0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Per Sartre la vita imita il calcio, per Givone il calcio la spiega. Fra questa dicotomia, solo apparentemente tale, oscilla il libro di Alessandro Gnocchi Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno. Perché se è vero che Sartre, nel suo razionalismo, ha ragione, è altrettanto vero, come dice Givone, che il calcio è un fertilissimo campo, è il caso di dirlo, di metafore della vita (la principale e più nota è la guerra) che dà innumerevoli spunti di riflessione in ambito politico, sociale, sociologico, letterario. E dei rapporti fra calcio e letteratura si occupa appunto Gnocchi. Un libro godibilissimo perché Gnocchi, capo dei servizi culturali de Il Giornale, affronta questo tema, in realtà assai profondo, rinunciando a ogni leziosità colta in favore di uno stile piano, sciolto, digeribile da tutti. In realtà Gnocchi possiede, o per meglio dire è posseduto, da una doppia anima: quella del letterato e quella del tifoso “la mattina in biblioteca, la sera a vedere la partita, la giornata perfetta” dice, mi pare, in un passaggio. Prima di entrare in medias res, nel primo capitolo intitolato giustamente Riscaldamento Gnocchi ci offre una serie di curiosità ignote anche ai più appassionati calciofili. Parla cioè dei letterati, dei filosofi, dei poeti, dei narratori che oltre a parlare di calcio lo hanno praticato. Di Pasolini lo sapevamo tutti. Come era intuibile che Albert Camus, con quel suo bel fisico da pied-noir algerino, tanto diverso dallo stortignaccolo Sartre, fosse un buon portiere. Ma chi avrebbe mai immaginato che l’austero e solitario Heidegger, terrore di ogni studente di filosofia quando deve affrontare La questione della tecnica o le riflessioni su Nietzsche dove riesce, impresa quasi impossibile, ad andare oltre il pensiero del filosofo di  Röcken , avendo imparato dallo stesso Nietzsche che “non fa onore al suo maestro chi rimane sempre allievo” e che negli ultimi anni della sua vita si era rifugiato su una montagna quasi irraggiungibile da cui aveva fatto ruzzolare, con disgusto, Sartre, che si pretendeva suo allievo, fosse stato in gioventù “un’ala sinistra mica male”? Che il pesantissimo Derrida, altro interprete, però mal riuscito, di Nietzsche, fosse stato un “valido centravanti” e che Benedetto Croce fosse in gioventù “una promessa del calcio”? Quest’ultima probabilmente è un’invenzione di Antonio Pennacchi. Ma in fondo anche questa è letteratura. Sulla letteratura.

Ma veniamo al sodo. “Saba ha scritto le cinque poesie italiane più note sul calcio: Squadra paesana, Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio e Goal. Quest’ultima descrive le reazioni delle squadre a una rete segnata . Tutto è vissuto attraverso i sentimenti dei portieri. Quello battuto è inutilmente consolato dai compagni. Quello inviolato festeggia da lontano. È una poesia sulla solitudine. Del portiere, di Saba, degli uomini in generale”. Motivo ripreso, non per il portiere ma per la squadra, da Max Pezzali in “La dura legge del gol”.  Il mito vuole che Wittgenstein “ebbe un’illuminazione davanti a una partita di calcio a Cambridge. Anche il linguaggio era un gioco. Era nata la teoria cardine di Wittgenstein: il gioco linguistico”. Non è una fumisteria filosofica: il calcio è un linguaggio, la partita un racconto. Un racconto che si dipana in 90 minuti (oggi molto di più con le cinque insopportabili sostituzioni) e dove ogni gesto, anche il pallone calciato sfacciatamente in tribuna, ha un senso, un senso poetico.

Su molte cose Gnocchi ed io siamo d’accordo. Il vero calcio non è quello televisivo. Caduti i vecchi riti il calcio è l’ultimo luogo riservato al sacro. E come ogni manifestazione sacrale vuole una concentrazione assoluta. Ecco perché non si può andare a vedere una partita con una donna. Non puoi vedere una partita allo stadio, che è come una chiesa, e allo stesso tempo sbaciucchiarti.

