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Alla buon’ora. C’è stato bisogno dell’attentato Isis alla moschea sciita Eidgah di Kabul dove si teneva la cerimonia funebre della madre di Zabihullah Mujahed, capo della Commissione culturale del nuovo governo afghano, perché anche i media e i politici occidentali capissero quello che sto scrivendo da anni: e cioè che Talebani e Isis non solo sono due cose diverse, i primi indipendentisti, i secondi terroristi internazionali, che non sono sovrapponibili nella galassia del radicalismo islamico e soprattutto che si combattono da sei anni da quando Isis ha provato a entrare in Afghanistan. In fondo, anche senza essere sul campo, bastava che ci si prendesse la briga di leggere i documenti. Il 16 giugno 2015 il Mullah Omar inviava ad Al-Baghdadi una lettera aperta in cui gli intimava di non entrare in Afghanistan dicendo sostanzialmente noi stiamo facendo una guerra di indipendenza che non ha nulla a che fare con i tuoi deliri geopolitici. La lettera è firmata da Mansur che era il suo storico numero due (mentre Baradar, indicato oggi impropriamente come co-fondatore del movimento talebano era solo uno dei collaboratori più stretti di Omar, adibito alla logistica). Comunque a parte le dichiarazioni di principio sono sei anni che Talebani e Isis si combattono in Afghanistan. Innumerevoli sono stati gli scontri regolarmente ignorati dalla stampa nostrana. Solo che i Talebani dovendo combattere contemporaneamente anche gli occupanti occidentali hanno fatto fatica a contenere Isis. Ora che hanno le mani libere lo spazzeranno via facilmente. Con i loro metodi che, legittimati dalla contro guerriglia Isis, non sono esattamente quelli di una democrazia occidentale. Quando nel 1996 il Mullah Omar prese il potere cacciando dall’Afghanistan i signori della guerra il Paese era infestato da bande di briganti che in queste situazioni trovano il loro brodo di coltura. Omar ordinò di arrestarne un manipolo e ne fece impiccare i componenti in una pubblica piazza. Fine dei briganti. La stessa sorte toccherà agli Isis ancora presenti in Afghanistan. In un articolo per Il Fatto (Afghanistan. Le verità che nessuno osa dire, 21/08/2021) dicevo che fra coloro che più rischiavano per la vittoria dei Talebani c’era proprio l’Isis.

Nei giorni scorsi un alto esponente della politica americana, mi pare Tony Blinken, esprimeva la preoccupazione che il disordine che c’è attualmente in Afghanistan avrebbe potuto portare ad attentati jihadisti negli Stati Uniti. Niente di più inverosimile. Se c’è un posto in cui l’Isis non ha possibilità né interesse a restare è proprio l’Afghanistan. Starebbe più al sicuro in Italia. È molto più probabile che gli jihadisti cerchino rifugio in Tagikistan dove sono scappati gli uomini del fu Massoud che hanno il dente avvelenato con i Talebani per essere stati da loro sconfitti due volte. È quindi casomai il Tagikistan e non l’Afghanistan che deve essere `monitorato` in senso antijihadista.

Dopo vent’anni di guerra la situazione economica e sociale dell’Afghanistan è ovviamente disastrosa. Gli Stati Uniti hanno congelato 9,5 miliardi di dollari che la Banca centrale afghana, la Da Afghan Bank, aveva depositato nelle banche Usa. Un provvedimento al limite della legalità, o forse del tutto illegale perché questi dollari appartenevano allo stato afghano e nulla dovrebbe contare il fatto che in Afghanistan è cambiato il governo. Uno stato esiste a tre condizioni: che abbia un governo, un territorio, una popolazione e queste condizioni lo stato afghano le ha tutte. Da questo embargo economico, e non dal governo talebano, derivano tutte le difficoltà che affrontano oggi i cittadini afghani: le banche non possono dare più di 200 dollari alla settimana, molti conti sono semplicemente bloccati, difficoltà nel dare i salari ai dipendenti. E questo stato di cose paralizza l’intera società afghana. Gli occidentali avendo perso nel modo più ignominioso la guerra con l’Afghanistan talebano cercano ora di rifarsi strangolandolo economicamente. Non sappiamo far guerre se non economiche. Del resto l’usanza non è nuova. È stata utilizzata con l’Iran, con il Venezuela e con tutti gli stati e i popoli che non sono allineati con l’Occidente.

