Fra le varie forme di globalizzazione che ci funestano adesso c’è anche quella dell’ipocrisia. Al genere appartiene il Global Citizen Live che chiede la fine della povertà estrema entro il 2030. È il sequel di un fenomeno cominciato nel 1985 con Live Aid e proseguito con Usa for Africa, Band Aid, Farm Aid, Ferry Aid, Consipiracy of Hope. Sono eventi cui partecipano cantanti artisti vip di ogni genere. Costoro sono le moderne “Dame di San Vincenzo” che si lavano l’anima molto a buon mercato, anzi ricavandone un vantaggio, perché è vero che i cantanti o gli artisti si esibiscono gratuitamente, ma ne hanno un ritorno in immagine e popolarità. La novità del Global Citizen Live è che, come dice il nome stesso è mondiale, passando per Sydney, Seul, Mumbai, Johannesburg, Madrid, Parigi, New York. Vi si sono esibiti, fra gli altri, Elton John, Maneskin, Coldplay, Jennifer Lopez, insomma vecchie e nuove glorie. Né potevano mancare in questa gara della nobiltà d’animo Meghan Markle e il principe Harry. Ma questi sono solo dettagli. La manifestazione è ipocrita perché non si potrà eliminare alcuna povertà, né estrema né meno estrema, se non si cambia il modello di sviluppo nato con la Rivoluzione industriale. Cosa di cui né gli artisti né il miliardo circa di coloro che hanno seguito l’evento sembrano avere consapevolezza. In questo senso, e non solo in questo, il Global Citizen Live si lega al Youth4Climate che negli stessi giorni si è tenuto a Milano con la partecipazione anche di politici fra cui Mario Draghi. Perché fa gioco farsi vedere amichevoli e consenzienti con i giovani (altra retorica insopportabile) e magari essere immortalati con le nuove star del movimento ecologista Greta Thunberg e Vanessa Nakate.
I problemi epocali della povertà e dell’ambiente sono strettamente legati fra di loro e si sono sviluppati col modello innescato dalla Rivoluzione industriale. Partiamo da quello ambientale. Dal momento del take off, partito più o meno a metà del diciottesimo secolo in Inghilterra, l’aumento dell’emissione di CO2 è stato, in soli due secoli e mezzo, del 30 per cento. Il marcio sta quindi in quello che noi chiamiamo Sviluppo. Un politico onesto con se stesso e con i suoi elettori invece di fare promesse mirabolanti (il “bla bla” di cui parla Thunberg) dovrebbe dir loro: consumate di meno. Ma questo significherebbe anche, e soprattutto, produrre di meno. Cioè verrebbe completamente scaravoltato il modello su cui oggi viviamo che può essere sintetizzato col distico dei CPI: produci, consuma, crepa. Un politico che volesse essere ambientalista sul serio, e non solo a parole, farebbe questo discorso: io non vi prometto più viaggi ai Caraibi, migliori automobili, straordinarie innovazioni tecnologiche, al contrario propongo la riduzione di tutto questo, in cambio vi prometto più tempo per voi stessi. Negli Stati Uniti, paese di punta dell’attuale modello di sviluppo e che, in quanto tale, è il primo a produrre degli anticorpi, esistono due correnti di pensiero, il bioregionalismo e il neocomunitarismo, il cui discorso di fondo, in estrema sintesi, è il seguente: un ritorno limitato, graduale e ragionato a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra, depauperata in gran parte della chimica con cui con cui si crede di difenderla, e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario. Ma sono correnti di pensiero che, per quanto siano autorevoli negli Usa e non totalmente ignorate come da noi, sono al momento assolutamente minoritarie. In un mondo tutto proiettato verso la crescita pensieri del genere suonano come bestemmie in Chiesa. Eppure gli ignorantissimi contadini del Medioevo, `i secoli bui`, avevano intuito la dannosità dell’uso del carbon fossile al posto della cara e vecchia legna. Ma naturalmente furono ignorati in nome del progresso.