Tutto ciò che abbiamo detto finora vale per il calcio d’antan, non per quello di oggi. E credo che Gnocchi, anche se non lo dice esplicitamente, possa essere d’accordo. Del resto non si può essere tifosi quasi maniacali della Cremonese, cioè di una squadra minore, senza amare il calcio romantico di una volta oggi invaso da Televisione, Economia, Tecnologia.

Innanzitutto oggi sul calcio giocato prevale il calcio raccontato e con un’enfasi sconosciuta fino a non molto tempo fa. Bruno Pizzul è stato il telecronista della Nazionale italiana per più di quindici anni dal 1986 al 2002. Riusciva a rendere il patos della partita, tenendo ovviamente per la nostra Nazionale, ma senza lo sbraco dei telecronisti d’oggi. Ogni goal, parata sono straordinari, meravigliosi, unici (contraddizioni in termini) invece son cose che, salvo qualche rara eccezione, abbiamo visto mille volte. Insopportabile è poi il VAR. Tu fai un goal e non puoi nemmeno esultare, devi aspettare cinque minuti. Decide il VAR. L’arbitro è ridotto a un passa carte, un impiegato della tecnologia. Non è un più il dio in campo come una volta (“Rigore è quando arbitro fischia”, Boškov).

Il calcio, proprio perché appartiene al sacro, è tradizione. E qui Gnocchi introduce Leopardi. Secondo Leopardi il poeta deve conoscere a fondo i cardini di quello che, usando un termine molto riduttivo, potremmo definire il suo mestiere, ma deve anche avere la capacità di superarli e andare oltre (Calci di rigore: la libertà del calcio). È il pensiero anche di Carmelo Bene. Ma oggi in circolazione non ci sono né Carmelo Bene né tantomeno Giacomo Leopardi. Io sto quindi con gli ultras, gli infamati ultras che qualche anno fa, in rappresentanza di 72 società, organizzarono in una giornata di giugno, canicolare e patibolare, una civile e composta manifestazione davanti al grattacielo della FIGC di Milano al grido di: “ridateci il calcio di una volta”.

Il Fatto Quotidiano, 19 Ottobre 2021

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Gli occidentali non ce la fanno proprio a non essere  “umanitari”. Sono proprio commoventi in questa loro missione. Erano andati in Afghanistan vent’anni fa per sconfiggere il terrorismo. Ci hanno messo anni per capire quello che sapevano già: che la dirigenza talebana dell’epoca era completamente all’oscuro dell’attacco alle Torri gemelle e che non aveva niente a che fare col terrorismo internazionale allora impersonato da Bin Laden e che prendeva il nome di Al Qaeda. Lo sapevano talmente bene che già nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva preso contatti con il Mullah Omar per far fuori Bin Laden e Omar si era dichiarato disponibile. Ma Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro per ragioni rimaste misteriose. E questi sono documenti del Dipartimento di Stato resi noti nell’agosto del 2005. 

Poiché il terrorismo internazionale non aveva niente a che fare con i Talebani la missione occidentale, che non faceva più capo all’Onu, cambiò nome e si chiamò “Riportare la speranza” in Afghanistan. Che cosa abbiano fatto per  vent’anni  gli occidentali in Afghanistan non è facile capire. Ancora oggi tra le lagnose lamentele sulla “disastrosa situazione in Afghanistan” – e lo credo bene dopo vent’anni di guerra - c’è che mancano gli ospedali. Cioè in vent’anni non siamo stati nemmeno capaci  di costruire degli ospedali, rimane solo Emergency che era in Afghanistan, a Kabul e a Lashkargah, già all’epoca in cui governava il Mullah Omar. Siamo stati invece abilissimi nel sommergere quella gente con fiumi di dollari per corromperla. Operazione in parte riuscita, molti di quelli che oggi scappano dall’Afghanistan sono persone che hanno intascato i soldi che dovevano andare al popolo afghano. A cominciare dall’ultimo Presidente Ashraf Ghani, al suo ancor più impresentabile predecessore Hamid Karzai, il cui fratello era uno dei più grandi trafficanti di oppio, giù giù fino ai governatori provinciali, alla polizia, alla magistratura. La magistratura era talmente corrotta che si pagava per avere una sentenza favorevole tanto che, soprattutto nella vastissima area rurale ( circa il 90% del Paese )  gli afghani preferivano ricorrere alla giustizia talebana, più sbrigativa ma non corrotta, come ha documentato Ahmed Rashid in Caos Asia. I talebani sono stati fin troppo accomodanti emanando quasi immediatamente un’amnistia per questi mascalzoni. 