La cosa più ragionevole sarebbe che allo stato afghano-talebano sia riconosciuto un seggio all’Onu e che all’Onu possano essere presenti anche i rappresentanti afghani. Cosa che i Talebani hanno già chiesto ricevendone però un niet. Se l’ottusità ideologica dell’Occidente continua sarà fatale che i Talebani si rivolgano alla Cina, che non li ha aggrediti, e anche alla Russia che dopo la disastrosa impresa dell’invasione 1979-1989 è stata la prima a cercare di avere buoni rapporti con i Talebani. Già cinque anni fa Putin aveva riconosciuto ai Talebani lo status di movimento "politico e militare non terrorista". Putin è un delinquente ma è un uomo di stato intelligente. Non so se la stessa cosa si possa dire di Biden, Macron e compagnia cantante.

Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2021

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Chi ha vinto le recenti elezioni amministrative? Io. Perché appartengo da sempre a quel movimento degli astensionisti che in questa tornata si è confermato come prima forza politica del Paese, lasciando, col suo 46%, i partiti, anche quelli che credono di avere vinto o piuttosto dicono di avere vinto, a una distanza siderale. Una vittoria “a paletti” come si dice in gergo ippico. E a quel 46% andrebbero aggiunte le schede bianche e nulle, dati che il Viminale si guarda bene, prudentemente, di fornire, di cittadini che, pur disgustati dalla politica, vogliono comunque onorare il rito democratico.

Né ci si può consolare affermando, come ho sentito dire, che anche nelle altre democrazie occidentali l’affluenza alle urne è piuttosto scarsa (comunque sempre intorno al 65, 70%). Perché il voto non voto – anche il non voto è un voto -  ha ragioni opposte. Nelle altre democrazie non si va a votare perché i cittadini si fidano della propria classe politica e quindi vinca l’uno o l’altro fa poca differenza. In Italia al contrario il non voto esprime una profonda diffidenza nei confronti della classe politica. Ci si può chiedere se un Paese dove una persona su due non va a votare sia ancora una democrazia. E infatti non lo è. È una partitocrazia, che è cosa diversa. La partitocrazia esaspera tutti gli elementi negativi della democrazia. La selezione della classe dirigente non avviene per merito perché, a differenza delle aristocrazie storiche, l’uomo politico democratico, e tanto più partitocratico, non possiede qualità specifiche, la sua sola qualità è tautologicamente quella di fare politica. Sono i professionisti della politica secondo la classica definizione di Max Weber. “Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito attraverso lotte oscure, feroci, degradanti, spesso truffaldine” (Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). In una situazione particolarmente degradata come quella italiana, dove si è perso il senso di valori condivisi, dove i partiti occupano non solo l’intero settore pubblico ma condizionano pesantemente anche quello privato, un sistema del genere porta inevitabilmente verso l’illegalità. Per prevalere  su un mio compagno di partito o su un altro sono disposto a tutto. E questa situazione di illegalità diffusa coinvolge spesso anche chi volentieri ne starebbe fuori. Non è tanto quindi una questione di uomini, perché nella nostra classe dirigente ce ne sono anche di capaci, ma di sistema. Per non farci mancar nulla assistiamo negli ultimi tempi, non solo da parte della cerchia berlusconiana che per motivi facilmente intuibili è sempre stata contro la Magistratura, a un tentativo di delegittimazione di quello che viene sprezzantemente chiamato il “manipulitismo” di cui si è fatto vessillifero anche Luciano Violante che pur è un ex magistrato. Insomma si tende a togliere di mezzo anche l’unico momento in cui la classe dirigente è stata chiamata a rispettare quelle leggi che tutti noi abbiamo l’obbligo di seguire. La classe politica sta dandosi da sola il calcio dell’asino. Non c’è quindi da meravigliarsi se molti e sempre di più si astengono per non legittimare questo gioco sporco.

