0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha elogiato, nel momento del definitivo disimpegno dall’Afghanistan, le nostre Forze Armate. E in effetti siamo riusciti a lasciare Kabul in fretta ma con una certa compostezza. Del resto nel fuggire noi italiani siamo specialisti. Uno dei primi a lasciare Kabul è stato l’ambasciatore Vittorio Sandalli che avrebbe dovuto essere invece uno degli ultimi, seguendo una collaudata tradizione che va dalla fuga scomposta della borghesia delle retrovie nel 1917 quando i fanti-contadini ruppero le righe a Caporetto stufi di farsi ammazzare, a pro di quella stessa borghesia vergognosamente in fuga che a quella guerra li aveva spinti, in nome della tattica omicida dell’"attacco frontale" del generale Cadorna, e prosegue con il Re e Badoglio che, con ben forniti bagagli, se la filano da Roma lasciandola in balia dei tedeschi, con Mussolini, che dopo tanta retorica sulla "bella morte", che aveva convinto tanti giovani fascisti ad andare a morire per Salò, scappa travestito da soldato tedesco e finisce, più recentemente, con Bettino Craxi che condannato a più di dieci anni di reclusione si rifugia in Tunisia gettando fango sul nostro Paese di cui pur era stato Presidente del Consiglio e quindi, in definitiva, su se stesso.

Sul comportamento delle Forze Armate italiane in Afghanistan c’è qualcosa da dire. Siamo stati fedeli come cani agli americani, ma sleali come servi. Quando nell’autunno del 2003 il primo gruppo di alpini della Taurinense si installò a Khost sostituendo gli americani, i nostri comandi fecero subito un accordo con il comandante talebano del luogo, Pacha Khan: noi avremmo fatto solo finta di controllare il territorio, i Talebani non ci avrebbero attaccato, limitandosi a qualche azione dimostrativa per non insospettire gli alleati anglosassoni. Questi accordi costellano buona parte della nostra presenza militare in Afghanistan, provocando numerosi incidenti con i nostri alleati. Il più grave avvenne a Sarobi. Gli italiani avevano stretto il solito accordo di non belligeranza con i Talebani. In quella zona quindi la situazione era stata per molto tempo tranquilla. I francesi sostituirono il contingente italiano che non li avvertì del tacito accordo preso con i Talebani. I soldati francesi si mossero quindi nella convinzione che non ci fossero pericoli e non presero quindi le necessarie precauzioni. Furono attaccati di sorpresa da un commando talebano e subirono la più grave perdita che i nostri cugini d’oltralpe hanno avuto in Afghanistan: tredici paracadutisti ci lasciarono la pelle, venti furono feriti gravemente. Il colonello dei marines Tim Grattan sbottò: "Ora tocca agli italiani fare la loro parte. Stringere patti con i comandanti Talebani è perdente. I nemici si combattono e basta".

Questo nostro atteggiamento spiega il numero relativamente basso di perdite che in vent’anni abbiamo subito in Afghanistan: 54 morti. Ma solo 31 in combattimento, 10 per incidenti stradali, due di infarto, uno per malattia e un "addestratore" che si è incidentalmente sparato addosso, altri per annegamento. Gli olandesi, che si sono battuti bene in Afghanistan in una delle zone più pericolose, l’Uruzgan, hanno perso 24 uomini, tra cui il figlio del loro comandante, su 1900 effettivi, e quindi proporzionalmente molto più di noi. Gli inglesi, che sono forse quelli che si sono battuti meglio, hanno perso circa 450 uomini, gli americani, pur combattendo prevalentemente con l’aviazione, 2300.

