“Apre bocca e gli dà fiato” è un detto toscano riferito a persona che parla di cose che non conosce. Un tipico “apre bocca e gli dà fiato” seriale, perché ha una rubrica quotidiana sul Corriere della Sera, Il Caffè, è Massimo Gramellini.
Io credo che il primo dovere di un giornalista sia quello di documentarsi, soprattutto quando entra in campi di cui non si è mai occupato. Nel suo Il Caffè del 17/9 intitolato “Talebani distensivi” Gramellini prende spunto da una notizia falsa per poi argomentare in modo altrettanto falso: l’uccisione di Baradar, attuale presidente provvisorio dell’Afghanistan, da parte di suoi avversari politici, gli haqquani. Sarebbe bastato che Gramellini telefonasse al suo collega Lorenzo Cremonesi, che è su quel campo da molti anni, per accertare che quella notizia era una balla.
Con i piedi poggiati su questa fake Gramellini costruisce il suo articolo che è un attacco nei miei confronti, ma senza fare il mio nome, nel modo viscido che è il costume del Corriere “il giornale più vile d’Italia” come lo definii in un’intervista che mi fece Beppe Severgnini. E Severgnini, molto all’inglese, non batté ciglio perché non è Gramellini.
Cosa dice dunque Massimo Gramellini nel suo pezzo: “A Kabul l’ultimo Consiglio dei ministri è stato piuttosto movimentato, con i talebani che si sparavano addosso tra di loro e il capo dei cosiddetti moderati, Baradar, dato per disperso. Al momento nessuno sa dire dove sia: se in ospedale o sottoterra. Si tende a sopravvalutare il Male: ogni tanto sembrerebbe una farsa, se non fosse sempre una tragedia. Tornano alla mente le lucide analisi di certi pensatori italiani che per puro odio verso l’America e i valori occidentali sono arrivati a dipingere i talebani come valorosi guerrieri tutti d’un pezzo. Ruvidi, magari, e un tantino retrò sul concetto di uguaglianza tra i sessi, ma nobili e cavallereschi. In realtà si tratta di clan tribali che litigano per le poltrone peggio di un manipolo di sottosegretari nostrani, ma con metodi decisamente più spicci e guidati dai capimafia che, appena si trovano intorno allo stesso tavolo per spartirsi il bottino, cercano di eliminarsi a vicenda…. Quell’anima di Giushappy Conte, immediatamente imitato dai trombettieri della sua corte, aveva colto nei primi atti del nuovo regime ‘un atteggiamento abbastanza distensivo’. Dopo la sparatoria dell’altro ieri osiamo sperare che abbia cambiato avverbio e soprattutto aggettivo. Forse con i talebani bisogna trattare. Ma come si tratta con un bandito che ti ha rapito la nonna e le tiene un coltello sotto la gola. Senza concedere loro neanche per un attimo lo status di legittimi rappresentati di una nazione.”
Perché Gramellini non si pone una domanda semplice semplice. È possibile che un gruppo di ragazzi, perché allora erano dei ragazzi, studenti delle madrasse (talib vuol dire appunto ‘studente’, che allora non sapevano nemmeno di essere talebani, il nome gli venne dato dopo) abbiano potuto ingaggiare una guerra di indipendenza contro il più forte esercito del mondo durata oltre vent’anni e per soprammercato vincerla, senza avere l’appoggio della maggioranza della popolazione? Sia chiaro, a Gramellini e a tutti i Gramellini, che nei Talebani io non difendo la loro ideologia sessuofobica, che mi è completamente estranea, ma il diritto di un popolo, o di parte di esso, a resistere all’occupazione dello straniero. Altrimenti prendiamo la nostra Resistenza su cui abbiamo fatto tanta retorica, che è durata un anno e mezzo e aveva l’appoggio degli Alleati, mentre i talebani non avevano il sostegno di nessuno, e buttiamola nel cesso. Trovo piuttosto indecente immiserire la lotta d’indipendenza afgano-talebana, che è costata fiumi di sangue, a uno scontro fra clan mafiosi, tipo quello cui assistiamo quotidianamente in Italia fra i partiti. A furia di guardare il mostro si finisce per assomigliargli.
