dire insomma di Malaparte tranne che abbia attraversato inosservato la sua epoca. Affascinò e sedusse tutti i grandi e i grandissimi del suo tempo, da Stalin a Mussolini, da Gobetti a Togliatti. Con molti altri fece baruffa, rissa, lite, come con Gramsci che lo bollò con parole di fuoco o Nenni col quale ebbe un duello. Attirò l’attenzione di Trotskij che lo definì, con un misto di ammirazione e di sospetto, l’”enfant terrible” della cultura italiana. Fu l’unico giornalista occidentale a intervistare Mao. Pubblicò libri, La pelle e Kaputt, che furono per anni best-seller internazionali, fu giornalista e polemista unico, ebbe amici e nemici ovunque, a destra e a sinistra. Si azzuffò insomma con mezza Italia, e con l’altra mezza fece l’amore. Certo, se seppe farsi molto amare Malaparte fu altrettanto abile nel suscitare odi profondi. Una volta disse arrogantemente: <<Non mi hanno mai perdonato di essere venti centimetri più alto della media degli scrittori italiani>>.
E allora chi è stato più grande fra Malaparte e Montanelli? Come personaggio non c’è partita, troppo dirompente il primo, più riservato, nonostante tutto, il secondo. Su un altro piano io penso che Malaparte sia due categorie sopra Montanelli. Aveva una visione internazionale che mancava a Indro, certe sue corrispondenze dal Cile sono ancora attuali per capire il Sudamerica. Inoltre aveva una cultura figurativa che nessun giornalista italiano, a parte gli specialisti, né di ieri, né tantomeno di oggi, ha mai avuto. Il giudizio definitivo lo lasciamo però a un divertente aneddoto che ci ha raccontato Arturo Tofanelli, direttore del Tempo. Una volta, all’epoca in cui Malaparte faceva “Battibecco” (50.000 copie in più quando iniziò la rubrica, 50.000 in meno quando dovette abbandonarla, nessun giornalista italiano di oggi è in grado di spostare un così alto numero di copie che da sole fanno un giornale) a Tofanelli venne l’idea di scatenare una bella e fruttuosa polemica fra lui e Montanelli. Malaparte cioè avrebbe dovuto attaccare in “Battibecco” Montanelli , questi gli avrebbe risposto per le rime, e i giornali su cui scrivevano i due sarebbero andati a ruba. Per perfezionare il piano ci fu un incontro fra Tofanelli, Montanelli e Malaparte. I tre discussero a lungo, l’accordo sembrava raggiunto, ma all’ultimo momento Malaparte si ritirò: <<No, non ci sto, non mi conviene, conviene di più al lui>>.
Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2021