Non pensi il lettore che io disprezzi i soldati italiani che hanno operato in Afghanistan (molte più perplessità le ho sui loro comandi e sui vari ministri della Difesa cui erano sottoposti). La mia biografia del Mullah Omar è dedicata proprio ad un soldato italiano, il caporalmaggiore degli Alpini Matteo Miotto. Nell’inverno del 2010 Miotto, veneto, orgoglioso delle proprie radici, scriverà questa lettera al Gazzettino di Venezia: "Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora capisci che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi". Questa lettera la pubblicai solo io sul Gazzettino di Venezia che devo dire, pur essendo un giornale conservatore molto lontano dal mio pensiero, mi ha sempre permesso di scrivere ciò che pensavo e solo ciò che pensavo. Fosse dipeso da me quella lettera l’avrei fatta pubblicare sulla prima pagina dei principali quotidiani italiani. Forse così anche i nostri dirigenti politici avrebbero capito quello che il ventiquattrenne Miotto aveva capito. Orgoglioso delle proprie radici e delle proprie tradizioni comprendeva che anche altri popoli, pur tanto diversi da noi, possono avere, ed hanno, gli stessi sentimenti di appartenenza nazionale o etnica. Se i politici occidentali avessero capito quello che aveva capito il soldato Miotto, se avessero rispettato la cultura afghana senza ergersi a "cultura superiore" probabilmente la guerra all’Afghanistan, se depurata dai loschi interessi che ci hanno portato là, non ci sarebbe mai stata. Dall’intero tono della lettera si capisce che Matteo non era convinto che la guerra cui stava partecipando fosse giusta, che fosse giusto combattere altri ragazzi come lui, diversissimi in tante cose ma con dei valori essenziali condivisi: la difesa delle proprie radici, della propria identità, della propria dignità, della propria sovranità nazionale. Non era convinto, ma da bravo soldato, da veneto orgoglioso e fiero, ha fatto il suo dovere fino all’ultimo. Morirà in combattimento due mesi dopo questa lettera, mentre il ministro della Difesa Ignazio La Russa (perché abbiamo avuto anche un La Russa come ministro della Difesa) dandosela da D’annunzio per meno abbienti sorvolava in elicottero Herat, dove era concentrato il nostro contingente, sganciando volantini con cui i nostri soldati si pulivano giustamente il culo.

Il Fatto Quotidiano, 5 Settembre 2021

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

"Il combattente che non combatte perde ogni legittimità" (Il Mullah Omar)

La disastrosa guerra all’Afghanistan si è conclusa nel più sciagurato e nello stesso tempo emblematico dei modi: per colpire una cellula dell’Isis un drone americano ha ucciso dieci persone tra cui sei bambini. Se le cose stanno così i costi superano i benefici. La cosa migliore sarebbe che l’`intelligence` americana segnalasse ai Talebani dove sono le cellule Isis e poi lasciare che siano loro ad operare sul campo. Dico che quest’ultima, drammatica, scena è emblematica perché riguarda l`intero modo con cui gli occidentali  hanno combattuto, o per meglio dire non hanno combattuto, la guerra afghana, usando preferibilmente i B52 e i droni. Una cosa che ha compattato la maggioranza della popolazione afghana, talebana, non talebana, anti-talebana, perché nella loro concezione questo è un modo troppo vile di combattere.

Una collaborazione fra Talebani e americani è oggi possibile, perché comune è il nemico: l’Isis. Per la verità i Talebani combattevano l’Isis già da cinque o sei anni, da quando gli uomini dello Stato islamico avevano cominciato a penetrare in Afghanistan. Ma dovendo combattere su due fronti, contro gli occupanti occidentali e i terroristi dell’Isis, avevano trovato molte difficoltà a fermare quella avanzata. Sbarazzatisi degli occupanti adesso avranno le mani molto più libere.

Detto questo trovo ingenerose e persino vili le feroci critiche con cui alcuni governanti europei e i media internazionali (con qualche eccezione, Paolo Mieli, Corriere della Sera, 25/8) hanno coperto Joe Biden per il fatto stesso di aver lasciato l’Afghanistan. Per la verità questa decisione era stata presa da Trump (diamo a the Donald quello che è di the Donald) ed era l’unica possibile perché era assurdo continuare una guerra ventennale che, come aveva riconosciuto lo stesso Pentagono, "non si poteva vincere", e che, oltre ad avere un costo enorme, causava ogni anno migliaia di vittime civili. Biden non ha fatto che seguire quella strada. In modo maldestro certamente, ma non è lui il responsabile del disastro afghano. Dico che è vile da parte degli europei colpire gli Stati Uniti in un momento di indubbia debolezza perché li avevano seguiti fin qui come cani scodinzolanti anche nelle decisioni più sbagliate. Si poteva capire fin da subito che i talebani erano un obiettivo sbagliato e che gli uomini del Mullah Omar nulla avevano a che spartire con Bin Laden tranne il fatto che se l’erano trovato sul proprio territorio (ce lo aveva portato Massud dal Sudan). Il giorno dopo l’attentato dell’11 settembre, mentre le folle arabe di tutto il mondo scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, il governo del Mullah Omar mandò un comunicato ufficiale di condoglianze al governo degli Stati Uniti e al popolo americano che così recitava: "Bismullah ar-Rahman ar-Rahim [Nel nome di Allah, della grazia e della compassione] Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center e al Pentagono. Condividiamo il  dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che siano puniti e ci auguriamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni". Ma gli Stati Uniti non furono affatto prudenti, la loro voglia di vendetta era troppa e doveva essere pur scaricata su qualcuno. E non cambiarono atteggiamento nemmeno quando qualche anno dopo fu accertato che la dirigenza talebana dell’epoca era assolutamente all’oscuro di quell’attentato. Ormai i talebani dovevano essere bollati come "terroristi internazionali", anche se terroristi internazionali non lo sono stati mai. Perché non sono mai usciti dal loro paese come del resto l’Afghanistan stesso non è mai uscito dai propri confini, non ha mai aggredito ma è sempre stato aggredito, dagli inglesi nell’Ottocento, dai sovietici nel 1979-1989 e dagli occidentali a partire dal 2001.