Che l’Afghanistan sia formato da clan Gramellini l’ha orecchiato da Anselma Dell’Olio che l’ha orecchiato da qualcun altro che a sua volta l’ha orecchiato da altri ancora. Gli occidentali si alimentano delle proprie menzogne e finiscono per crederci. Clan o non clan, diversità tribali e no, il fatto è che gli afgani hanno un fortissimo senso di identità nazionale basato su valori ideali che sono scomparsi in Occidente e che ha permesso loro nell’Ottocento di cacciare, dopo una lotta durata trent’anni, gli inglesi, nel Novecento di sconfiggere i sovietici, di ricompattarsi sotto la guida del Mullah Omar contro quegli avventurieri chiamati “signori della guerra” e infine di sconfiggere gli occidentali.
Gli occidentali non riescono proprio a digerire di essere stati sconfitti da quel gruppo di straccioni chiamati Talebani. E in effetti questa è una sconfitta molto più sanguinosa di quella che gli americani subirono in Vietnam. Perché i Viet Cong avevano l’appoggio della Russia e della Cina e, a livello culturale, dell’intellighenzia europea che allora era orientata in senso comunista. Quante volte abbiamo visto in Italia e in Europa grandi manifestazioni contro la guerra del Vietnam? Per la guerra all’Afghanistan non ce n’è stata neanche una.
Quanto al mio antiamericanismo, che non è rivolto contro il popolo americano che è un popolo naif, deliziosamente ingenuo tanto da ingurgitare qualsiasi balla, ma alla leadership yankee democratica o repubblicana che sia, non c’è bisogno di alcun odio preconcetto. Basta, come il Sancio Panza di Guccini, guardare i fatti. Lasciando perdere l’Afghanistan è dal 1999, guerra alla Serbia, per proseguire poi con la guerra alla Somalia (2006-2007) per interposta Etiopia, a quella all’Iraq del 2003, a quella contro la Libia del colonello Mu’ammar Gheddafi del 2011, per capire che gli Stati Uniti ci hanno trascinato in guerre disastrose, non solo per i popoli aggrediti, a spanna un milione e mezzo di morti, che si sono alla fine rivolte contro l’Europa.
Che l’idillio con i vincitori della Seconda Guerra Mondiale fosse finito lo ha detto quattro o cinque anni fa Angela Merkel quando dichiarò paro paro: “gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli”. Se poi Massimo Gramellini vuole arruolare anche Merkel fra gli odiatori sistematici dell’America faccia pure. Io mi sono sempre sentito estraneo al concetto di Occidente, un agglomerato che ricorda in modo sinistro l’Eurasia e l’Estasia dell’Orwell di 1984. Io mi sento un europeo che ha alle spalle una grande tradizione, a cominciare dalla cultura greca, non uno yankee. Écrasez l'infâme!
Il Fatto Quotidiano, 21 Settembre 2021
"Il bello del senso di colpa è che la pena ricade regolarmente sulla testa degli altri" (Il Ribelle dalla A alla Z).