Qualcuno ha ululato di gioia perché, dando già per scomparsi, peraltro un po’ prematuramente, i 5 stelle che pur avevano come uno dei punti fermi la legalità, si tornerebbe al bipolarismo. Ma che senso avrebbe questo bipolarismo. Sarebbe un bipolarismo senza ideali, asettico. Che cosa ci sia di sinistra nell’attuale Sinistra è difficile capire (“D’Alema dì qualcosa di sinistra, dì qualcosa”, Nanni Moretti) in quanto a questa destra definirla tale è un oltraggio alla Destra, una categoria storica che ha avuto una certa importanza.

Per tutto ciò, paradossalmente, a uscire vincitore da questa tornata elettorale è Silvio Berlusconi, non per la vittoria di Occhiuto in Calabria dove ha votato il 43%, ma perché si propone e viene proposto come federatore di sinistra, centro, destra in una grande ammucchiata da cui a essere escluso è solo il normale cittadino. Del resto il “delinquente naturale” sarebbe il presidente della Repubblica ideale perché rappresenta al meglio il peggio degli italiani.

L’altro paradosso è che a uscire vincente da queste elezioni è una perdente: Virginia Raggi. Ritengo quasi miracoloso che abbia ricevuto il 19% dei voti, dopo che per cinque anni è stata sottoposta ad un fuoco di fila di cui non ricordo l’uguale. Non aveva fatto ancora in tempo a mettere piede in Campidoglio che il Corriere della Sera apriva su due pagine una rubrica titolata “Caos Roma”. Improvvisamente si scoprivano i rifiuti di Roma, le buche di Roma, i topi di Roma, le rane di Roma e qualsiasi altro animale compreso l’Ippogrifo. Raggi, oltre ad aver dimostrato una tenuta nervosa straordinaria per una così giovane donna, ha molti meriti soprattutto per essersi dedicata alle periferie romane (qualcuno ricorderà, forse, il suo intervento in prima persona per far sloggiare i Casamonica da stabili che avevano occupato abusivamente per farvi entrare chi ne aveva diritto, è solo un esempio). Ma il suo torto maggiore è di aver cercato, in armonia con i principi dei 5 stelle, di riportare legalità in una città che vive di illegalità.

Infine. Sono decenni che ci rompono il cazzo con il femminismo. Per una volta che due donne, Appendino e Raggi, hanno raggiunto posizioni apicali in genere riservate agli uomini, si è fatto di tutto da parte dei media e di coloro che li controllano per stroncarle. E poi sarei io il misogino.

Il Fatto Quotidiano, 06 Ottobre 2021

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Fra le varie forme di globalizzazione che ci funestano adesso c’è anche quella dell’ipocrisia. Al genere appartiene il Global Citizen Live che chiede la fine della povertà estrema entro il 2030. È  il sequel di un fenomeno cominciato nel 1985 con Live Aid e proseguito con Usa for Africa, Band Aid, Farm Aid, Ferry Aid, Consipiracy of Hope. Sono eventi cui partecipano cantanti artisti vip di ogni genere. Costoro sono le moderne “Dame di San Vincenzo” che si lavano l’anima molto a buon mercato, anzi ricavandone un vantaggio, perché è vero che i cantanti o gli artisti si esibiscono gratuitamente, ma ne hanno un ritorno in immagine e popolarità. La novità del Global Citizen Live è che, come dice il nome stesso è mondiale, passando per Sydney, Seul, Mumbai, Johannesburg, Madrid, Parigi, New York. Vi si sono esibiti, fra gli altri, Elton John, Maneskin, Coldplay, Jennifer Lopez, insomma vecchie e nuove glorie. Né potevano mancare in questa gara della nobiltà d’animo Meghan Markle e il principe Harry. Ma questi sono solo dettagli. La manifestazione è ipocrita perché non si potrà eliminare alcuna povertà, né estrema né meno estrema, se non si cambia il modello di sviluppo nato con la Rivoluzione industriale. Cosa di cui né gli artisti né il miliardo circa di coloro che hanno seguito l’evento sembrano avere consapevolezza. In questo senso, e non solo in questo, il Global Citizen Live si lega al Youth4Climate che negli stessi giorni si è tenuto a Milano con la partecipazione anche di politici fra cui Mario Draghi. Perché fa gioco farsi vedere amichevoli e consenzienti con i giovani (altra retorica insopportabile) e magari essere immortalati con le nuove star del movimento ecologista Greta Thunberg e Vanessa Nakate.