I responsabili della tragedia afghana con i suoi errori e i suoi orrori (le vittime civili, secondo calcoli approssimativi sarebbero 170.000, ma in realtà sono molte di più perché nessun organismo internazionale s’è mai preso la briga di fare calcoli più precisi e queste vittime sono nella maggior parte dei casi opera degli occidentali) vanno quindi ricercati nei presidenti americani George W Bush e Obama che hanno preceduto Trump. Nessun commentatore europeo ha mai alzato un laio per quelle vittime e anche il Papa, che ogni giorno prega per questo e per quello, si è accorto solo adesso che esiste un paese che si chiama Afghanistan.

Quale sarà il futuro dell’Afghanistan è difficile prevedere. La cosa migliore è che tutte le potenze e medio potenze si tolgano di mezzo, questa esperienza è già stata fatta. È toccato al comandante delle truppe sovietiche che occuparono l’Afghanistan dire anni fa la cosa più sensata. A un giornalista di Rai 1 che gli chiedeva "che cosa possiamo fare per salvare l’Afghanistan?", rispose "bisogna lasciare che gli afghani si salvino da soli".

Adesso il problema maggiore, Isis a parte, è il rapporto tra pashtun, che rappresentano il 42% della popolazione, e i tagiki che sono il 27%. Quando si parla di un governo "inclusivo" si pensa ad un esecutivo che comprenda anche rappresentanti tagiki pur se son stati proprio i tagiki, con il loro capo Aḥmad Sham Massud, il "Leone del Panjshir", ad aprire la strada agli americani. È dubbio che in questo governo possa entrare il figlio di Massud. Per due motivi. Perché mentre i suoi coetanei si battevano, versando litri di sangue, contro gli occupanti, lui se ne stava a Londra e a Parigi. E soprattutto perché le sue prime dichiarazioni sono molto bellicose nei confronti dell’attuale governo provvisorio talebano. Si rischierebbe cioè un’altra guerra civile, interetnica, quella che il Mullah Omar aveva stroncato nel 1996 dando sei anni di ordine e di pace a quel paese.

Il Fatto Quotidiano, 1 Settembre 2021

 