In quanto alla povertà, estrema e non, della cui eliminazione si fanno vessilliferi le “anime belle” del Global Citizen Live è stato proprio il sistema di sviluppo industriale a creare la straordinaria divaricazione fra paesi ricchi e paesi poveri e all’interno dei paesi dello stesso mondo occidentale. Il primo a notare questo fenomeno è stato Alexis de Tocqueville, che pur non può essere in alcun modo annoverato fra gli antimodernisti, ma è piuttosto uno dei padri dell’Illuminismo, a notare nel suo libro Il pauperismo che è del 1835 questo straordinario fenomeno. Scrive infatti Tocqueville: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove, in realtà, si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”. Del resto nel Medioevo europeo i poveri rappresentavano l’1 per cento della popolazione, ed erano tali per loro scelta, come oggi certi clochard.
Bene, dirà il lettore, se ci sono più poveri al mondo ci dovrebbe essere almeno meno inquinamento perché i poveri consumano meno. Ma non è così perché la loro povertà è compensata, per così dire, dagli enormi consumi dei ricchi, diventati sempre più ricchi, e dei benestanti.
Il Covid avrebbe potuto essere una straordinaria occasione per un cambiamento di rotta. Ci eravamo abituati, per necessità, a consumare di meno e ad abbandonare l’enorme superfluo che ci circonda. Ma si vedono già le avvisaglie che non andrà così. Continueremo a correre, correre, correre, inseguendo il mito della Crescita finché non finiremo per spiaccicarci contro il Limite che esiste in tutte le cose, umane e non umane (“in ogni principio è contenuta la sua fine”, Eliot). I dinosauri scomparvero perché erano troppo grossi. Noi, con le nostre propaggini tecnologiche siamo diventati i dinosauri di oggi. La Natura ci sbatterà fuori.
Il Fatto Quotidiano, 05 Ottobre 2021
"Ai tempi mostri" (Il Ribelle dalla A alla Z)
Il tennista serbo Novak Djokovic, il numero uno al mondo, è la pietra di uno scandalo internazionale di cui fra gli altri ci dà diligente notizia il Corriere della Sera orientata in direzione antiserba.
Quali sono le colpe di Djokovic? In un servizio di Al-Jazeera Djokovic è stato ritratto in una serie di foto "a una festa, scherzoso con Milorad Dodik, il leader serbo bosniaco, uno che nega i novemila massacrati a Srebenica e considera un eroe Ratko Mladic, il macellaio condannato all’Aja per genocidio…Novak abbracciato a Srdjan Mandic che faceva da segretario al criminale di guerra Radovan Karadzic e alle sue pulizie etniche…Novak accomodato con Milan Jolovic, il comandante dei feroci Lupi della Drina, il lupo che i serbo-bosniaci chiamano The Legend, leggendario perché salvò la vita a quell’altra belva di Mladic". Ma forse la colpa più grave di Djokovic è di aver detto: "il Kosovo è serbo, nessuno può strapparmi il Kosovo dall’anima. Purtroppo ci sono poteri che non si possono combattere".
Che un serbo sia pur famoso quand’è in vacanza nella sua terra frequenti amici serbi nessuno dei quali è stato condannato per "crimini di guerra" dal pur prevenuto Tribunale internazionale dell’Aja non ci sembra cosa strana. La vera colpa di Djokovic è di esser serbo e di coltivare sentimenti serbi in contrasto con quella informe, ma potentissima "comunità internazionale" di cui sono magna pars gli Stati Uniti che in modo del tutto arbitrario decide chi sono "i cattivi e i buoni" del mondo.
