I “secoli bui” sono per definizione quelli del Medioevo. Io penso al contrario che i “secoli bui” siano quelli che seguono l’affermazione dell’Illuminismo e che stiamo vivendo ancora oggi in forme sempre più penetranti e devastanti. È questo il tema centrale del mio primo libro, pubblicato nel 1985, La Ragione aveva Torto?.
Il tema è ovviamente estremamente complesso. Qui mi limiterò ad esaminare questa degenerazione attraverso un fenomeno particolare, la guerra, che però è tutt’altro che marginale, visto che esiste da quando esiste l’uomo, e che non si è riusciti a definire la pace se non come “un breve intervallo fra due guerre”, ma sarebbe meglio dire fra più guerre, e che ora, con la questione ucraina, è tornato prepotentemente nel dibattito pubblico.
Nel Medioevo la guerra la fanno solo i professionisti. Che sono i nobili che hanno il dovere di difendere il territorio. A patto di questo impegno hanno una serie di privilegi. Estremamente significativa, in proposito, è la spiegazione che due scudieri di Varennes-en-Argonne danno, verso la fine del Trecento, del fatto che i nobili non devono pagare la taglia, cioè la tassa reale: “perché” dicono gli scudieri “in virtù della nobiltà sono tenuti a esporre i loro corpi e cavalcature alla guerra”. I contadini e gli artigiani, che rappresentavano allora circa il 90 per cento della popolazione, ne restano fuori e non ne sono coinvolti né emotivamente, essendogli piuttosto indifferente passare dal dominio d’un sovrano a un altro, né tantomeno economicamente, tranne nel caso che abbiano la sfortuna che i combattimenti passino proprio sui loro campi, caso assai raro perché la povertà della tecnologia militare medioevale e il ridotto numero dei combattenti limitano grandemente l’area d’azione della guerra e la stessa economia, a differenza di quanto avviene oggi, dove è sufficiente una guerra apparentemente limitata come quella tra Russia e Ucraina per mettere in subbuglio l’apparato finanziario di mezzo mondo, non ne è per nulla sconvolta proprio perché la classe produttiva, cioè i contadini, rimane al suo posto e continua a fare, in tutta tranquillità, ciò che ha sempre fatto.
Per i professionisti della guerra (ai nobili si aggiungeranno in seguito le compagnie di ventura) addestrati fin dall’infanzia, la guerra non è solo un modo per provare sul campo il proprio coraggio, ma è un fatto ludico, una giovanile “festa crudele” come la chiama Franco Cardini. L’importante non è solo battersi, ma battersi bene. La tecnologia è qui ancora fusa con l’uomo, la spada ne è solo un suo prolungamento. Il guerriero sente la spada come una parte del proprio corpo. Ce lo racconta la durlindana di Orlando, ma anche la storia di Hiroo Onoda, il giapponese che a 29 anni dalla sconfitta del Giappone, raso al suolo dalle bombe nucleari americane, continua a combattere una sua guerra, assolutamente medioevale, legata ai valori dell’onore e, appena ne ha il tempo, non fa che ripulire e strigliare la sua spada che pur non gli serve più a nulla.
Insomma nel Medioevo il vero combattimento è quello corpo a corpo. Quando fu introdotto il fucile i cavalieri si opposero a quest’arma che inaugurava un combattimento a distanza. Sembrava loro disonorevole. Naturalmente la tecnologia, come sempre è avvenuto, li travolse. Nel bellissimo film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, Giovanni delle Bande Nere, un Medici, grande e fiero combattente, prima della battaglia si cala la celata sicuro della sua forza e del suo coraggio. Ma basta un colpo di fucile, sparato da lontano, per metterlo fuori gioco.
Le guerre del Medioevo non sono guerre ideologiche, come saranno invece molte delle guerre a partire dalla Rivoluzione francese. Scrive Saint-Just al generale Jourdan: “Le guerre della libertà devono essere fatte con collera” e Carnot rincara la dose: “La guerra è violenta di per sé. Bisogna condurla a oltranza o restarsene a casa. Il nostro scopo è lo sterminio, lo sterminio fino alle estreme conseguenze”. Se non è ancora il nazismo, ci siamo molto vicini.