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Gianni Riotta, neoeditorialista di Repubblica, intervistato a Sky Tg24 da Milo D’Agostino, ha affermato: “E’ noto che i Talebani sono una creatura del Pakistan”. E’ noto solo a lui. E’ già un falso, come ho cercato di dimostrare nei precedenti articoli, che i servizi segreti pachistani abbiano aiutato il movimento talebano, ma nessuno si era mai spinto a dire che questo movimento è stato creato dal Pakistan. Nel 2001 prima dell’attacco all’Afghanistan, il Pakistan, alleato degli Stati Uniti, aveva fornito agli americani le basi aeree perché i loro bombardieri potessero agire partendo più da vicino. E allora che senso ha creare un movimento per poi distruggerlo? Ce lo spieghi Gianni Riotta. Come ho già raccontato, ma con la disinformatia occidentale, così unilaterale e zeppa di menzogne da superare quella sovietica, è necessario ogni volta, poiché siam soli, ripetersi, il più devastante attacco al movimento talebano fu opera dell’esercito pachistano, quello della valle di Swat del maggio del 2009. Quell’attacco oltre a un numero imprecisato di morti provocò un milione di profughi (in realtà saranno due) Il Corriere della Sera titolerà: “Un milione in fuga dai Talebani”. Invece fuggivano dall’attacco dell’esercito pachistano teleguidato dal generale americano David Petreus. Commenterà lo stesso Petreus: “La sfida dei Talebani ha ‘galvanizzato’ l’esercito del Pakistan”. E allora come può essere, lo chiediamo a Riotta e a tutti i Riotta, che il Pakistan fosse un alleato dei talebani o addirittura li avesse creati? Il titolo del Corriere capovolgeva la realtà ed è esattamente questo tipo di disinformazione che oggi in Occidente, pretende di informarci. I Talebani, a differenza dei “signori della guerra”, armati dagli americani, non avevano nemmeno missili terra-aria Stinger e allora, lo chiediamo a Riotta e a tutti i Riotta, che aiuto mai è venuto loro dai servizi segreti pachistani? La verità è che quello talebano-afghano fu un movimento spontaneo che reagì agli abusi, ai soprusi, agli stupri, alle prepotenze, dei “signori della guerra” che si erano trasformati, loro stessi e i loro sottoposti, in bande mafiose che spadroneggiavano in Afghanistan come volevano. Dirà il giovane Omar: “Come potevamo restare fermi mentre si violentavano le ragazze e si faceva ogni sorta di violenza sulla povera gente”. Ai giovani talebani afghani si uniranno poi molti studenti delle madrasse pachistane, ma fu anche questo un movimento spontaneo, dal basso, che nulla aveva a che vedere col governo del Pakistan.

Si possono considerare i Talebani come si vuole, ma non si può arrivare al punto spregevole di volergli togliere anche la dignità di una guerra di indipendenza, vinta con armi di fortuna, contro alcuni dei più potenti eserciti del mondo, contro la disinformazione occidentale, contro l’opinione pubblica occidentale  che non ha mai emesso un fiato per le centinaia di migliaia di vittime civili che abbiamo fatto in Afghanistan, con i nostri bombardieri più che con i nostri soldati.

I Riotta, e tutti i Riotta, prima di dire sciocchezze e alimentarsi delle proprie menzogne, dovrebbero almeno cercare di informarsi un poco. Leggersi per esempio due libri di Ahmed Rashid, lo scrittore e giornalista pachistano considerato il maggiore esperto dei problemi dell’Asia Centrale e in particolare dell’Afghanistan: Talebani del 2001 (edizioni Feltrinelli) e Caos Asia del 2008 (edizioni Mondadori). In Talebani Rashid racconta come gli uomini del Mullah Omar arrivarono al potere. In Caos Asia documenta la corruzione endemica di tutti gli apparati dello Stato all’epoca del fantoccio Karzai (con Ashraf Ghani andrà anche peggio): governo, amministratori provinciali, polizia. Sulla strada del passo del Salang, fondamentale perché collega il nord dell’Afghanistan a Kabul, gli autotrasportatori dovevano pagare venti taglie alla polizia o a vari gruppi di tagliagole. Con Omar si pagava un solo pedaggio, com’è per le nostre autostrade. La magistratura era, ed è rimasta fino all’ultimo, così corrotta che da anni gli afghani preferivano affidarsi a quella talebana. Insomma per avere una sentenza favorevole bisognava pagarsela.

Infine. E’ la prima volta, credo, nella storia del mondo, che a voler dettare le condizioni non sono i vincitori ma i vinti. In Italia a fare la voce grossa contro la decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan, come era stato pattuito con i Talebani nei colloqui di Doha, sono soprattutto Salvini e Berlusconi. A parte che ai Talebani di Salvini e Berlusconi non frega assolutamente nulla, per loro fortuna non sanno nemmeno chi sono, ci vadano i nerboruti leghisti e i forzuti berlusconiani, a cominciare da Giorgio Mulé, a combattere i Talebani. Per lo meno ce ne saremmo liberati per sempre.

Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2021

Per l'ultimo capoverso di questo articolo, in particolare per il riferimento a Giorgio Mulé, vengo attaccato da tutte le parti. Non ho intenzione di difendermi dicendo che era una battuta. Mulé non è un berlusconiano qualsiasi, è il sottosegretario alla Difesa, e quindi ha il dovere di soppesare attentamente ciò che dice. E cosa dice quando dice "Qualsiasi deadline è priva di senso": che dobbiamo restare in Afghanistan anche quando gli americani se ne vanno? E' lui che deve chiarire, non io.

m.f.