Per capire l’importanza simbolica, ma anche concreta, del crucifigge a Djokovic bisogna fare un lungo passo indietro. Dopo il 1989, col collasso dell’Unione Sovietica, si disgrega anche quella Jugoslavia tenuta miracolosamente insieme dal Maresciallo Tito che era riuscito a far convivere comunità balcaniche che si detestano da sempre: croati, serbi, musulmani. Nel 1992 la Croazia, dopo qualche scontro con l’esercito jugoslavo, ottiene l’indipendenza in base al sacrosanto principio della "autodeterminazione dei popoli" sancito a Helsinki nel 1975, ma anche grazie all’appoggio della Germania e del Vaticano (i croati sono cattolici, i serbi ortodossi). La Slovenia se n’era già andata senza colpo ferire (e qui inserisco una parentesi che mi sta sentimentalmente a cuore: nel 1992 si svolgevano, in Svezia i campionati europei di calcio e la Jugoslavia, la meravigliosa Jugoslavia degli Stojkovic, serbo, dei Savicevic, montenegrino, dei Bazarevic, bosniaco, dei Prosinecki, croato, vi arrivava avendo vinto tutte le gare del torneo eliminatorio tranne una pareggiata. I ragazzi erano già in Svezia, ma furono rimandati a casa. Una decisione ignominiosa. Perché è vero che a quel punto la Jugoslavia giuridicamente non esisteva più, ma quella squadra e i suoi ragazzi sì e avrebbero dovuto essere rispettati). A quel punto i serbi di Bosnia chiesero a loro volta l’indipendenza o l’unione alla madrepatria serba. Una Bosnia multietnica a guida musulmana si giustificava solo all’interno di una Jugoslavia a sua volta multietnica che non esisteva più. Ma quello che era stato accordato a Croazia e Slovenia non fu concesso ai serbi bosniaci. E questi scesero allora in guerra. E poiché, a detta di coloro che si intendono di queste cose, sono, sul terreno, i migliori combattenti del mondo la stavano vincendo. Ma a favore di croati e musulmani bosniaci intervennero gli Stati Uniti e trasformarono i vincitori in vinti. È vero che in quella guerra accaddero fatti atroci ad opera di tutte le parti combattenti, ma non è certamente un caso che davanti al Tribunale internazionale dell’Aja siano finiti solo serbi, Radovan Karadizic e Ratko Mladic (accusato, fra le altre cose, di aver assediato Sarajevo, e allora mettiamo alla gogna anche Annibale che per otto mesi assediò Sagunto, l’assedio fa parte della guerra), mentre il presidente croato Tudjman, autore della più gigantesca "pulizia etnica" dei Balcani (850.000 serbi cacciati dalle Craine in un sol giorno) è morto tranquillamente nel suo letto.
Alla guerra bosniaca fu posta fine grazie all’accordo di Dayton al quale, sotto l’egida di Bill Clinton, partecipò anche Slobodan Milosevic il Presidente della Serbia.
Ma agli Stati Uniti non bastava. Nel frattempo era nata la questione del Kosovo. In Kosovo, che è considerato "la culla della patria serba", gli albanesi erano diventati maggioranza e pretendevano l’indipendenza dalla Serbia. Ma una terra non è solo di chi la abita in quel momento, ma anche delle generazioni che l’hanno vissuta, lavorata e costituita in precedenza. Sarebbe come se nel nostro Piemonte gli islamici, divenuti maggioranza, pretendessero l’indipendenza dall’Italia e di costituire uno stato a sé. Gli indipendentisti albanesi facevano largo uso del terrorismo, come sempre avviene quando dei partigiani hanno a che fare con un esercito regolare, e non saremo noi a condannarli per questo, la Serbia rispondeva con l’esercito e con alcuni reparti paramilitari come le famose "tigri di Arkan". Era una questione interna alla Serbia che avrebbe dovuto essere decisa dal campo. Ma intervennero, al solito, gli americani che decisero che i serbi avevano torto e i kosovari albanesi ragione. Per 72 giorni gli aerei NATO, che partivano da Aviano (perché gli italiani c’erano nella solita, vile, parte del `palo`) bombardarono una grande capitale europea, Belgrado, che, per farsi un’idea, è come bombardare Milano. In realtà allora la vera colpa della Serbia era quella di essere rimasta l’unico Paese paracomunista d’Europa. E mentre fino a poco tempo prima per l’intellighenzia del Vecchio Continente bastava essere filocomunisti per avere ragione, adesso bastava essere similcomunisti per avere torto. Milosevic che pur era stato decisivo negli accordi di Dayton fu trascinato, non si capisce per quale ragione davanti al solito Tribunale dell’Aja. Il processo cominciò con grande clamore ma poi fu silenzio perché Milosevic, avvocato, aveva buone carte per difendersi. Morirà d’infarto in prigione a 64 anni.