Le guerre del Medioevo sono lontanissime da questo estremismo. Scrive Philippe Contamine ne La guerra nel Medioevo: “Mettere il proprio corpo a rischio di morte e di prigionia, mettere il corpo e la vita a repentaglio andava bene, ma senza alcuna propensione per il fanatismo suicida, le nozioni di sacrificio, di devozione assoluta sembrano estranee alla mentalità medioevale”.
Insomma nel periodo della massima idealizzazione delle virtù guerriere (scrive Marc Bloch: “che la classe cavalleresca sapesse battersi la storia lo riconosce al pari della leggenda”) le guerre furono fra le meno cruente di tutte quelle che la Storia conosca. A parte casi limite come la battaglia di Anghiari (1440), di cui Leonardo da Vinci fece un abbozzo esposto al Palazzo Vecchio di Firenze, dove su undicimila combattenti si sarebbe avuto, a detta di Macchiavelli, un solo morto (le stime, più attendibili, di Flavio Biondo parlano di sessanta caduti) o come quella di Bremule (1119) dove i morti furono tre o come quella guerra che, a leggere le cronache, “imperversò per un anno in Fiandra dopo l’assassinio di Carlo il Buono” (1127), ma in cui caddero sette cavalieri dei quali uno solo in combattimento, è assodato che il bilancio di quasi tutti i numerosissimi conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti.
Comunque fino alla Prima guerra mondiale compresa, la guerra non aveva mai coinvolto direttamente i civili. L’aereo ero già stato inventato ma aveva solo compiti di ricognizione e se c’era il combattimento riguardava solo i piloti, creando le figure mitiche di Manfred von Richthofen, tedesco, e di Alfred Ball, inglese. Il cambiamento decisivo avviene nella Seconda guerra mondiale, con i bombardieri. La stragrande maggioranza dei 65 milioni o 70 milioni di morti nella Seconda guerra mondiale non furono militari, ma civili inermi, come avviene ora nella guerra ucraina. La guerra, nella modernità non ha perso solo la sua dimensione epica, non ha perso solo la sua dimensione etica, ma ha perso anche quella giuridica, quello ius belli che fu rispettato persino durante la Seconda guerra mondiale. La guerra la si dichiarava e, da quel momento, non c’era più alcuna possibilità di rapporto fra i belligeranti. Tanto meno economico. Oggi non la si dichiara più, ce ne si vergogna, la si chiama con altri nomi, “operazione di peacekeeping”, “operazione di polizia internazionale” o, da ultimo, Putin “operazione militare speciale”. Per cui si arriva al paradosso di avere rapporti commerciali con quello che oggi è considerato “il nemico pubblico numero uno”, Vladimir Putin.
Le armi hanno perso anche la loro dimensione di armi, sono biologiche, chimiche, batteriologiche. Inoltre, seguendo i tempi, ha preso un’enorme importanza l’informazione anzi la disinformazione. La strage di Bucha c’è stata o non c’è stata? Toni Capuozzo, inviato di lungo corso in zone di guerra, ha espresso sulla base della sua esperienza molti dubbi in un’intervista concessa alla trasmissione “L’Attimo Fuggente”. La guerra è diventata una cosa scivolosa, viscida, subdola, anche se i morti ci sono ancora e non sono degli avatar. E i “secoli bui” sarebbero quelli del Medioevo?
Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2022
"La verità non è davanti, ma dietro di noi." (Il Ribelle dalla A alla Z)
Noi occidentali, a furia di apericena, ci siamo dimenticati di che cos’è la guerra, non ne abbiamo più la percezione. La guerra è esattamente ciò che vediamo, ciò che guardiamo da poco più di un mese per televisione con un voyerismo morboso che lo scrittore Antonio Scurati si è spinto a definire “osceno”. Non è per nulla diversa, anzi forse un po’ più soft, di quelle, recenti, che l’hanno preceduta: la guerra sovietica all’Afghanistan (1979-1989), la prima guerra del Golfo (1990), la guerra Nato-americana alla Serbia (1999), durante la quale fu bombardata per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado che, con tutto il rispetto, è qualcosa di più di Kiev, che è stata importante ma in altri secoli della storia russa, l’invasione e occupazione dell’Afghanistan da parte degli occidentali e altri loro accoliti di varia umanità (2001-2021), la guerra all’Iraq del 2003, la guerra franco-americana-italiana alla Libia del colonnello Gheddafi del 2011. La differenza, rispetto a quelle, è che oggi la guerra all’Ucraina noi la vediamo e ci commuoviamo per gli eccidi, per i civili morti, per i bambini morti, per i palazzi abbattuti così simili ai nostri. Ma non è affatto detto che questa commozione abbia a che fare con una vera adesione alle sofferenze del popolo ucraino. Ci commuoviamo per poterci compiacere della nostra commozione. Altrimenti uno alzerebbe il culo, lascerebbe le usate opre, e andrebbe a battersi da quelle parti, come ha fatto Edy Ongaro che è morto combattendo in Donbass, peraltro a favore dei filorussi di quella regione e contro l’esercito ucraino che in quella guerra, “a bassa tensione” come è stata definita, non è certo andato con mano leggera.
Dei morti afgani nella guerra contro i sovietici non si sa quasi niente, perché gli afgani, com’è noto, non sono propriamente degli esseri umani. Qualcosa di più si sa della guerra combattuta, si fa per dire, dagli occidentali contro i Talebani a partire dal 2001. Ci sono stati bombardamenti su Kabul, su Kunduz, su Mazar e Sharif, ospedali spianati, a partire da medici senza frontiere a Kunduz (42 morti, tra cui 14 medici e tre bambini). Infinite volte gli occidentali hanno fatto strage di matrimoni scambiandoli per un raduno di “terroristi” talebani (diciamo un centinaio di morti a volta, sposi compresi). Le cosiddette Organizzazioni umanitarie non hanno fatto calcoli precisi sulle vittime civili afgane durante i vent’anni di guerra (li hanno fatti per i contingenti degli occupanti), si calcola comunque, in modo approssimativo, che siano state circa 300 mila senza contare gli individui menomati per sempre, bambini compresi, dalle bombe al fosforo e dai proiettili all’uranio impoverito. I morti civili durante la prima guerra del Golfo, a causa dei bombardamenti su grandi città come Baghdad e Bassora, sono stati: 86.164 uomini, 39.612 donne e 32.195 bambini (dati Pentagono). La seconda guerra del Golfo ha provocato, in modo diretto o indiretto, dalle 650 alle 750 mila vittime civili. L’aggressione alla Serbia ha fatto più di 5000 morti, di cui 500 erano albanesi, cioè proprio quelli di cui dicevamo di essere andati in soccorso. Dei morti civili causati dall’aggressione franco-americana-italiana alla Libia di Gheddafi non si sa nulla. Si sa solo che, per non farci mancar nulla, abbiamo assassinato anche un nipotino del Colonnello. In quanto alle conseguenze di quella guerra illegittima a prescindere (l’Onu era contraria) sono, a dieci anni di distanza, sotto gli occhi di tutti e non è il caso di tornarci sopra per l’ennesima volta.
L’esibito vittimismo di Zelensky comincia a dar fastidio. Chiede aiuto a tutti, in qualsiasi sede: che gli vengano fornite armi il più letali possibile. Bene, durante la guerra russo-afgana i grandi comandanti militari, i “signori della guerra”, Massud, Gulbuddin Hekmatyar, Ismail Khan, Dostum, ebbero l’aiuto, in funzione anti sovietica, degli americani che fornirono loro i decisivi missili terra-aria Stinger. E quando cominciarono a cadere gli aerei e gli elicotteri i sovietici batterono in ritirata. Invece i Talebani contro gli occidentali non hanno avuto l’aiuto di nessuno, né lo hanno chiesto, del resto nessuno gliel’avrebbe dato perché il Mullah Omar (e i suoi) era per definizione il “mostro”. Hanno dovuto combattere con i soli kalashnikov contro un esercito che al culmine della guerra contava su 400 mila effettivi, ma soprattutto su bombardieri, caccia, droni. Ci hanno messo vent’anni ma questi delinquenti li hanno cacciati con le loro mani, senza pietire aiuti da nessuno.