I problemi epocali della povertà e dell’ambiente sono strettamente legati fra di loro e si sono sviluppati col modello innescato dalla Rivoluzione industriale. Partiamo da quello ambientale. Dal momento del take off, partito più o meno a metà del diciottesimo secolo in Inghilterra, l’aumento dell’emissione di CO2 è stato, in soli due secoli e mezzo, del 30 per cento. Il marcio sta quindi in quello che noi chiamiamo Sviluppo. Un politico onesto con se stesso e con i suoi elettori invece di fare promesse mirabolanti (il “bla bla” di cui parla Thunberg) dovrebbe dir loro: consumate di meno. Ma questo significherebbe anche, e soprattutto, produrre di meno. Cioè verrebbe completamente scaravoltato il modello su cui oggi viviamo che può essere sintetizzato col distico dei CPI: produci, consuma, crepa. Un politico che volesse essere ambientalista sul serio, e non solo a parole, farebbe questo discorso: io non vi prometto più viaggi ai Caraibi, migliori automobili, straordinarie innovazioni tecnologiche, al contrario propongo la riduzione di tutto questo, in cambio vi prometto più tempo per voi stessi. Negli Stati Uniti, paese di punta dell’attuale modello di sviluppo e che, in quanto tale, è il primo a produrre degli anticorpi, esistono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, il cui discorso di fondo, in estrema sintesi, è il seguente: un ritorno limitato, graduale e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra, depauperata in gran parte della chimica con cui con cui si crede di difenderla, e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario. Ma sono correnti di pensiero che, per quanto siano autorevoli negli Usa e non totalmente ignorate come da noi, sono al momento assolutamente minoritarie. In un mondo tutto proiettato verso la crescita pensieri del genere suonano come bestemmie in Chiesa. Eppure gli ignorantissimi contadini del Medioevo, `i secoli bui`, avevano intuito la dannosità dell’uso del carbon fossile al posto della cara e vecchia legna. Ma naturalmente furono ignorati in nome del progresso.

In quanto alla povertà, estrema e non, della cui eliminazione si fanno vessilliferi le “anime belle” del Global Citizen Live è stato proprio il sistema di sviluppo industriale a creare la straordinaria divaricazione fra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno dei paesi dello stesso mondo occidentale. Il primo a notare questo fenomeno è stato Alexis de Tocqueville, che pur non può essere in alcun modo annoverato fra gli antimodernisti, ma è piuttosto uno dei padri dell’Illuminismo, a notare nel suo libro Il pauperismo che è del 1835 questo straordinario fenomeno. Scrive infatti Tocqueville: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove, in realtà, si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”. Del resto nel Medioevo europeo i poveri rappresentavano l’1 per cento della popolazione, ed erano tali per loro scelta, come oggi certi clochard.

Bene, dirà il lettore, se ci sono più poveri al mondo ci dovrebbe essere almeno meno inquinamento perché i poveri consumano meno. Ma non è così perché la loro povertà è compensata, per così dire, dagli enormi consumi dei ricchi, diventati sempre più ricchi, e dei benestanti.

Il Covid avrebbe potuto essere una straordinaria occasione per un cambiamento di rotta. Ci eravamo abituati, per necessità, a consumare di meno e ad abbandonare l’enorme superfluo che ci circonda. Ma si vedono già le avvisaglie che non andrà così. Continueremo a correre, correre, correre, inseguendo il mito della Crescita finché non finiremo per spiaccicarci contro il Limite che esiste in tutte le cose, umane e non umane (“in ogni principio è contenuta la sua fine”, Eliot). I dinosauri scomparvero perché erano troppo grossi. Noi, con le nostre propaggini tecnologiche siamo diventati i dinosauri di oggi. La Natura ci sbatterà fuori.

Il Fatto Quotidiano, 05 Ottobre 2021

"Ai tempi mostri" (Il Ribelle dalla A alla Z)