Il Panshir è stato conquistato in soli quattro giorni, con pochissime perdite da una parte e dall’altra. Perché i tagiki hanno di fatto rinunciato a combattere. Il figlio di Massoud, Ahmad Massoud junior, dopo i roboanti proclami in cui dichiarava che era disposto a resistere armi in pugno fino alla morte, è fuggito in Tagikistan insieme all’ex vicepremier Amrullah Saleh. Se te ne stai a Londra e a Parigi mentre i tuoi coetanei combattono l’occupante straniero non basta essere figlio del "leone del Panshir" per acquistare dimestichezza col combattimento e soprattutto il carisma necessario. Inoltre i giornalisti occidentali che sono riusciti a raggiungere il Panshir, come il bravissimo Lorenzo Cremonesi, hanno costatato, "con sorpresa" dicono, che molti tagiki erano arruolati alla causa talebana. È stato anche per la loro conoscenza dei luoghi, un intricatissimo crocevia di piccole e profondissime valli fino a ieri considerate inespugnabili, che la battaglia è stata breve e quasi incruenta. Che molti tagiki fossero diventati talebani non è per noi una sorpresa e non dovrebbe esserlo nemmeno per i nostri lettori. Più volte abbiamo scritto che la perdurante occupazione americana, con lo strascico di decine di migliaia di vittime civili causate soprattutto dai bombardieri e il modo vile di combattere degli occidentali, aveva finito per compattare tutti, o quasi, gli afghani: "talebani, non talebani, anti-talebani". E fra gli "anti-talebani" c’erano soprattutto i tagiki, loro storici avversari, col dente avvelenato perché il Mullah Omar e i suoi uomini li avevano battuti durante la guerra civile del 1994-1996, ricacciando Massoud nel Panshir e costringendo gli altri "signori della guerra", Ismail Khan e Gulbuddin Hekmatyar, forse il personaggio più sibillino della compagnia, a rifugiarsi in Iran e l’uzbeco Rashid Dostum a scappare in tutta fretta in Uzbekistan.
Questa è la più importante e confortante notizia che ci viene dall’Afghanistan. Perché significa che non ci sarà alcuna guerra civile fra pashtun e tagiki come qualcuno aveva paventato e forse sperato, francesi in testa. Non ci sarà cioè quel conflitto civile fra "signori della guerra" cui il Mullah Omar pose fine nel 1996 e che è all’origine della tragedia afghana dell’ultimo quarto di secolo.
Nel frattempo i Talebani cercano di mostrarsi nel modo più rassicurante possibile. Come aveva fatto il Mullah Omar nel 1996 dopo la presa del potere hanno proclamato un’amnistia generale per tutti gli afghani che, anche ad alti livelli, hanno collaborato con gli occupanti. Del resto il nuovo governo a guida talebana ha bisogno, per ricostruire un paese devastato da vent’anni di guerra, di tecnici, di ingegneri, di medici, di personale specializzato e non può permettersi di essere troppo integralista su questo punto. Inoltre, e per lo stesso motivo, il governo talebano ha inviato una lettera ufficiale a Martin Griffiths, vicesegretario Onu per gli Affari umanitari, in cui si impegna a "levare ogni ostacolo agli aiuti, proteggere la vita degli operatori umanitari, non entrare nelle basi Onu e di altre Ong" e chiede aiuto alla comunità internazionale "per la ricostruzione e la lotta al narcotraffico".
Resta il problema della scuola. È molto difficile che i Talebani rinuncino a un loro chiodo fisso: la separazione degli edifici per gli studenti maschi e femmine saranno sicuramente escluse le classi miste, che del resto non c’erano da noi nemmeno quando studiavo io e le ragazze dovevano indossare dei casti grembiuli neri. In quanto ai programmi scolastici che verranno stabiliti dal Ministero dell’Istruzione, se saranno schiacciati completamente sulla sharia o aperti anche alla cultura occidentale, è questione che non ci riguarda.