La guerra afgana, a nostro parere, è la più significativa di quelle recenti. Per due motivi. Primo. Dimostra che se ci si batte per degli ideali, giusti o sbagliati che siano, si può prevalere su eserciti superarmati che queste motivazioni non hanno, se non quella di difendere gli interessi di chi li comanda. Secondo. Mentre le guerre del Golfo, in precedenza la guerra per le Falkland o Malvinas fra inglesi e argentini, e la stessa guerra di Putin sono, se si può dir così, delle oneste guerre di conquista (questo territorio è mio, non è tuo), quella agli afgani del Mullah Omar è stata una guerra puramente ideologica: non ci piaceva come viveva quella gente. E poiché non ci piaceva come viveva quella gente abbiamo occupato, invaso un Paese e fatto 300 mila morti.
A parer nostro la civiltà di un popolo non si misura da come vi vengono trattate le donne, ma da come si trattano i prigionieri. Tutti i prigionieri dei Talebani sono stati sempre trattati con estrema correttezza, in particolare proprio le donne avendo riguardo alle loro esigenze femminili. Noi abbiamo alle spalle, e ancora oggi, Guantanámo, Abu Ghraib, Abu Omar. E nemmeno Zelensky e i suoi hanno, da questo punto di vista, la coscienza del tutto pulita, se è autentico quel video in cui si vedono i soldati ucraini sparare alle gambe di prigionieri inermi, a terra, legati e incappucciati.
Adesso si vorrebbe trascinare Vladimir Putin davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per “crimini di guerra”. Su questi Tribunali il lettore sa come la pensiamo: sono i Tribunali dei vincitori e non hanno alcun valore né legale né morale, se, putacaso, questa guerra la vincesse Putin sul banco degli imputati si troverebbe Zelensky. Ha detto la portavoce del ministro degli Esteri russo Lavrov, Maria Zacharova: “Ottima idea questa del processo. Possono iniziare con i bombardamenti della Jugoslavia e l’occupazione dell’Iraq. Quando hanno finito possono passare alle bombe nucleari sul Giappone”. Noi aggiungiamo i bombardamenti indiscriminati su Dresda, Lipsia e Berlino che avevano di mira essenzialmente i civili perché, come dichiararono esplicitamente i comandi politici e militari americani, si voleva “fiaccare la resistenza del popolo tedesco”.
Il Fatto Quotidiano, 8 aprile 2022
Finalmente l’Europa ha dato un colpo, un segno di vita. Per la verità le reazioni del presidente francese Emmanuel Macron e dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrel, spagnolo, alle parole con cui in sostanza Joe Biden, dopo aver definito Vladimir Putin “macellaio”, “criminale di guerra”, “assassino”, faceva capire non solo di augurarsi un colpo di stato in Russia ma di stare operando per attuarlo, non sono che il proseguimento del tentativo in atto da anni dell’Europa, e in particolare di Germania e Francia, di affrancarsi, sia pur con prudenza e lentamente, a parer nostro troppo lentamente, dalla tutela della Nato, che è un organizzazione in totale possesso degli Stati Uniti, e quindi dall’ “amico americano” e da quell’ “atlantismo” cui siamo condannati dalla fine della seconda guerra mondiale. Aveva cominciato cinque anni fa Angela Merkel affermando “gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Il che voleva dire armare un vero esercito europeo. E aveva proseguito Macron definendo la Nato in uno stato di “morte cerebrale”. Una mano in questo senso l’aveva data anche Donald Trump, forse il miglior Presidente, insieme a Nixon, che gli Stati Uniti abbiano avuto nel dopoguerra, uno che, ragionando da imprenditore, ha deciso di ritirare il proprio contingente dall’Afghanistan considerando una follia spendere 100 miliardi di dollari l’anno per “una guerra che non si poteva vincere” (la fuga indecorosa dei contingenti occidentali dall’Afghanistan non è attribuibile a Trump ma alle incapacità di Biden, quella italiana all’insipienza dei nostri Comandi). Uno che, a differenza dei suoi predecessori, non ha inanellato guerre disastrose (Iraq e Libia) le cui conseguenze si sono poi regolarmente riversate sull’Europa, preferendo investire le risorse nel proprio Paese. Bene, per questi stessi motivi, Trump aveva definito la Nato “inutile”.