L’obiettivo degli americani era di creare nei Balcani una striscia di islamismo moderato (Albania più Bosnia più Kosovo) a favore di quello che era allora il loro grande alleato nella regione, la Turchia. Abbiamo visto come poi è andata a finire: la Turchia, pur restando un alleato NATO, sotto Erdogan conduce una politica profondamente antiamericana e così adesso al posto di una temuta, e quasi immaginaria, `Grande Serbia` c’è nei Balcani una concretissima `Grande Albania` dove, a due passi da noi, trova alimento l’Isis. Intanto in Kosovo si è realizzata, dopo quella di Tudjman, la più grande "pulizia etnica" dei Balcani: dei 360.000 serbi ne sono rimasti solo 60.000.
A una trasmissione di Floris – doveva essere il 2002- presente Massimo D’Alema, che era premier all’epoca dell’aggressione alla Serbia, condannata dall’Onu, dissi: "Mi perdoni, presidente, ma la guerra alla Serbia oltre che illegittima dal punto di vista del diritto internazionale, se l’Onu conta ancora qualcosa, è stata una guerra cogliona perché ha favorito nei Balcani quell’islamismo radicale che oggi provoca le isterie "Fallaci style". D’Alema non replicò. Ma io a Ballarò non ho più rimesso piede.
Il Fatto Quotidiano, 30 Settembre 2021
L’obbligatorietà, più o meno nascosta, del Green pass ha sollevato un problema di fondo che, irresoluto, insegue il genere umano dalla sua comparsa: se la libertà (la sicurezza) di tutti, o della maggioranza, abbia diritto di prevalere sulla libertà del singolo o se il singolo abbia il diritto di fare le sue scelte. Sul tema sono intervenuti sul nostro giornale Gad Lerner, autorevole firma del Fatto, e Carlo Freccero, intellettuale di lungo corso. Se dovessi replicare ai due risponderei con le parole che Sancio Panza rivolge a Don Chisciotte: “Mio signore, io purtroppo sono un povero ignorante e del vostro discorso astratto ci ho capito poco o niente”. Sia Lerner che Freccero non resistono infatti alla tentazione di buttarla in politica inserendo argomenti come il referendum di Matteo Renzi, il sovranismo, il futurismo.
Il dilemma è più diretto e allo stesso tempo molto più complesso e si incarna nell’eterno conflitto fra Autorità e Libertà. Risale almeno al Seicento quando si incanala nel duello intellettuale fra Blaise Pascal e Cartesio. Pascal sostiene che non esistono certezze assolute sulla natura umana che è fluttuante nei suoi principi e nei suoi conseguenti costumi, Cartesio, al contrario, fonda il suo ragionare su una certezza opposta: esistono principi universali validi per tutte le genti. Questo dibattito si sviluppò non a caso nel Seicento, e ancor prima con Montaigne nel Cinquecento, all’epoca delle grandi esplorazioni che portarono quello che oggi chiameremmo Occidente a contatto con culture molto diverse dalle nostre. In un famoso capitolo dei ‘Saggi’, Dei Cannibali, Montaigne dice sostanzialmente: certo per noi i cannibali sono loro, ma ai loro occhi i cannibali siamo noi. Sarebbe molto istruttivo riprodurre l’intero capitolo perché è attualissimo da quando la Democrazia, vale a dire l’Illuminismo cartesiano, ha inteso proporsi come valore assoluto e universale. In termini meno antropologici e più politici Flaubert dice: “Ma nessun potere è legittimo, nonostante i loro sempiterni principi. Ma, siccome principio significa origine, bisogna riferirsi sempre a un inizio […] Così il principio del nostro è la sovranità nazionale, intesa in forma parlamentare… Ma in che cosa mai la sovranità nazionale sarebbe più sacra del diritto divino? Sono finzioni, l’una e l’altra”.