Poiché non sono riusciti a sconfiggere l’Afghanistan talebano sul campo gli occidentali cercano ora di riappropriarsene manovrando la leva ricattatoria degli “aiuti umanitari”.

Al G20 straordinario per l’Afghanistan il Presidente italiano Mario Draghi ha dichiarato: “L’impressione è che i talebani e l’Isis non siano amici”. O bella, ma che bravo, che intuizione formidabile, la scoperta dell’acqua calda. 

La posizione più intelligente l’hanno presa i Paesi che di fatto a questa buffonata del G20 non hanno partecipato, Russia e Cina: richiamandosi al principio della autodeterminazione dei popoli e quindi all’illegittimità “dell’interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano” e proponendo la restituzione a Kabul delle riserve finanziarie detenute nelle Banche Usa e in Gran Bretagna. Una appropriazione, questa, del tutto indebita perché non è sufficiente che uno Stato cambi il proprio Governo per rendere legittimo il sequestro delle sue riserve auree. E’ a questo sequestro, e non al governo talebano, che vanno attribuite molte delle difficoltà in cui si trova oggi l’Afghanistan.

Naturalmente gli occidentali, sempre più ”umanitari”, condizionano i loro interventi finanziari ponendo delle condizioni: sui diritti civili, sui diritti delle donne allo studio e al lavoro e così via. Si scrive che attualmente le donne possono frequentare solo le elementari. In un’intervista rilasciata al Corriere il portavoce dei Talebani e capo della Commissione culturale Zabihullah Mujahed ha assicurato che questi diritti verranno garantiti e che al più presto le scuole superiori e le Università saranno aperte a tutti, secondo programmi uguali per tutti, uomini e donne. Ma che bisogna lasciar loro un po’ di tempo.  Naturalmente tutto ciò all’interno dell’interpretazione hanafita, che è la loro, della Sharia. “A queste tradizioni millenarie non intendiamo rinunciare” ha aggiunto. Non si può pretendere che i talebani abbandonino la propria cultura e le proprie tradizioni. Non hanno combattuto vent’anni per questo. Non si può chieder loro di adottare una costituzione liberale di tipo occidentale.  Non hanno combattuto vent’anni per trovarsi di nuovo sul collo la “cultura superiore”. Ricadiamo qui, ancora una volta, nel “vizio oscuro dell’occidente” di voler imporre la propria cultura, le proprie istituzioni, la propria democrazia all’universo mondo, si chiami Afghanistan o Libia o Venezuela. Tutto ciò senza sapere né capire nulla delle culture di quei Paesi. Che ne sa l’Onorevole Draghi, un banchiere che non è mai stato in Afghanistan, che lo conosce solo dalle carte geografiche, delle tradizioni, dei costumi, delle usanze di quel Paese? Che ne sanno i vari Capi di Stato che hanno partecipato al G20 straordinario?

Qualche anno fa un giornalista Rai intervistò il Comandante delle forze sovietiche che avevano occupato a suo tempo l’Afghanistan e gli chiese: “Che cosa dobbiamo e possiamo fare per salvare l’Afghanistan?” rispose: “bisogna lasciare che gli afghani si salvino da soli”. Cioè bisogna lasciare che ogni popolo si evolva, o anche non si evolva, secondo la propria volontà, le proprie tradizioni, la propria storia. 

C’è stato bisogno di un Comandante sovietico perché ci desse una lezione di democrazia internazionale.