Ad alimentare questo latente antiamericanismo e antiatlantismo ha provveduto Biden quando a Bruxelles ha partecipato al vertice Nato, al G7 e al Consiglio Europeo, con l’arroganza del padrone che detta legge. Biden non si è comportato semplicemente come il capo effettivo della Nato, cosa che tutti sapevamo, in questo senso un chiarimento utile, ma anche come il padrone della politica europea. L’arroganza di Biden in tutti i consessi cui ha partecipato in Europa è stata, prima ancora delle parole pronunciate in Polonia in cui prefigurava un colpo di stato contro Putin, la goccia che ha fatto traboccare il vaso di chi non si sente un atlantista doc e vuole un’Europa unita, sufficientemente armata per difendersi, equidistante dai due blocchi e forse, a bocce ferme, non in questo momento in cui Putin sta aggredendo sanguinosamente l’Ucraina, più vicina alla Russia che agli Stati Uniti per motivi geografici, energetici e anche culturali. Alle spalle della tradizione europea ci sono la Grecia antica e la latinità, largamente estranee alla cultura yankee. Insomma l’atlantismo ha risposto a uno stato di necessità, ma nulla dice che debba continuare in eterno. In un mondo tanto cambiato dal punto di vista geopolitico e dove si è affacciata con forza un’altra Superpotenza, la Cina, con cui bisognerà pur fare i conti senza preconcetti ideologici perché rappresenta un mercato enorme e attraente per le imprese europee (anche se è vero pure il contrario).
Naturalmente quello che stiamo dicendo vale solo per una parte, in genere carsica per il timore delle ritorsioni della cultura dominante, del pensiero europeo. Non vale per chi è sdraiato come una sogliola ai piedi dello zio Sam. Prendiamo, a titolo di esempio, un articolo di Marco Gervasoni pubblicato sul Giornale (24/03): “Non c’è bisogno di una sentenza di tribunale internazionale: se la principale potenza del pianeta ti definisce così (“un criminale di guerra” ndr) e non lo aveva mai fatto neppure con i leader sovietici…, vuol dire che sei finito. Ti sei posto al di fuori dal consesso civile”. A parte che i Tribunali internazionali per “crimini di guerra” sono una tragica farsa perché, da Norimberga in poi, sono i tribunali dei vincitori (per i crimini nella ex-Jugoslavia sono stati condannati solo i Serbi, non i Croati che ne avevano commessi altrettanti) non spetta al capo di una Potenza, foss’anche la più grande delle Superpotenze, sentenziare sui crimini altrui. I criminali si combattono, quando occorre, non si giudicano. Questa è una visione molto americana del diritto internazionale.
Che fare dunque? L’Europa deve armarsi adeguatamente ed avere un unico comando militare. E quando diciamo “adeguatamente” intendiamo anche che debba essere tolto alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere armi nucleari. Non è tollerabile che quest’arma decisiva, oltre alle grandi potenze, Stati Uniti, Russia, Cina, India, ce l’abbiano il Pakistan, la Corea del Nord, Israele e non il più importante e trainante Paese del Vecchio Continente. La cosa è tanto più urgente adesso che la Gran Bretagna, altra potenza nucleare, ha lasciato di fatto l’Europa ed è legata, per motivi storici più che legittimi, agli americani. La Bomba, è vero, ce l’ha anche la Francia. Ma sulle capacità militari dei francesi c’è molto da dubitare, le hanno sempre buscate da tutti anche se hanno avuto l’abilità di far finta di aver vinto una guerra, l’ultima, che avevano invece perso.
L’Atomica, dunque, non per aggredire alcuno, ma per avere il deterrente necessario per non dover eternamente dipendere dalla tutela altrui. “Un’Europa unita, neutrale, armata, nucleare e, nei limiti del possibile, autarchica” questa è la mia formula da sempre.
Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2022