Ma se non c’è un principio, un qualsivoglia credo, una ‘roccia’ come la chiama Cartesio, cui ancorarsi, nasce lo straziante grido di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”. Si sarebbe tentati di credere che fra Libertà e Autorità l’uomo scelga istintivamente la prima. Ma non è così. L’uomo ha bisogno dell’Autorità, altrimenti non si capirebbe come mai per millenni, alle volte esplicita più spesso mascherata, sia sempre esistita un’Autorità. Il fatto è, anche se spiace ammetterlo, che l’uomo ha bisogno dell’Autorità perché lo libera dal torturante dilemma della scelta e nello stesso tempo gli lascia un quid inesplorato che lo sciolga dalle certezze dogmatiche. Lo chiarisce splendidamente Dostoevskij nell’apologo del Grande Inquisitore inserito nei ‘Fratelli Karamazov’. Siamo nel Cinquecento, Cristo è tornato sulla terra perché la Chiesa di Paolo ha tradito il suo messaggio libertario. Il Grande Inquisitore, il novantenne cardinale di Siviglia, lo fa mettere immediatamente nelle più profonde segrete della città e gli fa questo discorso: “Oh, ne passeranno ancora dei secoli nel bailamme della libera intelligenza, della scienza umana e dell’antropofagia, poiché, avendo cominciato a edificare la loro torre di Babele senza noi, andranno a finire con l’antropofagia! Ma verrà pure un giorno che la fiera s’appresserà a noi, e si metterà a leccare i nostri piedi , e ad annaffiarli con lacrime di sangue. E noi monteremo sulla fiera e innalzeremo la coppa e su questa sarà scritto: ‘MISTERO!’”. L’antilluminista Dostoevskij coincide dunque da una parte con l’illuminista Cartesio, che fonda la ragione moderna, perché riconosce che l’uomo ha bisogno di una certezza, di una qualsiasi certezza, ma d’altro canto se ne distacca profondamente perché proprio la certezza è ciò che lo uccide (“Amleto, chi lo capisce? È la certezza, non il dubbio che uccide” Nietzsche). Detto in termini più semplici: se io vivo in una stanza (mondo) dove tutto è illuminato, dove conosco anche il più piccolo pulviscolo, che altro mi resta da fare se non tirarmi un colpo di pistola?
Si potrebbe aggiungere con Eraclito che il problema è risolto in quanto irrisolvibile: “tu non troverai i confini dell’Anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione” e aggiunge che “la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana”.
Il mediocre problema del Green pass, che in fondo, e in questo sono d’accordo con Freccero, nasce solo dalla paura, un’abbietta paura della morte, sconosciuta in questi termini dalle generazioni che ci hanno preceduto anche solo di una cinquantina d’anni, ha avuto se non altro il merito di togliere il dibattito pubblico, almeno per un po’, dagli infimi temi della politica per portarlo su una questione di fondo. Ma poiché siamo dei nani seduti sulle spalle di giganti non saremo proprio noi ad arrivare là dove non sono arrivati Pascal, Cartesio, Dostoevskij. Ci rimane però il piacere, da non sottovalutare, della dialettica.
Il Fatto Quotidiano, 25 Settembre 2021