Il Fatto Quotidiano, 16 Ottobre 2021 

 

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

In democrazia tutte le idee, anche quelle che appaiono aberranti ai più, hanno diritto di cittadinanza. Quindi anche quelle di Forza Nuova (Dio, Chiesa, Famiglia, Patria, Nazione). Ma c’è un limite assoluto e invalicabile: nessuna idea, buona o cattiva che sia, può essere fatta valere con la violenza. Perciò è del tutto legittimo che i responsabili degli attacchi alla sede della Cigl e al Pronto Soccorso dell’ospedale Umberto I siano finiti in galera tanto più che colti, senza possibilità di equivoco, in flagranza di reato (anche se oggi, Cartabia dixit, nemmeno la flagranza è a volte sufficiente per l’arresto, naturalmente per i reati di `lorsignori`, cioè corruzione e concussione, mentre per i reati da strada, in genere commessi da povera gente, vige il motto di Madama Santanché: "in galera subito, e buttare via le chiavi”).

Sono invece assolutamente contrario allo scioglimento di Forza Nuova. Per due motivi. Il primo è di principio e si rifà, come ho detto, al diritto di espressione di qualunque idea. È vero che la legge Scelba del 1952, recependo l’articolo XII delle “disposizioni transitorie” della Costituzione, vieta la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e ogni manifestazione di apologia del fascismo. Questa legge era storicamente comprensibile perché uscivamo da una sanguinosa guerra civile e una ricostituzione del partito fascista a soli sette anni dalla fine del conflitto non pareva accettabile. Anche se qualche dubbio vi fu. Palmiro Togliatti era avverso alla legge Scelba perché capiva benissimo che si comincia col mettere fuori legge i fascisti e si finisce per farlo anche con i comunisti. Si apre cioè una voragine che può non aver fine. Sia come sia è una legge giustificata da quel particolare momento storico, ma non può valere per l’eternità tanto che, appunto, si richiama alle “disposizioni transitorie” della Costituzione. Ora, se le parole hanno un senso ciò che è “transitorio” deve pur avere un termine. E a 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale questo termine appare abbondantemente scaduto.

Il secondo motivo è pratico. Una organizzazione politica, strutturata, è controllabile dalle forze di polizia, se la sciogli i suoi adepti si disperdono nella società. È in fondo lo stesso discorso del rapporto fra "mondo di mezzo" romano e la Mafia propriamente detta. La Mafia è una organizzazione strutturata, con boss, sottoboss, esecutori, individuati e individuabili e quindi, sol che lo si volesse, contrastabile ed eliminabile (lo fece proprio il Fascismo perché un potere forte non può tollerare al proprio interno un altro potere forte). Il “mondo di mezzo” è liquido, per dirla con Vattimo, e quindi è molto difficile sapere dove stia. Può albergare ovunque, anche nella persona con cui in treno stai intrattenendo una piacevole conversazione. Non ha modi di fare per cui lo si possa individuare come delinquente.

Ma le manifestazioni, in buona parte pacifiche, anche se poi strumentalizzate da una minoranza di violenti, contro il green pass o, poniamo, contro la TAV, non sono che l’epifenomeno di una questione molto più vasta: la disaffezione o piuttosto il disprezzo di buona parte degli italiani nei confronti del sistema partitocratico. Green pass o no TAV fanno provvisoriamente da collante a questa disaffezione. Mi rifiuto di credere che il 48% dei cittadini italiani che alle recenti amministrative hanno disertato le urne siano fascisti o neofascisti o anche semplicemente dei militanti no vax. Sono persone che rifiutano l’attuale sistema partitocratico, in favore di una vera democrazia, e lo fanno nel modo più pacifico possibile: con il non voto. È su questo che la classe politica attuale dovrebbe riflettere invece di lasciarsi andare a facilissimi, e strumentali, crucifige di Forza Nuova o di chi per lei. Insomma la classe politica dovrebbe innanzitutto, e soprattutto, guardar dentro se stessa.    

"Anche il più puro dei puri trova sempre qualcuno più puro di lui, che lo epura" ( Pietro Nenni )

Il Fatto Quotidiano, 14 Ottobre 2021