Il Fatto Quotidiano, 17 Settembre 2021
No. Non sarò così disonesto con me stesso e con i lettori scrivendo che mi sciolgo in lacrime per quanto accadde vent’anni fa a New York. Non lo feci nemmeno allora mentre la tragedia era in corso. Quando accendendo la televisione vidi quello che tutti noi abbiamo visto fui preso da un sentimento ambivalente: da una parte un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano, ma d’altro canto pensavo che quell’evento avrebbe potuto essere un utile insegnamento per gli americani, colpiti, per la prima volta nella loro storia, sul proprio territorio. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano bombardato a tappeto, con tranquilla coscienza, Dresda, Lipsia, Berlino, col preciso intento, come dichiararono i loro comandi politici e militari, di uccidere milioni di civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco” e avevano sganciato una terrificante bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti. Adesso con l’11 settembre sapevano anche loro cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli crollare su se stessi lasciando sul terreno migliaia di vittime. Invece il cowboy, stordito da quel colpo imprevisto, cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan. Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nei commandos che colpirono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non c’era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre (do you understand? Adesso mi tocca parlare in inglese perché l’italiano ormai non lo capisce più nessuno). Il problema era semmai Osama Bin Laden. Ma ottenere la consegna dell’ambiguo Califfo saudita da parte dei Talebani – il Mullah Omar lo disprezzava, lo chiamava “un piccolo uomo” – non sarebbe stato difficile sol che gli americani non si fossero comportati con la consueta arroganza. Del resto durante l’amministrazione Clinton, dopo gli attentati del 1998 in Kenia e Tanzania, c’erano già stati, per iniziativa dello stesso Clinton, dei contatti tra l’amministrazione Usa e i Talebani per uccidere Bin Laden. Perché il Califfo era un problema per entrambi: per gli americani ma anche per i Talebani perché per uccidere Bin Laden gli yankee bombardavano a tappeto le alture di Khost, dove pensavano si trovasse Osama, uccidendo centinaia di civili afghani che con Osama non avevano nulla a che fare. Ma all’ultimo momento fu proprio Clinton a tirarsi indietro. Dopo l’11 settembre fu il modo con cui gli americani pretesero la consegna di Bin Laden ad essere decisivo. Il Mullah Omar chiese che fossero fornite delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden fosse davvero alle spalle degli attentati dell’11 settembre. Gli americani risposero arrogantemente: ”le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. A questo punto il Mullah Omar replicò che a quelle condizioni non poteva consegnare una persona che stava sul suo territorio. Cioè si comportò come avrebbe fatto qualsiasi Capo di Stato di un Paese sovrano. O meglio: come non avrebbe fatto nessun Capo di Stato, perché con quella decisione, presa per motivi di principio, il Mullah Omar si giocava il potere e in definitiva anche la vita. Come poi avverrà.
In un lucido articolo scritto per il Fatto (Dalle Torri Gemelle a Kabul: così è crollato l’impero Usa) Pino Arlacchi sostiene che dopo il collasso dell’Urss gli americani avevano bisogno di ricreare un nemico per legittimare la propria egemonia sul mondo occidentale. Ma come nemico mortale l’Afghanistan era un po’ deboluccio. Così vennero le successive demonizzazioni dell’Iraq (per carità, le armi di distruzione di massa Saddam gliele avevano date gli americani, i francesi e i sovietici, in funzione antiiraniana e anticurda, ma al momento dell’attacco del 2003 non le aveva più perché le aveva già usate sugli iraniani e sui curdi) e della Libia di Gheddafi le cui conseguenze disastrose sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma a furia di creare pericoli inesistenti l’atteggiamento degli americani, seguiti come cani fedeli dagli europei con l’eccezione della Germania di Angela Merkel, ha finito per diventare, come scrive ancora Arlacchi, “una profezia che si autoavvera”. E la profezia che si è autoavverata è oggi l’Isis. Proprio la distruzione dello Stato Islamico di Al Baghdadi ha messo in circolazione i veri terroristi internazionali che adesso scorrazzano in tutto il mondo e potrebbero diventare un pericolo che colpisce l’Occidente non solo dall’esterno ma anche dall’interno. Gli Isis sono oggi in Afghanistan (ma verranno spazzati via dai Talebani che adesso non devono più combattere anche gli occupanti occidentali), in Pakistan, in Somalia, in Mali, perfino nelle Maldive, come ha documentato la bravissima Francesca Borri, in altre aree dell’Africa ex nera, in particolare, nella forma più truce, in Nigeria col gruppo Boko Aram. Isis non è uno stato è un’epidemia ideologica. E potrebbe anche contagiare molti occidentali che finora si sono fatti sedurre dalla sua ideologia totalitaria solo in piccoli gruppi (i foreign fighters). Ma di fronte al vuoto di valori che contraddistingue l’Occidente molti più europei potrebbero esserne attratti. Meglio il Male del nulla.
Il Fatto Quotidiano, 14 Settembre 2021